di DAVIDE COBBE, DEVI SACCHETTO, LUCA COBBE
In modo intermittente, cioè in maniera molto diversa rispetto al passato, gli operai italiani ritornano costantemente al centro dello scontro politico di questo paese. Qualche anno fa quelli di Pomigliano e Mirafiori sono stati accusati di mettere a rischio i 20 miliardi di euro di investimenti promessi dalla Fiat e poi mai visti. Corrado Clini, che già si era allenato con gli operai di Porto Marghera, nella sua boutade agostana l’ha sparata ancora più grossa: gli operai dell’Ilva che chiedono ambienti salubri sono i responsabili della fuga degli investitori stranieri. Se nel caso della Fiat, qualche sindacato (la Fiom-Cgil e i Cobas) aveva provato a ridicolizzare Sergio Marchionne, nel caso di Clini il silenzio è piuttosto assordante. D’altra parte le forze politiche governative di ieri e di oggi amplificano il rimbombo, ammonendo che è in gioco niente meno che il futuro dell’Italia industriale. Emilio Riva d’altra parte non è un padrone qualsiasi e i verbali delle intercettazioni dipingono un quadro piuttosto articolato di persone coinvolte direttamente e indirettamente nella gestione ambientale e sanitaria. A quanto pare il buon padrone organizza la produzione, ma anche l’inquinamento e i sistemi destinati a nasconderlo. Vedremo quante notti carabinieri e custodi giudiziari passeranno a registrare che il flusso produttivo continua indisturbato. Intanto è piuttosto chiaro che tra Marchionne e Riva l’Italia industriale ne esce piuttosto male: quando non è sfruttata a pezzi sotto il marchio Chrysler, è sporca da fare schifo.
Forse per difendere tutto questo, Taranto sta diventando il crocevia di strategie sindacali, padronali e politiche. Qui ricadono le contraddizioni e i conflitti che da tempo attraversano la società italiana. Due ministri spediti in fretta e furia a imporre le volontà di un governo industriale non sono una cosa che a Taranto si veda tutti i giorni. Il 17 agosto a contestare la discesa dei «tecnici» Corrado Clini e Corrado Passera, inviati per capire come bloccare tecnicamente la magistratura, c’erano 2000 persone riunite intorno al «Comitato cittadini, e lavoratori liberi e pensanti». Non c’erano le folle ma, per una città fino a poco fa ostaggio di se stessa, questi numeri sono significativi. La composizione trascinata in piazza da «u tre rote», che aveva già reso palese la debolezza sindacale il 2 agosto durante lo sciopero, era piuttosto variegata: ambientalisti della prima ora, abitanti del quartiere Tamburi (adiacente all’acciaieria e il più colpito dall’incidenza dei tumori), centri sociali e attivisti politici di movimento, sindacati di base, la Taranto munita di coscienza civica e una manciata di operai.
In effetti, in questi quindici giorni i sindacati confederali non sono certo stati a guardare. Diventa sempre più chiara l’aziendalizzazione di Fim-Cisl e Uilm-Uil, prone agli interessi del padronato con l’idea che questa mossa possa salvaguardare l’occupazione e il ruolo del sindacato. Una parte degli operai, come a Pomigliano e Mirafiori, è schiacciata su queste posizioni ritenendo impraticabili altre strade. La Fiom-Cgil, dal canto suo, ha cercato di uscire dall’angolo in cui si era cacciata, ma non ha con ciò eliminato le sue difficoltà. A Taranto come in altre parti d’Italia è una Fiom che non ha propriamente le caratteristiche che il suo leader, Maurizio Landini, ha raccontato in questi anni. Commissariata e in una continua emorragia di iscritti, solo nelle ultime due settimane si è smarcata dall’abbraccio mortifero di Fim e Uilm. Il segretario regionale Donato Stefanelli, per esempio, qualche giorno fa ha espresso una chiara opinione sulla Masseria Vaccarella, circolo del dopolavoro di proprietà dell’Ilva, ma gestito dai sindacati. «L’accordo con l’Ilva che trasferì ai sindacati la gestione del circolo Vaccarella va ridiscusso… Il sindacato non deve gestire nulla, deve tornare a fare il sindacato… Noi, dobbiamo stare con i lavoratori». Stefanelli parla «da presidente della Fondazione Vaccarella». Se, quando ha finito di occuparsi del dopolavoro, trova il tempo e lo slancio per occuparsi anche del lavoro e delle sue condizioni dentro e fuori la fabbrica, magari la Fiom a Taranto fa un passo avanti.
La forza del tre ruote è stata quella di scuotere anime rassegnate, di dar voce e carattere a quei lavoratori, precari, studenti annebbiati dai fumi industriali. Senza troppe strategie, è stato lanciato un messaggio di cambiamento che poco timore sembra avere degli orizzonti catastrofici che gli vengono contrapposti dalla stampa, dai politici e dai sindacalisti di turno. Riprendersi il proprio presente e subito, senza farsi schiacciare dal potere del capitale. La mancanza di una base operaia allargata e l’eccessiva apertura di credito alla magistratura sono i più evidenti limiti della mobilitazione del 17 agosto. A risolvere uno dei due limiti immediati probabilmente ci ha già pensato sia il governo – che ha rinunciato a ricorrere contro le decisioni del gip – sia il procuratore di Lecce che si è detto soddisfatto dei risultati dell’incontro tra governo, parti sociali e ILVA, rimandando, guarda caso a una valutazione tecnica, il problema del blocco della produzione a caldo. Insomma, quello che a prima vista sembrava essere il puzzle scomposto della nuova governance economico-territoriale, sta ritrovando un po’ alla volta quella sintesi «statale» che pochi margini lascia alle speranze di chi aveva riposto il timone dell’iniziativa nelle mani della magistratura. I pezzi stanno tornando pian piano a posto, ricomponendo l’ordinato paesaggio «costituzionale» dello sfruttamento capitalistico. Con maggiori sfumature di verde (che non sono da sottovalutare), che lasciano però aperto il problema di trovare una sintonia con la tinta di rosso operaio con la quale il Comitato si era presentato sulla scena.
Il problema della base operaia resta quello più complesso perché attorno a esso si gioca tanto la questione della «forma politica» della lotta aperta dal Comitato quanto la sua capacità di attraversare quelle contraddizioni del lavoro e della rappresentanza sindacale che emergono ogni giorno con sempre maggiore forza. Le due questioni sono legate perché, come ha per esempio mostrato l’eterogenea esperienza americana di Occupy, la forza di incidenza e di innovazione politica si è manifestata in quelle situazioni, come a Oakland, capaci di intrecciare la loro lotta contro il capitalismo finanziario con quella di segmenti consistenti di lavoro migrante, precario e operaio. Non è un’operazione semplice. Lo è forse anche di meno in una situazione come quella di Taranto dove il diffuso, seppur legittimo, sentimento antisindacale anche tra gli stessi operai (sintomo più che evidente della crisi di un sistema) rischia di tramutarsi in un blocco di qualsiasi iniziativa che provi a scompaginare qualcosa anche dentro la fabbrica, nei suoi rapporti gerarchici di sfruttamento e ricatto. Dove le dimensioni e la mole di forza lavoro impiegata lasciano pensare all’impossibilità di ogni iniziativa politica autonoma, non mediata preventivamente dall’istituzione sindacale. D’altra parte non sembra nemmeno possibile risolvere il problema senza tener conto che a Taranto nel panorama di precarietà generalizzata esistono 11.000 eccezioni salariate. Questi 11.000 stanno in fabbrica, pur essendo cittadini, e chiedono reddito a partire dal loro salario e contro di esso. La richiesta di reddito a Taranto come altrove si mostra in tutta la sua complessità e non può essere ridotta a semplice slogan. A Taranto la richiesta di reddito avviene sia contro i limiti evidenti del salario percepito, sia per l’impossibilità di avere un reddito a causa del dispotismo della città industriale.
È per questa complessità che i numeri tarantini spaventano, ma impongono di non contrapporre i 2000 del 17 agosto a una forza lavoro di 16 o 17 mila unità circa (tra impiego diretto e indiretto nella produzione dell’acciaio). I numeri esprimono con forza ed evidenza che il destino di un’intera area si gioca sul nesso tra produzione e riproduzione sociale, tra presenza operaia e il complesso di problemi ambientali, di salute e di sussistenza di un territorio a geometria variabile, che supera di gran lunga i confini della città industriale. Il Comitato si trova di fronte a un bivio. Può accettare il rischio di attraversare questo spazio composito di differenze e contraddizioni, anche dure; oppure può rifiutare la città industriale nella logica della città espropriata della propria vita, delle proprie risorse e dei propri rapporti. Anche questa logica può esprimere il rifiuto della città industriale, ma rischia di restare confinata e quindi immune dalle differenze e dalla possibilità di fare presa su quelle contraddizioni tra gerarchie, potere, erogazione di forza lavoro, riproduzione e crisi della rappresentanza sindacale che paiono significativamente accumunare la presenza «operaia» all’interno della lotta di classe globale, come dimostrano le vicende indiane della Maruti e dei minatori di Soweto. Nella città dei due Mari, più che rinchiudersi nel Mar piccolo di una città che non c’è più, e che non ci sarà mai più, forse vale la pena di tentare la sorte e portare la barca a navigare nel Mar grande delle contraddizioni globali di classe.