di THOMAS SEIBERT – Interventionistische Linke
(…dalla Interventionistische Linke, ma non per la Interventionistische Linke…)
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Pubblichiamo l’intervento tenuto da Thomas Seibert all’interno degli eventi organizzati a Francoforte contro la Euro Finance Week nello scorso novembre. Si tratta di un contributo di grande interesse sulla crisi attuale che contiene una proposta sulle possibilità di superare politicamente le condizioni anche istituzionali che la crisi sta imponendo. Esso pone due questioni per noi essenziali, ovvero quella dell’organizzazione e quella del potere, cercando di collocarle, e quindi di discuterle, su di un piano di realtà. Ciò significa aprire il dibattito su quali sono gli strumenti che consentano di affrontare tali questioni, senza accontentarsi del presente e senza mitologici riferimenti al passato. Già lo sciopero europeo dello scorso 14N è stato un evento complesso del quale probabilmente dovremo cercare di individuare gli effetti nel tempo. La compresenza al suo interno di protesta e contestazione ha indicato un problema che chiede di essere affrontato. La rielaborazione della pratica dello sciopero è un’azione politica che deve avere come protagonisti dei soggetti reali – come per esempio i migranti – che si organizzano per affrontare la questione del potere. In nessun caso esso può essere scambiato con la riproposizione di un minoritarismo programmatico destinato a ottenere meno di nulla, se non la celebrazione dei pochi momenti necessari alla propria autorappresentazione come gruppo.
Assieme alle questioni di merito, la proposta di Thomas annuncia un criterio di metodo che va oltre il gruppo al quale comunque lui fa riferimento. Anche per questo lo pubblichiamo. Propone le questioni su una scala che anche noi abbiamo provato a impiegare, inserendo i movimenti di lotta in Europa in uno scenario che va dalla Cina agli Stati uniti. Usa un linguaggio che noi non utilizziamo, dato che non abbiamo mai praticato il lessico del comune, né abbiamo parlato di sciopero metropolitano. Questo intervento invita però ad andare oltre le definizioni usuali e rassicuranti. E questo riguarda anche noi. Non da ∫connessioni precarie, ma per le connessioni precarie…
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THOMAS SEIBERT – Interventionistische Linke
(…dalla Interventionistische Linke, ma non per la Interventionistische Linke…)
Il mio discorso è diviso in tre parti: la prima contiene una definizione di quello che, secondo me, è il problema delle politiche di risoluzione della crisi dell’UE. La seconda parte è una più lunga ricognizione del problema che noi abbiamo di fronte. Nella terza, che è ancora più lunga, voglio infine avanzare due proposte.
Io penso che non abbiamo idea di dove la complessa crisi del capitalismo globale e, nel nostro caso particolare, del capitalismo europeo ci stia portando. Penso inoltre che nemmeno la nostra controparte sappia dove ci porta la crisi. Tutti però sappiamo che ci muoviamo verso una nuova situazione, nella quale non sarà più valido molto di ciò che a noi e alla nostra controparte sembra normale e ovvio. La situazione non sarà più quella che è stata almeno negli ultimi tre decenni; magari non tutto, ma certamente molte cose saranno diverse rispetto a prima. Noi viviamo in un tempo di transizione. Estremizzando, ciò significa vivere in un tempo tra due mondi.
Prima parte: il regime-crisi dell’UE
Il regime-crisi dell’UE radicalizza proprio quelle politiche neoliberiste che nel 2008 sono state corresponsabili dello scoppio della crisi. Le forze trainanti di questo processo sono il governo tedesco e quelli del Nord Europa, cioè quegli Stati e gruppi di capitale che negli ultimi trent’anni hanno approfittato delle trasformazioni in senso neoliberista – o finanziario, o tecnologico-biopolitico, per dirla in modi diversi – del capitalismo. Ma il punto decisivo è che, a differenza della fase di crescita e di affermazione del neoliberismo, a partire dai tardi anni ’70, almeno fino a ora tutto questo non sembra essere legato a nessun progetto, né contenere alcuna promessa. Il regime-crisi ammette tutto ciò apertamente allorché afferma che i suoi attacchi ai beni pubblici, ai diritti sociali e democratici, ai nostri redditi e alla nostra dignità sono «senza alternative». In realtà il regime-crisi porta ancora avanti quella politica poco lungimirante della quale Merkel ha saputo «convincere» allo scoppio della crisi nel 2008. Questo vale anche per gli altri attori del blocco dominante e anche per i disaccordi tra loro. Questi disaccordi – tra Merkel e Hollande, tra FMI e BCE, tra Prodi e Cameron, tra nero-gialli e rosso-verdi – riguardano solo differenze tattiche nel quadro di una sottomissione pressoché incondizionata ai cosiddetti «mercati finanziari» a seguito dell’incapacità strutturale di rischiare un conflitto con il capitale. Il loro unico scopo immediatamente riconoscibile è dunque il salvataggio dei beni patrimoniali messi a rischio, la difesa delle loro posizioni minacciate dalla crisi. Per nessun altro motivo si è riunito l’entourage del capitale per la Euro Finance Week durante la quale nessuno ha portato avanti un’idea a lungo termine. Il punto su cui tutti i partecipanti si sono trovati d’accordo è la mania del risparmio, cioè l’austerità radicale, affiancata alla rapina dei beni pubblici, del reddito delle masse, alla distruzione forzata di posizioni giuridiche, all’aperta capitolazione di fronte a qualsiasi questione che riguardi le prospettive future, innanzitutto la mancanza di reddito dei giovani nell’Europa meridionale. A ciò corrisponde – e questo è il punto – la spoliticizzazione forzata della «democrazia conforme al mercato» (Merkel) e la defezione, che va avanti ormai da parecchi anni, dei suoi quadri dirigenti e la loro sostituzione da parte di «tecnocrati» che provengono dal settore della finanza. Di questo gioco fanno parte anche le mosse apertamente assurde come il premio Nobel per la pace alla UE. «Né il bue né l’asino possono fermare la marcia della UE», così potrebbe suonare la variante occidentale e capitalistica della follia del socialismo reale secondo cui, poco prima della caduta del muro,né il bue né l’asino potevano fermare la marcia del socialismo.
A ciò corrisponde, infine, l’atteggiamento di rifiuto, soprattutto da parte della politica tedesca, delle proposte di alternative immanenti al sistema che pure vengono formulate, che potrebbero stimolare il confronto politico ed eventualmente rappresentare una differenza interna al sistema.
Come si deve interpretare tutto questo? Il regime-crisi dell’UE dimostra, proprio nella radicalizzazione delle politiche neoliberiste, una posizione di debolezza. E ciò non è in contraddizione con la possibilità che tutto ciò possa condurre a svolte esplosive: è sufficiente fare riferimento al carattere continuamente autoritario della politica e al rischio di nazionalismo e razzismo, combinati con un regime di «sicurezza» ormai onnipresente in ogni ambito della vita. Se si arrivasse a forme di rifiuto più forti e forse più incontrollabili, allora bisognerebbe fare i conti in tutta Europa con «colpi di Stato finanziari» come quelli che ci sono stati in Grecia con la caduta di Papandreous e in Italia con la caduta di Berlusconi: il che non significa, in ogni caso, che dobbiamo versare anche solo una lacrima per questi gentiluomini.
Seconda parte – Il nostro problema
Anche noi abbiamo una fondamentale debolezza, nonostante l’attivismo di massa e il primo sciopero di massa europeo. La nostra debolezza risulta, da un lato, dalla divisione delle lotte e dai diversi gradi di preparazione alla lotta che sono una conseguenza della divisione che caratterizza lo stesso regime-crisi: le battaglie di massa nel Sud, resistenze molto limitate, per quanto organizzate da minoranze molto combattive, nel Nord. È esemplare la posizione dei sindacati tedeschi, che nel migliore dei casi non esprime un «tradimento delle masse pronte alla lotta dovuto a dirigenti corrotti», ma anzi la volontà politica effettiva della maggioranza dei dipendenti delle industrie orientate all’esportazione.
La nostra debolezza risulta anche dal fatto che non abbiamo nessun progetto. Con questo non intendo la mancanza di una rappresentazione condivisa di un’altra politica: questa c’è e si dispiega lungo uno spettro che va dalla difesa dei diritti sociali e degli standard di reddito sociale a vari progetti di trasformazioni socio-ecologiche, ai dibattiti sui beni comuni o sulle economie solidali, fino a programmi decisamente anticapitalistici. Intendo piuttosto la mancanza di un’idea di come queste proposte di «altri mondi» possano essere prevedibilmente realizzate. Cosa intendo con questo? Per spiegarlo è utile fare riferimento a un esempio storico: durante la maggior parte del XX secolo la sinistra ha avuto un progetto che non deve per forza piacere, ma che era comunque un progetto nel senso pieno del termine. Esso consisteva nell’idea di una via innanzitutto nazionale, cioè nazional-statale, a un socialismo di stampo leninista o socialdemocratico. La sua realizzazione era pensata o come rottura radicale o come transizione attraverso diversi stadi oppure come una combinazione di entrambe le strategie. Di conseguenza sembrava che il socialismo su scala nazional-statale fosse in qualunque momento afferrabile, «realizzabile», realistico, addirittura «realpolitico», anche nella sua forma rivoluzionaria. Nelle attuali proposte di «altri mondi» manca appunto questo tipo di realismo e di conseguenza non ci sono nemmeno dibattiti sul problema della loro realizzazione. Questo è, sicuramente, uno dei motivi per cui molte sinistre limitano il proprio intervento all’approfondimento, insinuando così che la gente non sa cosa sta succedendo veramente nella crisi. Ma è vero? Non è che la gente in realtà sa perfettamente in quale la direzione si sta andando? Non è perché lo sa che, proprio qui in Germania e proprio negli ambienti sindacalizzati, la gente punta alla partecipazione corporativa al regime-crisi? Tutto ciò non cambierebbe se ci fosse una reale possibilità di «altri mondi», un’idea concreta della loro realizzazione? E non sarebbe un’idea concreta della realizzazione di «altri mondi» proprio ciò che la gente vuole sentire da noi – al posto di qualche lezione sulla natura della crisi capitalistica? E questo vale anche per molte altre iniziative o interventi della sinistra: non è che molta gente che pure concorda sugli obiettivi non partecipa perché non sappiamo dire loro come questi obiettivi possono essere effettivamente raggiunti? Non si spiegherebbero così i sondaggi secondo i quali, per la maggioranza delle persone, il capitalismo non è il migliore dei mondi ma da ciò non vengono tratte delle conseguenze pratiche? Non si mostra ciò ancora più chiaramente nei discorsi sul «rifiuto della politica» che, non a caso preparano il passaggio verso posizioni autoritarie, nazionalistiche e razziste: quando niente va bene, si può sempre andare ancora più in basso. Questa è un’opzione sempre presente non solo qui in Germania, ma anche in Grecia, in Italia e in Spagna. Si tratta di un’opzione estremamente pericolosa che nella spiegazione generale della Interventionistische Linke e del Ums Ganze-Bündniss viene concepita come «il fantasma reazionario della particolarità nazionale e la deformazione razzista del comune».
Terza parte – ancora: crisi – quale crisi?
Ovviamente sarebbe assurdo escogitare semplicemente delle strategie di realizzazione. Non è escluso che semplicemente non ce ne siano; non è escluso che si possano delineare altrove, là dove non ha più senso limitarsi a tattiche di sopravvivenze per scamparla solo individualmente. In realtà, però, si profilano due possibilità concrete per questa realizzazione. Una riguarda i movimenti e le loro lotte, l’altra i partiti che sono legati a quei movimenti e queste lotte, e che si sono formati per lo più nell’ultimo decennio. La prima opzione ha il carattere di una speculazione che sorvola la realtà delle lotte, ma che non è senza fondamento; l’altra, invece, ha un carattere storico-locale e perciò unico e particolare, nella misura in cui sorge dalla divisione dell’Unione Europea tra Nord e Sud.
1) Il progetto dello sciopero metropolitano.
Le lotte più recenti sono, da un lato, complessivamente delle lotte metropolitane: fanno riferimento all’intero spazio della città e al «centro» della città, alle sue piazze centrali. Dall’altro, le lotte più recenti sono anche delle lotte transnazionali che hanno fatto nascere, nonostante differenze locali spesso significative, una reazione a catena da metropoli a metropoli. Si tratta di lotte che si sono propagate da Tunisi al Cairo nell’intero spazio nord-africano e asiatico occidentale fino a Tel Aviv; poi sono state portate avanti in Grecia, in Spagna e Portogallo e negli USA, con episodi minori anche in Iran, Russia, Cina e Nigeria.
Queste lotte fanno emergere con chiarezza un’immagine che ha in realtà ormai qualche anno e risale agli anni ’90: l’immagine di uno «sciopero metropolitano», il cui primo esempio fu il grande sciopero di Parigi del 1995. Lo sciopero metropolitano riflette l’indebolimento sostanziale dello sciopero nelle fabbriche, si estende dal luogo di lavoro alla città, dove da decenni lavoro e vita sono sempre meno separabili. Lo sciopero metropolitano pone la questione del potere nelle lotte per la città e pone la domanda «a chi appartiene la città?»; esso fa riferimento allo sfruttamento tanto nel lavoro quanto nello spazio pubblico e privato, al fatto che il capitale valorizza non più solo la forza lavoro, ma anche in generale tutta la nostra vita, il nostro desiderio e i nostri bisogni, alla sistematica violazione del diritto all’abitare, all’educazione, all’accesso alla sanità, fino al diritto fondamentale, il diritto ad avere diritti reclamato dai migranti e dalle migranti.
L’obiettivo principale di Occupy e di Blockupy qui a Francoforte era l’accerchiamento delle banche e l’effettiva sospensione delle attività del potere. Naturalmente ciò è stato soprattutto simbolico e anche nel 2013 resterà simbolico. Ma rimane l’esperienza di un autopotenziamento nell’azione diretta, della pretesa di una riconquista dello spazio pubblico come spazio del comune. Lo sciopero metropolitano cerca una connessione con iniziative quotidiane e interventi, qui a Francoforte non da ultimo con la decennale tradizione di lotte negli aeroporti o nelle università, ma cerca anche il collegamento con approcci come quello della rete A chi appartiene la città? – il cui nome è già di per sé molto promettente. Ancora: attualmente parliamo di azioni simboliche – ma il nome Occupy e Blockupy promettono di più…
2) Il progetto di Syriza.
Il progetto di Syriza è innanzitutto straordinariamente vago e in sé non ancora maturo, a cominciare dalla composizione della stessa Syriza. Nessuno sa nemmeno se la coalizione di Syriza terrà e se riuscirà a prendere il potere. Al di là di tutto, nel progetto di Syriza è decisivo l’orientamento positivo nei confronti della UE, nonostante la volontà di rompere con l’attuale realtà dell’UE. Il progetto di Syriza non deve essere confuso con quello del partito comunista stalinista greco (KKE): Syriza rifiuta la limitazione allo Stato nazionale greco.
Un governo di Syriza in Grecia – che è diventato nelle scorse settimane ancora più probabile, ma naturalmente ancora solo probabile – non mira alla «costruzione del socialismo in un solo paese», ma a imporre una crisi politica all’UE a partire dalla Grecia. Essa mira a trasformare la crisi finanziaria ed economica dell’UE innanzitutto in una crisi politica, in una crisi costituzionale che dia inizio a un nuovo processo costituente, a un nuovo atto costituente. Anche un’aperta rottura con l’UE – e questo è l’aspetto del progetto-Syriza che non ha precedenti storici – sarebbe comunque intesa come un atto di politica europea, come un atto che si aspetta risposte europee, che è destinato a ottenere risposte europee.
È realistico attendersi queste risposte? Se il progetto attecchisce in Grecia, potrebbe diventare un modello per Spagna, Portogallo e Italia? Che conseguenze avrebbe sul Nord la formazione di un blocco Sud-europeo? Sono pensabili nel Nord scioperi metropolitani che siano, come Blockupy Frankfurt, in solidarietà simbolica con il Sud ma che siano anche in grado di sviluppare una propria prospettiva? Sono pensabili innanzitutto in Europa del Sud ma poi anche nel Nord formazioni di partito, con un orientamento verso Syriza e che lo prendono come modello, che potrebbero diventare nello stesso tempo i partiti degli scioperi metropolitani? Questo che cosa ha a che fare con la composizione dell’alleanza che si è creata in occasione di Blockupy, cui appartengono sia attiviste di movimento sia organizzazioni orientate al movimento, come il partito Die Linke, che in Germania è l’unico ad aver respinto il patto fiscale? Non è giunto il momento di parlare non solo di «altri mondi», ma anche finalmente della loro realizzazione, non più in un orizzonte solo nazionale ma nemmeno in un «altrove» completamente impensabile? Non è giunto il momento di parlare di un progetto che abbia luogo tanto nelle strade e nelle piazze quanto nelle istituzioni statali e sovrastatali? Non è giunto il momento di porre simili domande, e di rispondere alle domande di potere? E non è giunto il momento di mettere alla prova le nostre provvisorie risposte a queste domande anche nelle nostre pratiche politiche quotidiane, nelle lotte per la città, per il diritto all’abitare, al libero soggiorno e alla libera partecipazione al comune, nelle lotte per i diritti e i beni che ci vengono presi o trattenuti ingiustamente, nelle lotte contro lo sfruttamento del lavoro e contro l’oppressione nell’educazione, contro l’esclusione dal sapere? Tutte queste iniziative e interventi non devono essere collegati a una simile crisi politica, una simile crisi costituzionale e un simile atto costituente? E perché non cominciamo a discutere di queste domande tra noi e con altri, mentre disturbiamo la Euro Finance Week per riuscire – forse – a evitarla l’anno prossimo, per rifiutare al loro personale il diritto di ospitalità nella nostra città, per aprirla a coloro che sono davvero i benvenuti? Per aprire la nostra città ad altre città che ci sono più vicine delle torri della BCE qui sulla riva del Meno: Atene, Salonicco, Roma, Madrid, Barcellona, Lisbona… Abbiamo molto di cui parlare, e molto da fare…
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