
Maria Grazia Meriggi presenta il suo libro La Confederazione generale unitaria del lavoro e i lavoratori immigrati (Biblion Edizioni, Milano 2023, pp. 467) come “una storia che appare breve ma che manifesta una capacità di influenza culturale nel lungo periodo”. La Cgtu (Confédération générale du travail unitaire) viene fondata in Francia nel 1922 con una scissione dalla socialista Cgt (Confédération générale du travail) e, dopo un quindicennio di attività, confluisce nella Cgt nel 1936.
Si tratta della vicenda del primo sindacato del Novecento che fin dalle sue origini si autoproclama unitario in senso internazionalista e che si dichiara impegnato anche con i lavoratori immigrati, sotto l’egida del Partito comunista francese (Pcf), che si è costituito nel 1920. Dopo il quindicennio di separazione per le note divergenze politiche tra comunisti e socialisti, nel 1936 la Cgtu rientra nella Cgt. In Francia si apre allora il periodo del Fronte popolare a guida socialista e con l’appoggio esterno dei comunisti (giugno 1936-aprile 1938).
La Cgtu è il primo sindacato francese a organizzare fin dagli anni Venti due sezioni specifiche dedicate ai lavoratori e alle lavoratrici stranieri: la prima riguarda la manodopera straniera europea (Moe, Main d’oeuvre étrangère), poi denominata Moi (Main d’oeuvre immigrée), e la seconda si occupa delle condizioni della manodopera coloniale immigrata dall’Africa e dall’allora Indocina (Moc, Main d’oeuvre coloniale).
Per quanto riguarda l’immigrazione europea, si tratta soprattutto di italiani e di polacchi, ai quali si aggiungono molti esuli antifascisti spagnoli verso alla fine degli anni Trenta, mentre i rifugiati tedeschi che sfuggono al nazismo evitano la Francia e puntano verso le Americhe. Come scrive l’autrice, in Francia la discriminazione contro i lavoratori tedeschi è un tratto distintivo del padronato francese che teme la ripresa in Francia della tradizionale e forte sindacalizzazione tedesca. Il coinvolgimento dei migranti nel sindacato Cgtu negli anni 1920 è la risultante sia dei rivolgimenti internazionali intervenuti durante e dopo la guerra 1914-18 sia delle dure condizioni di vita e di lavoro dei proletari stranieri in Francia sia dell’attivismo della Cgtu.
Durante la guerra, la situazione rivoluzionaria in Russia e la mobilitazione operaia contro il capitalismo di guerra intensificano in Europa la diffusa avversione all’imperialismo che si era già manifestata nell’opposizione sia alla schiavitù americana nell’Ottocento sia all’assalto colonialista in Africa e in Asia tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Inoltre, nel corso della guerra si delinea e poi sale globalmente in primo piano un notevole schieramento di opinione antimperialistica nei paesi colonizzati, dove crescenti masse entrano nell’arena politica rivendicando l’indipendenza e il miglioramento delle condizioni di vita.
La Cgtu si fa portatrice di queste istanze in Francia, diventando sia promotrice dell’opposizione alle destre sia cassa di risonanza dei movimenti anticoloniali. Fin dalle sue origini la Cgtu raccoglie l’eredità delle lotte organizzate dai suoi pionieri nel decennio infuocato che precede la sua fondazione formale nel 1922. In particolare, risultano cruciali le rivendicazioni sociali che prorompono sulla scena politica europea nel biennio 1917-18. In Francia quello è il biennio del ritorno del sindacato di azione diretta che aveva segnato l’inizio del Novecento. Nella congiuntura bellica l’azione diretta si estrania sempre più sia dai richiami all’ordine provenienti dai governi sia dai compromessi della moderata Cgt. Poi, a guerra finita, il socialismo francese è scosso dalla scissione del 1920 a opera della maggioranza filobolscevica che abbandona i socialisti e che fonda il Partito comunista francese.
In Francia, come in altri paesi belligeranti – e in primo luogo in Russia – l’ondata di scioperi prorompe nel 1917. Nel suo libro Maria Grazia Meriggi sostiene a ragione che in Francia senza quegli scioperi “non sarebbe mai nata la Cgtu che conosciamo” (p. 23), mentre il Partito socialista francese si inchina all’union sacrée, anche se non vi si piega del tutto, almeno quando opera lontano dalla linea del fronte di guerra (p. 28).
A prima vista, dunque, e dopo i sommovimenti del 1917 la data di fondazione della Cgtu appare tardiva (1922), quasi quattro anni dopo la fine del conflitto e quasi due anni dopo la fondazione del Pcf; ma giustamente l’autrice sottolinea l’importanza della “nascita di una minoranza organizzata” già negli anni della guerra, con nomi di spicco come quelli di Pierre Monatte, Alfred Rosmer, Maurice Chambellan e Victor Serge (p. 30) e con l’organizzazione di movimenti conflittuali diffusi.
L’aggregazione degli oppositori e oppositrici organizzati/e contro la guerra in atto è il vero punto di svolta a favore di un’unità operaia apertamente anticapitalistica e coerentemente votata alla solidarietà internazionalista e anticoloniale. Alla vigilia della guerra la Francia era già un crogiolo politico, sociale e linguistico unico in Europa, grazie soprattutto all’immigrazione da paesi europei. Con la fondazione della Cgtu i comunisti proclamano il loro “sindacato di classe” e si pongono il problema del reclutamento degli immigrati. Di conseguenza, nel corso dei suoi primi anni – e con un’attenzione che è unica nel panorama internazionale – la Cgtu dedica crescenti energie al reclutamento di immigrati/e, tra cui i primi militanti antifascisti perseguitati in Italia e riparati in Francia. Non si potrebbe essere maggiormente d’accordo con quanto scrive Bruno Groppo a proposito degli antifascisti italiani che sfuggono alla repressione fascista fin dall’inizio degli anni Venti: “L’influenza degli antifascisti e soprattutto dei comunisti italiani in Francia è stato fondamentale nell’orientamento politico antifascista in Francia e nella lotta antifascista in Europa”[1].
In Francia la diffusa ostilità al fascismo è ben più ampia dell’immigrazione politica antifascista che per la parte italiana è stimata intorno ai 30mila esuli, prevalentemente giovani e comunisti. Tuttavia la presenza dei comunisti italiani fuorusciti e il loro impegno risultano cruciali nell’orientare una parte consistente della base operaia francese e immigrata contro il fascismo e il nazismo nei luoghi di lavoro e di aggregazione sociale.
Già nel 1923 la Cgtu nomina il primo responsabile dell’attività della sezione stranieri (Moe, Main d’oeuvre étrangère), un italiano, forse anche in segno di riconoscimento dell’attività clandestina (o comunque sotto traccia), dei primi quadri comunisti che giungono in esilio dall’Italia. Il 1923, è il caso di rammentarlo, è anche l’anno della pubblicazione del breve saggio “Clandestinità e illegalità” in Storia e coscienza di classe di Lukàcs, senza il quale sarebbe impossibile non dico entrare ma anche soltanto bussare alla porta del XX secolo (e forse anche del XXI). Vigilanza e clandestinità sono il pane quotidiano dei fuorusciti del Moe.
Segue nel 1926 l’apertura di un’apposita sezione che si occupa degli immigrati provenienti dalle colonie francesi (Moc, Main d’oeuvre coloniale). Questi sviluppi si incrociano e talvolta emarginano le direttive del Profintern, la centrale sindacale moscovita della Terza internazionale (1921-37). Il Profintern dovrebbe fungere da superiore autorità direttiva a livello mondiale, ma i militanti immigrati spesso preferiscono seguire le indicazioni dei rispettivi partiti comunisti nazionali e dei quadri degli apparati di partito riparati in Francia che coinvolgono molti italiani, ebrei dell’Europa orientale, polacchi, spagnoli.
Va poi rammentato che a norma di leggi che rimangono in vigore a lungo, anche durante e ben oltre la fine del Fronte popolare (1936-38), gli stranieri/e sindacalizzati/e non possono esercitare le attività di funzionari/e sindacali in Francia, pena severe sanzioni fino all’espulsione che può comportare la consegna dei fermati alle polizie dei paesi di origine, comprese le polizie fasciste. Di qui derivano due rivendicazioni salienti degli/delle immigrati/e del Moi: il libero esercizio delle attività sindacali, compreso il diritto di rappresentanza, e la parità salariale a parità di lavoro. Quest’ultima è la più pressante istanza delle operaie. Entrambe queste rivendicazioni saranno riprese e conquistate nel secondo dopoguerra.
Alla vigilia della guerra 1939-34 si contano più di due milioni di stranieri europei residenti in Francia, di cui i tre gruppi principali sono gli italiani (900mila), gli spagnoli (700mila), i polacchi (400 mila), mentre i maghrebini sono circa 100mila, precursori della massiccia immigrazione dal Maghreb durante il secondo dopoguerra.
In sintesi, si può affermare che l’immigrazione italiana è stata il flusso migratorio numericamente e politicamente più importante in Francia dall’inizio del Novecento al 1940. Nel 1911 gli immigrati italiani erano 420mila; nel 1939 ai 900mila immigrati/e presenti vanno aggiunti i 480mila nati in Italia e già naturalizzati francesi, in gran parte componenti di famiglie di operai, manovali, braccianti, minatori.
In questa emigrazione è dunque coinvolto circa un quarantesimo della popolazione italiana del tempo: per primi quelli/e che hanno votato con i piedi, lasciando l’Italia liberale, poi, più massicciamente, quelli che non potevano più vivere sotto la dittatura fascista. Non è tanto la piccola borghesia con le sue stentate rendite a emigrare quanto coloro che in Italia inseguono un salario che si assottiglia a mano a mano che le guerre del fascismo (Etiopia, Spagna, Asse) si avvicinano.
Le lotte operaie che aprono il Fronte popolare in Francia e il New Deal negli Stati uniti sono anche la risultante di un’ostilità massiccia al fascismo e al nazismo. In particolare, la vittoria del Fronte popolare nel 1936, l’unificazione della Cgtu e della Cgt e ancor più il fermento sociale che sostiene tale unificazione portano il numero degli aderenti stranieri alla Cgt da 50mila nell’estate del 1936 ad almeno 400mila alla fine del 1937. Questo movimento intrinsecamente antifascista trova una rispondenza anche nell’ anticolonialismo diffuso tra i 100mila civili africani immigrati.
Nei drammatici anni successivi i destini degli antifascisti in parte si intrecciano e in parte si scindono. Una frazione degli esuli milita nella Resistenza in Francia durante la guerra, mentre dall’estate del 1943 quella parte dei quadri antifascisti italiani che sono sfuggiti alla repressione e ai campi di concentramento tornano clandestinamente in Italia per assumervi ruoli importanti nella Resistenza, mentre una parte degli esuli spagnoli, che pure avevano sperato nell’aiuto degli Alleati per abbattere la dittatura in Spagna, ripiega verso un secondo esilio, nell’America latina.
Intanto, nella cupa congiuntura internazionale prevalgono e si stabilizzano le sconfitte proletarie (fascismo, nazismo, stalinismo, i golpe nell’America latina). Hanno resistito poche eccezioni sul piano internazionale: in parallelo con la Francia del Fronte popolare, la nuova sindacalizzazione di massa nell’industria statunitense e la ripresa delle lotte anticoloniali in alcune aree dell’Asia e dell’Africa.
Come già prima della riunificazione nella Cgt del 1936, anche verso la fine degli anni Trenta, ma incontrando crescenti difficoltà, gli immigrati politicizzati nella Cgtu continuano a portare il sindacato là dove non c’è ancora, dove la manodopera straniera lavora nell’isolamento e talvolta nella discriminazione. La situazione precipita durante il primo anno di occupazione nazista della Francia, quando le organizzazioni che fiancheggiano il Pcf tergiversano e quando lo stesso Pcf intavola uno strascicato negoziato con le autorità naziste, ottenendo la scarcerazione di centinaia di suoi iscritti ma non il permesso della pubblicazione legale del suo quotidiano, l’Humanité. In sostanza, In Francia per i resistenti sono lunghissimi i dodici mesi che intercorrono tra l’invasione nazista della Francia (giugno 1940) e l’aggressione nazista all’Unione sovietica (giugno 1941). Soltanto intorno al giugno del 1941 comincia l’impegno generale del vertice del Pcf nella Resistenza francese.
Qual è la condizione degli immigrati non-fascisti e antifascisti nella congiuntura prebellica (1937-39) e poi negli anni di occupazione in Francia (giugno 1940-1944)? In sintesi, è una condizione di imminente pericolo, anche se ovattata dai mezzi d’informazione nel triennio che precede la guerra, e poi, nel migliore dei casi, di un’esposizione sull’orlo del baratro nel periodo del dominio nazista, in primo luogo per gli ebrei.
Gli avvenimenti francesi sono strettamente legati a quelli del resto d’Europa, compresa l’area mediterranea, ma negli studi sull’argomento solo raramente vengono posti in connessione tra di loro. La Resistenza antifascista e antinazista è internazionale ma viene solitamente narrata per singoli Paesi o addirittura per singole regioni. La storia di gruppi antifascisti politicamente uniti o comunque tesi al medesimo obiettivo anche se geograficamente lontani vengono troppo spesso considerati separatamente, grazie all’assuefazione ai tradizionali confini.
Inoltre non può sfuggire il fatto che nel corso della guerra e anche nel dopoguerra gli alleati occidentali nutrono forti riserve nei confronti di quella parte della Resistenza europea che intende fare i conti e porre limiti duraturi alle forze politiche ed economiche che hanno generato il fascismo e il nazismo. Lo chiedono in larga parte i resistenti dell’Europa continentale, ma non vengono abbastanza ascoltati. Le storie della Resistenza internazionalista finiscono così in storie nazionali e si consumano entro orizzonti interni. Ed è per questa via che la Resistenza in Francia diventa la Resistenza francese, quella in Italia diventa la Resistenza italiana e via di séguito. In breve tempo nel dopoguerra si appanna la linea di cesura rispetto al fascismo e al nazismo, e anche rispetto alle dittature del socialismo reale. Intanto nel secondo dopoguerra gli imperi coloniali cedono il passo ai movimenti popolari nelle grandi e ormai incontrollabili colonie, come l’India, il Pakistan e l’Indonesia e tuttavia si preparano all’antiguerriglia nelle colonie meno grandi e meno difficili da “contenere”, in un processo di reazione cruenta che durerà fino agli anni 1990.
Tuttavia la prova antifascista e antinazista resiste alla corrosione dell’oblio nei decenni trascorsi dalla fine della guerra 1939-45. Ed è una prova di internazionalismo essenzialmente maturata dal basso, che tuttavia rimane nell’ombra. Le narrazioni della Resistenza che raccontano vicende di gruppi spazialmente e moralmente compatti sono state diffuse con un certo successo e talvolta con una notevole riuscita mediatica. Meno frequenti sono le storie della Resistenza che raccontano vite e azioni moralmente legate tra di loro ma spazialmente distanti.
Anche se è un confronto arrischiato, cito brevemente due vicende che all’apparenza non recano gli stessi tratti. Una vicenda che provvisoriamente chiamerò “italiana” è quella che qui non riassumo perché in Italia molti la conoscono grazie ai libri e alla cinematografia: la storia dei sette fratelli Cervi, tutti partigiani e tutti insieme uccisi dai nazifascisti a Reggio Emilia (28 dicembre 1943). L’altra è la storia franco-italiana della famiglia antifascista Fontanot, originaria della provincia di Trieste, in parte politicamente attiva nella storia socialista e comunista di Trieste e Monfalcone e in parte emigrata in Francia già nei primi anni 1920 per sfuggire alla repressione fascista[2]. In realtà, anche quella parte della famiglia Fontanot che aveva deciso di rimanere in Italia nei primi anni del fascismo prova poi a emigrare, prima in Austria poi in Bulgaria, ma rientra nella provincia di Trieste negli anni 1930, quando politicamente in Bulgaria tira ormai aria di destra.
In Francia, nei primi mesi dell’occupazione nazista anche i tre giovani fratelli Fontanot, figli degli immigrati Giacomo Fontanot e Gisella Teja, si uniscono alla Resistenza: Spartaco (partigiano FTP-Moi) viene fucilato dai nazisti nelle esecuzioni del 21 febbraio 1944 al Mont Valérien con altri 21 componenti del gruppo Manouchian, in gran parte immigrati/e. Prima dell’esecuzione di Spartaco, i suoi due fratelli, Jacques e Nerone Fontanot erano già stati catturati e fucilati rispettivamente il 27 giugno e il 27 settembre 1943. Gli altri membri, uomini e donne della numerosa famiglia residente in Francia sono impegnati/e nella Resistenza armata.
In Francia, dunque, i militanti e le militanti del Moi e del Moc stanno dando più di quanto non abbiano ricevuto dalla politica della sinistra francese. Mentre negli anni 1920 queste due organizzazioni sono debitrici al Pcf di una struttura funzionante per i militanti e le militanti che migrano o che si rifugiano in Francia, per contro negli anni della Resistenza la militanza nel Moi e nel Moc si è trasformata in una palestra di ardimento politico contro l’occupante e i suoi scherani.
Intanto nella Venezia Giulia i famigliari, che in parte vi sono rimasti e in parte vi sono tornati dall’Austria e dalla Bulgaria, si organizzano politicamente a mano a mano che la guerra si avvicina. Cade nel marzo del 1943 Armido Fontanot, ucciso a Savogna d’Isonzo da un gruppo di fascisti che si spacciano per partigiani. Oltre gli innumerevoli fermi di polizia e gli arresti di uomini e donne della famiglia, Licio Fontanot, fratello di Armido, è incarcerato nell’agosto del 1944 a Palmanova, dove, torturato, muore suicida. Il 3 giugno del 1944 è arrestato Mario Campo, marito di Ribella Fontanot. Deportato a Buchenwald, poi a Neuengamme, Mario Campo muore, forse intorno alla fine di luglio del 1944. Nel 1954 i carabinieri recapitano alla vedova Ribella Fontanot una busta –mittente un consolato italiano in Germania – che contiene soltanto la sua fede di nozze e un anello.
Il compromesso che una larga parte del capitalismo francese e una minoranza del conservatorismo britannico tentano attraverso l’offerta di appeasement con il nazismo a Monaco nel 1938 intende fra l’altro salvare la borghesia, anche a costo di avviare agli inferni nazisti o para-nazisti il proletariato del continente. Ed è a quel punto che la faticosa militanza proletaria del ventennio precedente per raccogliere le forze disperse in Francia si rivela un lascito trascurato dalla grande politica ma essenziale per lottare contro gli sterminatori. È allora che il Moi e il Moc cominciano a dare i loro frutti più maturi: gruppi di immigrati – armati e disarmati – si preparano ad entrare nella Resistenza per farla finita con la peggiore barbarie che l’accumulazione capitalistica abbia mai architettato, e per costruire un nuovo assetto sociale. In altre parole, neppure il Moi o il Moc sono stati invano, nonostante i nostri vuoti di memoria, ai quali questo libro di Maria Grazia Meriggi pone generosamente rimedio.
[1] Bruno Groppo, «Les communistes italiens et le mouvement ouvrier», in Girault, Jacques, éd., Des Communistes en France, Editions de la Sorbonne, Paris, 2000. https://doi.org/10.4000/books.psorbonne.60147, pp. 179-193.
[2] Nerina Fontanot, Anna Digianantonio, Marco Puppi, Contro il fascismo oltre ogni frontiera. I Fontanot nella guerra antifascista europea 1919-1945, Udine, Kappa Vu, 2016, pp. 383.