mercoledì , 12 Marzo 2025

La precarietà universitaria #1: Le ragioni della nostra lotta

di MATILDE CIOLLI e MARCO MELITI

Dallo scorso autunno le mobilitazioni delle Assemblee Precarie Universitarie mostrano l’urgenza di fare dell’università un terreno di lotta. A innescarle è stata la proposta di riforma Bernini del preruolo – attualmente sospesa, ma non ritirata – accompagnata da tagli netti per i prossimi tre anni al Fondo di Finanziamento Ordinario della ricerca, che si sommano all’imminente esaurimento dei fondi PNRR. Una riforma che deve essere collocata politicamente in sequenza con la riforma Gelmini e che con ogni probabilità anticipa una prossima riforma della governance universitaria.

L’Assemblea nazionale che si è tenuta l’8 e il 9 febbraio a Bologna ha prodotto un Manifesto che definisce strategie e discorsi comuni non solo per opporsi a questo attacco diretto alle condizioni di vita, di studio e di lavoro di precari e precarie, ma anche per ripensare nel profondo l’università e le sue logiche. Oltre quattrocento precarie e precari da tutta Italia hanno scommesso sullo sciopero come strumento per esprimere il rifiuto collettivo di “tagli, guerra e precarietà” e sulla sua costruzione come sfida politica e organizzativa dei prossimi mesi. Facciamo nostra questa sfida in tutta la sua complessità, riconoscendo la necessità di un esercizio collettivo di immaginazione politica per pensare e praticare uno sciopero dell’università che, a partire dalle condizioni di lavoro dei precari e delle precarie, apra spazi effettivi di mobilitazione, di lotta e di comunicazione politica tra figure in condizioni lavorative e di vita diverse. 

Le ragioni della nostra lotta

L’università contro la quale lottiamo è una fabbrica di precarietà, dove la ricerca e il sapere prodotti sono ormai inseparabili dagli indirizzi politici e di mercato che li commissionano. Le attuali misure del governo sono tappe di una trasformazione trentennale che ha progressivamente ridefinito le gerarchie interne agli atenei, ha imposto controlli dei risultati accademici come forma di comando sul tempo e sul lavoro di chi fa ricerca e didattica e ha lasciato entrare investitori e stakeholders privati nella governance universitaria definendo spesso indirizzi e obiettivi della ricerca. In questo quadro la riforma Bernini punta a rendere irreversibile la precarietà nel percorso post-dottorale non soltanto per scaricare i costi dei tagli sulle condizioni di lavoro di ricercatori e ricercatrici, ma anche per incentivare ulteriormente lo spostamento dei piani di finanziamento verso fondi esterni competitivi e a progetto, privati, nazionali oppure europei.

Per questo, sebbene si chiami «riforma del preruolo», la verità è che il ruolo potrà non arrivare mai perché è la stessa forma a progetto della ricerca che richiede una forza lavoro precaria e disponibile all’occorrenza. A differenza della precedente riforma Draghi che aveva introdotto il contratto di ricerca, quella di Bernini si premura di rispondere alle richieste dei rettori lasciando loro uno spazio di manovra ampio per poter scegliere, di volta in volta, il livello di contratto precario più congeniale alle esigenze di budget.  In questo modo si approfondisce il processo aperto con i fondi PNRR e la “ricostruzione post-pandemica”, che hanno definito le condizioni in cui oggi naviga chiunque faccia ricerca in università, mentre si fa scoppiare la bolla di lavoro precario a progetto che quei fondi hanno contribuito a gonfiare.

La lotta che portiamo avanti contro riforma e tagli, dunque, non può essere né nostalgica né difensiva, perché c’è ben poco da difendere nell’università di oggi, o da rimpiangere in quella di ieri. I ricercatori e le ricercatrici che in questi mesi hanno preso parola dentro le assemblee e le mobilitazioni hanno denunciato una ricerca già definitivamente piegata agli imperativi della committenza e dei progetti a termine, irregimentata in logiche di competizione, merito e flessibilità. Chi fa ricerca oggi è tenuto a cambiare continuamente l’oggetto dei propri studi. Strutturati e non strutturati possono dedicare alla ricerca solo il tempo che non è eroso dalle necessità burocratiche di rendicontazione, di misurazione della produttività e di scrittura di nuovi progetti.

L’innovazione – che pure è tra le parole d’ordine della progettazione scientifica competitiva – è ridotta a soluzione di problemi specifici, da condurre attraverso linguaggi, metodi e destinations predeterminate, dentro processi in cui i singoli sono responsabili al più di un frammento di cui non conoscono le finalità né gli obiettivi complessivi. In questo modo ricercatori e ricercatrici, fin dal dottorato, svolgono un lavoro orientato alla produzione e trasmissione di un sapere professionale-imprenditoriale piegato alla ricerca di fondi per conto degli atenei, oppure sono chiamati a intervenire direttamente nei processi produttivi e dell’amministrazione pubblica o di impresa, o ancora a formarsi come figure tecnico-gestionali con “competenze trasversali” che tornano utili nei salti da un progetto all’altro.    

Mentre ancora gli atenei provano, con un marketing stantio, a vendersi come istituzioni capaci di “cambiare la vita” o di meritare bollini “rosa” o “verdi”, la realtà è quella di un’istituzione che riproduce la società dentro cui è collocata, colpendo chi non mostra piena disponibilità o possibilità di competere e meritare. Studentesse e studenti sono costretti a una corsa a ostacoli per l’acquisizione di crediti formativi da cui dipendono alloggi e borse di studio, in cambio di una formazione ridotta a trasmissione di competenze e informazioni standardizzate che le/li prepara a un mercato del lavoro precario e povero. Chi studia o fa ricerca con un permesso di soggiorno in tasca è doppiamente ricattabile, perché costretto ad avere un contratto e affrontare lunghe trafile burocratiche per avere i documenti e rimanere in Italia, con la prospettiva di essere rispedito a casa una volta finito il suo compito.

Per le donne che fanno ricerca la precarietà vuol dire maggiore ricattabilità data da una società patriarcale dove guadagnano di meno e sono esposte, in università e nei luoghi di lavoro, a molestie e violenze. Basta uno sguardo superficiale alle stesse statistiche dei bilanci di genere degli atenei per vedere che per le dottorande, le ricercatrici e le docenti la possibilità di lavorare in accademia rimane fortemente condizionata dalla scelta di avere figli, dai carichi di lavoro riproduttivo e dalla disponibilità ad accettare le posizioni di lavoro più precarie e povere.

Una politica del sapere: ricerca, precarietà, guerra

La prima sfida posta dalla costruzione di uno sciopero in università che abbia al centro le precarie e i precari della ricerca, dunque, è quella di porsi all’altezza della situazione attuale e delle trasformazioni in corso. Solo in questo modo è possibile intercettare le ragioni della lotta di tutte le figure di un lavoro intellettuale sempre più frammentato e standardizzato, in cui la competitività e le gerarchie imposte limitano una cooperazione che è necessaria tanto per una vera innovazione scientifica, quanto per la produzione di connessioni politiche che mettano fine a questa condizione comune di sfruttamento. Dobbiamo risolvere il rompicapo della costruzione della comunicazione politica e organizzativa tra dipartimenti umanistici e scientifici, tra atenei divisi da gerarchie competitive e geografiche, tra soggetti in posizioni diverse, per i quali è necessario individuare e costruire un terreno condiviso per rifiutare collettivamente la propria condizione.

La riforma Bernini e i tagli minacciano di approfondire questa frammentazione. Bisogna chiarirsi tuttavia sull’obiettivo più ampio in cui si inserisce questo tentativo. Se si guarda ai documenti dell’Unione Europea – a partire dall’agenda Draghi per l’Europa – relativi alle direzioni di ricerca, ai criteri di assegnazione dei fondi e alle performances richieste, emerge una chiara volontà di valorizzare la ricerca per il rilancio industriale dell’UE, con i suoi obiettivi green, tech e di riarmo, e per affrontare le sfide competitive del nuovo scenario transnazionale. Tutte le parti interessate alla discussione dell’attuale riforma, dalla ministra agli oppositori, sottolineano l’ambizione di offrire gli strumenti affinché la ricerca italiana possa andare saldamente in questa direzione.

Le Assemblee precarie hanno individuato nel riarmo un terreno fondamentale di lotta su cui si gioca questa partita. La ricerca è sempre più arruolata nella guerra, nella produzione che essa comanda, e nel militarismo che ne costituisce il fondamento ideologico ben oltre i fronti in cui è combattuta con le armi, dall’Ucraina alla Palestina. Con la guerra, infatti, non c’è in ballo soltanto la direzione dei fondi e degli investimenti pubblici, sottratti dalle voci di spesa sociale per essere dirottati verso la difesa e la produzione di armi. In gioco c’è anche l’uso ideologico dei conflitti per piegare definitivamente la ricerca agli indirizzi politici del momento. Questi processi coinvolgono tanto le discipline STEM, direttamente arruolate nella produzione di tecnologie belliche e di controllo sociale, quanto le scienze sociali, chiamate a produrre policies per gli attori che le commissionano o a rinnovare le cornici normative dentro cui tutto questo si situa.

Il rapporto che si sta stringendo tra ricerca, sviluppo e difesa non si esaurisce con l’ingresso di produttori privati di armi negli atenei, né si gioca solamente sui progetti con destinazione dual use. Tutta la ricerca ormai è potenzialmente dual o triple use (civile-militare-green), anche quando non è applicato direttamente il bollino e non è riconosciuta come tale. Visti da questa prospettiva, riforma e tagli sono espressione di una politica della scienza e del sapere fatta per riprodurre e governare una società neoliberale e in guerra. Non siamo di fronte allo “snaturamento” dell’università o al tradimento di una sua presunta funzione sociale originaria. Al contrario, queste trasformazioni confermano l’università per la sua funzione di riproduzione del nesso tra sapere, lavoro, mercato e indirizzi politici, che oggi si delinea sullo sfondo di un riarmo imminente e di un militarismo diffuso.  

È su questo piano che occorre pensare lo sciopero generale dell’università. Rifinanziare l’università è fondamentale ma non ci riporterà a un’università fuori da logiche politiche e di mercato. Né l’eventuale ritiro della riforma risolverà le condizioni di precarietà e frammentazione su cui si basa il nostro lavoro. Più che chiedere una soluzione che tamponi il danno, la sfida delle prossime settimane è quella di rendere il carattere essenziale – ma spesso invisibile – del nostro lavoro il punto di forza di un processo politico espansivo e incisivo.

 

[Continua: Per uno sciopero generale dell’università]

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