Con il Ddl sicurezza giunto ora all’esame del Senato, il governo Meloni e la sua maggioranza sferrano un attacco preventivo alle forme di insubordinazione, ai venti di protesta, alla possibilità di organizzare una forza collettiva. La capacità della rete “A pieno regime – No Ddl Sicurezza” di coinvolgere una pluralità di soggetti e forme organizzate superando steccati identitari non si vedeva da tempo: la manifestazione promossa per il 14 dicembre si annuncia come importante. Il Ddl prefigura infatti un’azione ad ampio spettro di disciplinamento sociale e riduzione degli spazi di agibilità politica per proteggere “il suo mondo” fatto di razzismo, sfruttamento e guerra.
Il Ddl ha un precedente specifico nella criminalizzazione degli scioperi nella logistica, che sono riusciti a ridurre l’arbitrio delle aziende del settore e portare guadagni salariali in controtendenza rispetto al declino che caratterizza la realtà lavorativa italiana. Più in generale, i provvedimenti di riduzione della libertà dei migranti e nella violenza dei confini, che arrivano fino ai respingimenti in mare e ai centri in Albania che, per quanto finora miseramente falliti, sono la premessa a un tentativo di riduzione della libertà di tutti e tutte. Che i migranti siano un problema per chi governa è ben evidente dall’attenzione che il Ddl riserva alle possibilità di protesta, anche passiva, nelle carceri e nei centri di detenzione, nel tentativo di rendere più difficile l’acquisto di una SIM card, nel prolungamento a 10 anni del tempo di revoca della cittadinanza per non meglio specificati atti di terrorismo. Anche il cosiddetto “decreto flussi” rientra in questo mondo, nel quale, se non si possono cambiare a piacimento le leggi, allora si cambiano i giudici.
Con la violenza del razzismo istituzionale, si tenta di imporre ai migranti un’accettazione coatta dello sfruttamento e una disciplina sociale che non ammette la contestazione dell’arbitrio padronale e governativo. Con questo Ddl, che promette di generalizzare la criminalizzazione di forme di lotta come il blocco stradale, divenuto pratica diffusa soprattutto nel movimento ecologista, si tenta di estendere a tutti questa accettazione coatta e questa sottomissione. In un mondo nel quale governo e imprese cercano disperatamente di costringere lavoratori e lavoratrici ad accettare un peggioramento costante delle loro condizioni di vita e di lavoro, il terreno in cui si radica il Ddl è stato dissodato dall’attacco al reddito di cittadinanza, dalla privatizzazione crescente di quel che resta del welfare e dai costanti attacchi al diritto di sciopero.
Il Ddl non ci mette di fronte al fascismo che ritorna, né alla svolta autoritaria di una maggioranza già abbastanza autoritaria: ci parla di un mondo nel quale forme di autoritarismo si mescolano alle forme democratiche per imporre un destino di precarietà, i cui segni sono ben visibili del resto in tutte le ‘democrazie’. Mentre si salvaguardano i profitti delle imprese e i dividendi degli azionisti e si alimenta la spesa per nuovi armamenti, si annunciano nuovi tagli ai danni di lavoratori, lavoratrici, studenti, precarie, migranti. Il mondo del Ddl è nel militarismo che sostiene la terza guerra mondiale, che si alimenta nel conflitto in Ucraina, nel genocidio di Gaza e nella guerra in Medio oriente, ma indirizza ovunque scelte economiche e politiche, richiede ordine, sacrifici e arruolamento.
Le scorse settimane, la marea transfemminista del 23 novembre, lo sciopero generale del 29 novembre e le manifestazioni contro il genocidio a Gaza hanno mostrato segni di una mobilitazione che può assumere dimensioni inaspettate. Il Ddl è un attacco preventivo alle possibilità di lotta, alle connessioni tra diversi terreni di organizzazione, alla loro possibile espansione ai soggetti non disposti a subire l’imposizione coatta di un destino di razzismo, violenza patriarcale, precarietà e guerra e alla possibilità di costruire comunicazione transnazionale. Sta a noi cogliere la sfida indirizzando le energie nella giusta direzione.