di LIA BRUNA
Ora che, passato il bailamme della Frankfurter Buchmesse, sull’editoria italiana si sono spenti i riflettori della principale fiera libraria internazionale, dove l’Italia – tra gli scandali di un ex ministro e quelli di un ex commissario, nonché ex presidente dell’Associazione Italiana Editori – è stata quest’anno paese ospite d’onore, si può provare a fare un bilancio dello stato di salute del settore, a partire dal puntuale rapporto AIE.
Per chi non lo sapesse, AIE è appunto l’Associazione Italiana Editori, ossia la Confindustria dei libri, che tiene insieme dalla piccola e media editoria a Mondadori Libri S.p.A. («fiera della piccola e media editoria» è il sottotitolo di Più Libri Più Liberi, che AIE organizza a Roma ogni dicembre, in tempo tanto per la legge di bilancio quanto per i regali di Natale). Ogni anno l’ufficio studi AIE pubblica dati interessantissimi sull’andamento del settore: l’unico osservatorio pubblico senza il suo diretto zampino sono le indagini ISTAT sulla produzione e la lettura di libri, l’ultima delle quali riguarda il 2022. Per come sono esposti nel rapporto, quindi, i dati vanno presi con le pinze, perché servono a giustificare le rivendicazioni della categoria, che ha i suoi interessi da promuovere. Gli anni scorsi gli editori lamentavano l’aumento del costo della carta, dovuto a dinamiche post-pandemiche di approvvigionamento e consumo (a cominciare da quello del cartone da pacchi per le consegne a domicilio); ora il problema è l’abolizione dell’App 18: a quanto pare, senza incentivi le «quote importanti di deboli e occasionali lettori» non consentono alla «prima industria culturale del paese» di rimanere tale, con quasi 3,5 miliardi di venduto nel 2023 (+1,1 % rispetto al 2022).
D’altronde, l’analisi non nasconde nulla della propria origine di parte. C’è una frase in particolare che la dice lunghissima, racconta un mondo intero:
la crescita della produzione resta un dato ineludibile connesso alla crescita del mercato: nessuna editoria cresce attraverso un calo strutturale delle pubblicazioni. È il prodotto delle minori barriere all’accesso nella parte editoriale del processo: dallo scouting, alla traduzione, all’impaginazione fino alla stampa.
Il succo è: per fare l’editore oggi in Italia ci sono alcuni costi (di promozione e distribuzione) che dipendono solo relativamente dalle imprese, ma la produzione costa molto poco, chiunque può fare l’editore e l’unico modo per stare sul mercato – oltre che continuare a comprimere il costo del lavoro e piangere miseria davanti allo Stato – è sovra-produrre. Nel 2023 si sono pubblicate più di 85 mila novità (85192 per l’esattezza, che diviso 365 fa più di 233 nuovi titoli al giorno), con una crescita di quasi il 40 % rispetto al 2010. Scorporando la scolastica, si scende poco sotto i 70 mila (68820, che fa più di 188 al giorno), con una crescita del 5 % rispetto al 2022 e del 26 % rispetto al 2010. A questo corrisponde un calo della tiratura, cioè del numero assoluto di copie stampate, che nel 2022 era scesa del 7 % rispetto al 2010. Ciò nonostante, a dicembre 2022 più di un quinto degli operatori dichiarava «giacenze e reso per oltre la metà dei titoli pubblicati» e la quota di editori che ammetteva una percentuale di invenduto tra il 26 e il 59 % delle copie distribuite era quasi la metà del totale. Mentre la tendenza di lungo periodo è a leggere sempre meno (ma aumentano i lettori nella fascia 0-3 anni, siamo salvi!), oggi in Italia si pubblica il triplo che nel 1988. Dal 2021, la produzione si attesta stabilmente sopra le 80 mila novità l’anno.
In altre parole, quella che da decenni è una precisa strategia industriale (chi può permetterselo diversifica il rischio di impresa e punta sulla quantità per occupare gli scaffali e sgominare la concorrenza, con il coraggio che contraddistingue la borghesia meno seria d’Europa) viene venduta come dato di fatto del modo in cui funziona il settore, come se in un paese con la libertà di stampa il problema fosse l’insipienza dei 7300 editori che lo scorso anno hanno venduto meno di 100 mila euro di «trade», e non dei 112 «tra grandi gruppi e marchi collegati» che dominano il mercato. I quali, va ricordato, dominano il mercato non solo grazie alla bizzarra anomalia per cui i grandi editori in Italia hanno la loro rete di distribuzione, con tanto di punti vendita (Mondadori, Feltrinelli, Giunti), e l’unico distributore per tutti gli altri è Messaggerie, gruppo cui fanno capo tanto GEMS quanto Emmelibri (da poco in joint venture con Ceva Logistics per la gestione della Città del Libro di Stradella); ma anche per la peculiare contabilità dei “resi”, ossia quei libri arrivati in libreria e rimasti invenduti, che si trasformano in un credito mai saldato del libraio sui plichi di libri successivi e fanno avanti e indietro tra un magazzino e l’altro, andando a inasprire dinamiche e geografie della logistica ormai ben note.
L’altra gamba di questa strategia industriale pluridecennale è il contenimento del costo del lavoro, che interessa grandi, piccoli e piccolissimi editori nello stesso modo: gira che ti gira, il mercato è uno solo. Le trasformazioni dei rapporti di produzione degli ultimi trent’anni, legate alle novità tecnologiche (software personali di videoscrittura e impaginazione) e alle riforme del diritto del lavoro, hanno coinciso con l’esternalizzazione delle mansioni redazionali, svuotando le case editrici, isolando i lavoratori e scaricando su di loro la gran parte dei costi di produzione, frammentando il processo produttivo e spesso rendendo necessaria la mediazione di agenzie di service che si prendono un pezzo dei salari. Questo non solo ha precarizzato le mansioni esternalizzate, ma ha abbassato i compensi di mercato per tutti gli anelli della catena, anche per chi, come scrittori, illustratori e traduttori, pur lavorando su commissione, è sempre stato “autonomo”. Tant’è che sono le mansioni autoriali quelle peggio retribuite, anche perché sono contrattualizzate esclusivamente nella forma della cessione dei diritti di sfruttamento delle opere, e al tempo stesso non vedono riconosciuta la partecipazione ai proventi, obbligatoria per legge dal 2021 ma rimasta lettera morta: così queste figure non sono pienamente tutelate né dal diritto d’autore, né dal diritto del lavoro. Peraltro, sui redditi da diritto d’autore vige l’esonero contributivo; ma non è che c’è l’esonero perché i compensi sono bassi: i compensi sono bassi anche perché per questi lavoratori nessuno deve versare i contributi.
Come si evince fin dalla contribuzione delle mansioni autoriali, lo Stato in tutto questo non è uno spettatore neutro. La mano pubblica in editoria non è strutturale (non c’è una legge del libro come esiste per lo spettacolo), ma con le imprese è piuttosto generosa: i contributi pubblici all’editoria libraria – che si aggiungono a quelli per la periodica e la scolastica, spesso intascati dagli stessi grandi soggetti – vanno da quelli indiretti come l’acquisto di libri e ebook per le biblioteche alle innumerevoli misure di tax credit, incentivi al consumo e sostegni all’«export», che servono a promuovere l’acquisto dei diritti di traduzione dei libri da parte degli editori stranieri – tant’è che, grazie alle strategie di «internazionalizzazione», dal 2001 le traduzioni dall’italiano sono più che quadruplicate, mentre, nel panorama di crescita generale della produzione dell’editoria italiana, quelle verso l’italiano sono meno che duplicate. Su tutti questi aspetti, resta ancora da vedere la discontinuità, rispetto al “turbocapitalismo” franceschiniano, della nuova maggioranza, presa nella contraddizione tra il primato della produzione nazionale e il rilancio neoliberale del «made in Italy»: al di là dei tagli trasversali dell’ultima manovra, le politiche nazionali sull’IA generativa non sembrano preoccuparsi di come l’uso opportunistico di questa tecnologia da parte delle imprese culturali possa tradursi in un ulteriore aumento della produzione a scapito del lavoro, e così generare sempre più bisogno di sussidi per nascondere la crisi.
Di questi soldi, manco a dirlo, ai lavoratori non arriva un centesimo. Per quanto riguarda l’«export», ad esempio, i fondi non sono vincolati ad alcun contratto modello né compenso minimo, così si traducono in un risparmio per l’editore straniero e in un’entrata per l’editore italiano, spesso facendosi veicolo dello sfruttamento tanto degli scrittori italiani quanto dei traduttori stranieri. Lo stesso capita per le pubblicazioni scientifiche, con fior fior di bandi di università e illustri istituti dove lo stanziamento di fondi pubblici va a remunerare traduzioni per un numero di euro a cartella molto inferiore alla decina (quanto ci si mette a tradurre 1800-2000 battute di un testo di cui non si è specialisti, calcolatelo voi). Volendo mettere da parte il realismo con cui riconoscere che la spesa pubblica dipende da rapporti di forza non solo interni a governo e parlamento, ma pure alle istituzioni comunitarie (che dalla fine della pandemia hanno ripreso a tirare dalla solita parte), si potrebbe pure immaginare, in un paese capitalistico che volesse sostenere la propria produzione culturale, di rivendicare interventi correttivi dei meccanismi di mercato che sostengano il lavoro: ma questo comporta alcuni rischi, di cui è bene essere consapevoli.
Sarebbe difficile, infatti, giustificare interventi di questo tipo, su progetto, senza tirare in ballo la «qualità» di prodotti editoriali, che vanno promossi perché si è deciso in partenza che non saranno premiati dal mercato (come se la qualità dei prodotti fosse il presupposto, e non la conseguenza, delle migliori condizioni di lavoro): ma così si rischia di legittimare – e inasprire – la differenza storica tra una produzione editoriale “alta”, “artigianale”, i cui lavoratori e lavoratrici meritano formazione continua e tutti i sussidi del caso, e una “commerciale”, per cui “basta il mercato”; e si rischia pure di creare un divario tra gli «autori» e gli altri lavoratori del settore, come se non si trattasse spesso delle stesse persone che si riciclano tra le varie mansioni. Pensare che da interventi di questo tipo possa trarre beneficio “tutta la filiera” e che solo così si possano alzare i compensi (tant’è che spesso per queste rivendicazioni si è cercato l’endorsement degli editori, in nome della «filiera unita») significa, da un lato, ripetere la storiella neoliberale del trickle-down, come se bastasse innaffiare di liquidità un settore perché questa si distribuisca equamente tra tutti gli anelli della catena; e dall’altro, non voler vedere la sovrapproduzione strutturale creata, voluta e tuttora rilanciata dagli editori stessi, i primi a dire che il costo della produzione non è un problema. Ma allora bisogna fare in modo che lo diventi: bisogna cambiare i rapporti di produzione.
Il fatto è che gli editori non sono un operatore culturale qualunque, come – che so – i bibliotecari: sono il capitale, e hanno interessi diametralmente opposti a quelli del lavoro, ossia alzare il margine di profitto a scapito dei salari. Il conflitto distributivo in editoria è già in atto e da qualche decennio lo vincono le imprese, al punto di ammettere che la sovrapproduzione è una conseguenza del basso costo di produzione. Per capirlo, basta far camminare il ragionamento sulle gambe invece che sulla testa, far venire la parte prima del tutto: perché crescano i salari non basta che cresca il settore, altrimenti a quest’ora saremmo già tutti ricchi; e perché la crescita non continui ad avvenire a spese dei lavoratori, bisogna che la ricchezza generata dal lavoro sia distribuita meglio.
Alla domanda su “come si fa”, la prima risposta non può che essere costruendo gli anticorpi contro l’idea, che il neoliberismo ha reso egemone tra lavoratrici e lavoratori «imprenditori di sé stessi» e che da decenni balcanizza qualunque organizzazione del precariato culturale, secondo la quale siamo «professionisti in concorrenza tra loro», e dunque spetta a ciascuno e ciascuna di noi, pur rassegnati a un «mercato del compratore» che premierà sempre chi gioca al ribasso, martirizzarsi per alzare l’asticella per il bene della categoria. Come se chi riesce a spuntare qualche briciola in più se la passasse tanto meglio di quelli che osano chiedere di poter lavorare. Come se i salari fossero bassi per la concorrenza degli esordienti, dei neolaureati e degli “hobbisti”, invece che per la sovrapproduzione strategica di cui sopra. Come se in assenza di piena occupazione la concorrenza dei lavoratori sul mercato del lavoro fosse una condizione inedita e specialissima di alcune categorie intellettuali, e non di tutti i lavoratori (concorrenza e concorso hanno la stessa etimologia). Ma lo sfruttamento dipende da chi ne trae vantaggio, non da chi lo subisce: il conflitto va orientato verso l’esterno, altrimenti sarà sempre una guerra tra poveri sfruttati e poveri che non lavorano perché chiedono “troppo”.
Non è facile. Richiede impegno collettivo, la creatività per immaginare nuove forme di lotta e di sciopero e la capacità di creare connessioni con altre figure al di là dei confini nazionali e anche al di là della filiera, tenendo presenti le specifiche forme di sfruttamento: da quella della gran parte dei lavoratori della logistica, la cui ricattabilità passa dal permesso di soggiorno, a quella delle lavoratrici di altri settori della produzione culturale, la cui ricattabilità passa dalla necessità di lavorare con un corpo sessuato. Ma è l’unico modo per provare a cambiare le cose senza discriminare tra lavoratori e lavoratrici più e meno meritevoli, più e meno sacrificabili; ed è l’unico modo per distribuire più equamente tra capitale e lavoro il valore generato dal lavoro editoriale. Perché senza qualcuno che li scrive, li illustra, li traduce, li rivede, li edita, li impagina, li progetta, che li stampa, li rilega e li sposta negli scatoloni, che produce la carta di cui sono fatti, i libri non esistono, e neppure la prima industria culturale del paese.
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