Intervista a Yeheli Cialic – Mesarvot
Qualche settimana fa abbiamo organizzato una discussione pubblica con Yeheli Cialic, membro Mesarvot, un collettivo di giovani israeliani che fanno renitenza alla leva obbligatoria, e membro del Partito Comunista israeliano. Dal 7 ottobre in avanti abbiamo avviato con i compagni e le compagne di Mesarvot diversi confronti. Con Sofia Orr, che in questo mese, assieme a Tal Mitnick e Bern Arad, sta scontando con il carcere il suo rifiuto politico di arruolarsi in un esercito che da decenni preserva l’occupazione dei territori palestinesi e l’apartheid, abbiamo discusso delle strumentalizzazioni che il Governo di Isreaele fa delle lotte femministe e lgbtq*. Con Nave Shabtay Levin dell’importanza di costruire un’opposizione transnazionale al genocidio in corso a Gaza che rompa i fronti stabiliti dalle logiche di guerra.
Yeheli prende posizione non solo contro la leva obbligatoria, ma attacca le fondamenta sioniste, militariste e razziste della società israeliana, rivelando le condizioni di sfruttamento e di violenza che si producono non solo contro la popolazione palestinese, ma anche contro migranti che lavorano nei Kibbuz. Yeheli racconta della difficoltà, ma anche della necessità di scegliere “da che parte stare” quando questo significa andare contro tutto quello che ti è stato insegnato e imposto. “La guerra non conosce vincitori e la libertà non è solo una bandiera, la libertà è elettricità, acqua, libertà di movimento, vera uguaglianza, un futuro migliore, meritiamo di più”. Spostando lo sguardo su quelle che sono le condizioni materiali che la guerra sta producendo non solo a Gaza, ma anche in West Bank e in Israele, Yeheli afferma la necessità di una lotta che spezzi la dicotomia dei fronti belligeranti e unisca israeliani e palestinesi in un comune orizzonte di libertà. La guerra chiude le prospettive di immaginazione, impedisce l’organizzazione transnazionale, non permette di uscire dall’immediato stato di urgenza. La voce di Yeheli è quella di chi non solo ha il coraggio di rifiutare l’adesione ad un sanguinoso progetto di oppressione e segregazione, ma di chi, ostinatamente, lotta per una pace che sia realmente in grado di restituire libertà agli uomini e alle donne non solo in Palestina, ma anche in Israele. La voce di chi sta dalla parte sbagliata, ma lotta per fare la cosa giusta.
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Connessioniprecarie: Puoi parlarci un po’ di Mesarvot? Che ruolo ha l’esercito nella società israeliana e cosa significa rifiutare la coscrizione obbligatoria in Israele?
Yeheli Cialic: Prima di tutto, per capire il ruolo di Mesarvot, dobbiamo capire la società israeliana. Per citare Gramsci i sintomi della repressione possono essere la perdita del lavoro o il carcere, ma la maggior parte della repressione è egemonica. Quando si cresce in Israele, si ha l’impressione che l’intera società sia permeata dal sionismo, dal militarismo e persino dalla supremazia ebraica, che raramente vengono messi in discussione, se non mai.
Termini come colonialismo dei coloni, occupazione, o anche Cisgiordania o Palestina sono completamente assenti, fuori discussione. In questo tipo di ambiente, quando sei giovane e ti viene chiesto cosa vuoi fare da grande, ti chiedono immediatamente “quando vai a fare il militare?”. Non se, quando. Come se fosse una cosa quotidiana, come andare all’università.
L’atto di rifiuto è una cosa enorme. Alcune persone non sanno nemmeno che esiste una cosa del genere. Avevo 14 anni quando ho sentito per la prima volta di qualcuno che non andava nell’esercito. Quindi, fondamentalmente, ciò che Mesarvot fa, ciò che noi facciamo, è costruire una comunità di supporto legale e mediatico, per aiutare i giovani refuseniks a rendere il rifiuto il più facile possibile e, allo stesso tempo, il più impattante possibile.
Noi non ci rifiutiamo per lavarci via il sangue dalle mani, o per dire che agiamo in maniera più morale rispetto a tutto il resto della società: ci rifiutiamo come atto di disobbedienza civile, per cambiare le politiche, per mettere in discussione i legislatori e per essere un potere politico. L’apartheid è una decisione politica presa da chi è al potere. La continuazione della guerra è una decisione politica. E queste decisioni possono essere rovesciate, ma perché ciò accada dobbiamo costruire un potere politico. Nel movimento anti-apartheid in Israele usiamo il rifiuto come uno degli strumenti politici in nostro possesso.
Lo facciamo in molti modi diversi: c’è chi ottiene l’esenzione in base alle condizioni di salute, chi ottiene l’obiezione di coscienza, che è molto difficile da ottenere, e chi va in prigione. Ognuno a seconda delle proprie possibilità, ma tutti ci rifiutiamo. Tutti noi ci rifiutiamo e vogliamo portare questo rifiuto all’azione. Alcuni di noi scrivono, altri fanno arte e altre cose. Organizziamo proteste, ci sosteniamo a vicenda, organizziamo eventi, sovvertiamo i manifesti. Facciamo tutto ciò che si immagina possa fare un movimento politico.
Connessioniprecarie: Nelle attività di protesta che organizzate, avete collaborazioni o contatti con persone palestinesi in West Bank e persone palestinesi o arabe israeliane? Questi rapporti come si sono trasformati dopo il 7 ottobre?
Yeheli Cialic: Come Mesarvot collaboriamo con molte realtà diverse, con tutti gli attivisti anti-apartheid in Israele. Dopo aver ottenuto l’esenzione dall’esercito per motivi di salute mentale, il giorno stesso in cui l’ho ottenuta, sono andato in Cisgiordania, nell’Area C, dove gli abitanti palestinesi devono affrontare costanti minacce di pulizia etnica, sia da parte delle forze militari sia da parte dei coloni. Ho vissuto lì per quattro mesi, imparando l’arabo e documentando le violazioni dei diritti umani, la violenza dello Stato e le numerose discriminazioni.
Da quando sono diventato politicamente attivo dopo aver rifiutato la leva a 20 anni, mi sono unito all’Unione Comunista, che fa parte del Partito Comunista, composto al 90% da palestinesi e in cui il sodalizio ebraico-arabo è uno dei principi fondamentali. È qui che ho imparato delle lotte storiche come il Land Day e le lotte contro il ruolo militare che accomuna israeliani e palestinesi. Queste lotte sono condivise, queste lotte sono una co-resistenza che dura da anni.
Ci sono tanti esempi di azioni e modalità di lotte differenti, ma ciò che sta alla base del nostro posizionamento politico, per me, è il buon senso: ci sono due popoli in questa terra, entrambi vorrebbero esserci, e l’unico modo per andare avanti è insieme. I nostri destini sono intrecciati e c’è molta ingiustizia e squilibrio tra le forze, non fraintendetemi, i crimini vengono commessi ma devono essere affrontati e risolti. Non risolviamo i crimini con altri crimini. Non risolviamo la pulizia etnica con un’altra spirale di ulteriore pulizia etnica. La cooperazione ebraico-araba è parte integrante della comprensione di un possibile futuro per la terra, perché senza di essa saremmo solo in guerra costante.
Connessioniorecarie: vorremmo chiederti qualcosa di più sugli esempi di lotte che hanno portato insieme palestinesi e israeliani. La politica che fate riesce a creare una discontinuità e a rompere la narrazione che viene portata avanti. Quali sono le possibilità oggi di questa politica che fate con il fronte della pace? Nelle ultime settimane Israele è stato luogo di numerose proteste focalizzate contro le politiche di Netanyahu e che vedono al loro interno gruppi tra loro molto diversi, tra chi è sul fronte della guerra e chi su quello della pace, ma anche chi come voi sa che non ci potrà essere davvero nessuna pace finché continuerà l’occupazione israeliana. Che impatto stanno avendo e qual è la composizione dei partecipanti? Voi come state prendendo parte a queste proteste?
Yeheli Cialic: Prima di tutto, queste proteste vanno avanti da più di un anno. Ci sono state molte proteste contro Netanyahu. Sono iniziate prima della guerra, intorno a gennaio, contro la riforma giudiziaria, in risposta a un gruppo di leggi che avrebbe ulteriormente indebolito la già debole democrazia israeliana. Questo è diventato il più grande movimento di protesta di sempre in Israele. E noi – come attivisti anti-occupazione – dobbiamo partecipare a queste proteste e agitare la gente, perché per noi, anche come cittadini israeliani, è un campo in cui rischiamo di perdere molto, e per i cittadini palestinesi ancora di più. Ma anche perché abbiamo una visione più realistica della situazione politica. Il messaggio principale della protesta anti-occupazione è che non c’è democrazia con l’occupazione, né democrazia con l’apartheid. Dobbiamo risolvere il problema che sta alla base, e che spesso viene ignorato, per poter vivere normalmente le nostre vite.
Per un momento è stato possibile, il movimento di protesta stava crescendo, e noi come Mesarvot ne abbiamo fatto parte, anche nei telegiornali si è cominciato a parlare di rifiuto del servizio, non per le atrocità e i crimini di guerra che l’IDF commette ogni giorno nei territori occupati, ma per andare contro l’ordine tradizionale che lo normalizza. Abbiamo portato le nostre idee alle proteste, abbiamo raccolto centinaia di firme, abbiamo interagito con le scuole. Moltissimi articoli di giornali israeliani ne hanno parlato. È stato il momento più alto del movimento. Questo accadeva a settembre. E cosa viene dopo settembre? Ottobre.
Quando è successo il 7 sapevamo già di essere in guerra, sapevamo come sarebbe andata, cosa sarebbe venuto dopo. Ero con i miei cugini e con i miei compagni in Cisgiordania, con i miei compagni del Partito, dovevamo ricominciare rapidamente a essere attivi. Sapevamo esattamente cosa sarebbe successo al popolo che rifiutava la guerra. Ora la maggior parte dei renitenti è in carcere, e altri ci andranno presto, e non sanno quando usciranno. Prima della guerra la pena detentiva era di massimo 20 giorni, ora viene data ogni volta la pena massima, 85 giorni. E gli ufficiali di grado superiore minacciano i detenuti di non rilasciarli. Il 7 non è stato solo uno spostamento a destra del governo, ma anche un cambiamento per il movimento: prima dicevamo di essere scettici rispetto a una soluzione, ma ora è chiaro che una soluzione è vitale che avvenga ora.
Ogni giorno che passa vedo molte proteste in tutto il mondo che chiedono un cessate il fuoco o un’intifada globale o qualsiasi altra cosa, ma devo dire che ci meritiamo di più. Meritiamo di più di una guerra costante, meritiamo di più di un arresto temporaneo della violenza, israeliani e palestinesi meritano di vivere con dignità, meritiamo di vivere in sicurezza. Meritiamo un futuro per i nostri figli, e la guerra vuota e le bandiere sventolanti non ce lo daranno. Abbiamo bisogno di obiettivi e soluzioni reali e realizzabili.
Ed è qui che noi, come Mesarvot, abbiamo iniziato a condividere il messaggio che la guerra non ha vincitori e che non esiste una soluzione militare a un problema politico. Dovrebbe essere ovvio! Ma in qualche modo in Israele, dove nulla ha senso, non è così. Dopo il grande spostamento a destra, ora in Israele accadono cose diverse. È chiarissimo, ora più che mai, che il nostro governo non si preoccupa di noi: invece di firmare un accordo sugli ostaggi, hanno scelto di bombardare l’ambasciata iraniana e di uccidere Mohammad Reza Zahedi. Prima del 7 avevamo l’idea di essere al sicuro, ma non lo siamo e la gente ha paura. Ricordo il giorno dell’attacco missilistico iraniano, ero in un bar e non potevo fare altro che aspettare. E so che questo è ciò che la gente a Gaza prova ogni fottuto giorno. Ogni secondo. È insopportabile. Ok, ho solo 24 anni, ma se penso a mia sorella, ai miei nipoti e alle mie nipoti, mi dico: come può essere normale?
La gente viene a dire “oh è l’asse della resistenza!”. Fanculo! Vogliamo vivere, siamo più che simboli, più che bandiere da sventolare. Siamo esseri umani, abbiamo speranze e sogni. Per noi la liberazione non è solo una bandiera da mostrare, per noi la liberazione è elettricità, acqua, libertà di movimento, una vera uguaglianza, un futuro migliore. Questa è la nostra casa, non è solo una questione politica per mostrare i propri colori e quanto si è fighi, questa è la nostra vita.
Ora la maggior parte del movimento di protesta proviene dalle famiglie degli ostaggi, il governo è la barriera tra loro e i loro cari. Chiedere la liberazione degli ostaggi so che non è così radicale per voi, ma lo è per me. Liberare gli ostaggi e chiedere la fine della guerra. E vediamo come il nostro messaggio si diffonde lentamente in quei luoghi della società. Tutto ciò che voglio dire è che abbiamo delle possibilità reali, vorrei che tutta la sinistra globale vedesse questa opportunità storica e non la sprecasse, non sprecasse lo slancio politico e chiedesse obiettivi raggiungibili.
In questo momento c’è un’onda di paesi che sta chiedendo il riconoscimento della Palestina, e conoscendo anche la posizione degli Stati Uniti bisogna fare pressione sui governi in Italia, negli Stati Uniti e in Germania e bisogna sapere che se finisce la guerra il governo Netanyahu cade. Bisogna sapere che “dal fiume al mare” ci sono milioni di israeliani, milioni di palestinesi e nessuno se ne deve andare e l’unica domanda che conta è quanto sangue deve scorrere prima che tutto ciò finisca? Prima che questa cosa diventi finalmente chiara.
Connessionioprecarie: In questi giorni abbiamo assistito all’azione dell’Iran, che, evidenzia bene come quello che sta succedendo in Palestina e Israele non sia qualcosa che pertiene solo quei territori, ma ha una portata transnazionale, e dunque lo stesso scenario di guerra è molto più vasto. Tu stesso hai appena parlato dell’impatto che la comunità internazionale sta avendo sulle conseguenze stesse della guerra. Vorrei chiederti come pensi che si possa costruire e produrre un’effettiva lotta transnazionale contro la guerra? Sapendo anche che i fronti di questo scenario al momento sono si quello israeliano e palestinese, ma anche il fronte russo – ucraino e in generale c’è una militarizzazione globale, che ha effetti abbastanza tangibili anche in Europa. Concordo che la resistenza non sia solo una bandiera da sventolare, come organizzarci quindi in una lotta transnazionale e comune contro tutto questo?
Yeheli Cialic: Partiamo da chi perde. Chi perde è sempre la gente comune. Spero di non essere stato troppo disorganizzato nel mio discorso, ma ci tengo a ribadire con chiarezza che quello che sta accadendo a Gaza è inescusabile, indescrivibile, spaventoso. La terra brucia. Il 7 ottobre non scusa la pulizia etnica, il massacro e la pura follia che si è dispiegata contro la popolazione palestinese di Gaza. Voglio che sia molto chiaro: non esiste in alcun modo una giustificazione, tutto questo è agghiacciante e la posta in gioco è troppo alta e mi rendo conto che in questa situazione diventa difficile pensare ad altri luoghi, ad esempio quello che succede in Ucraina. Però mi rendo conto che esistono delle connessioni, ad esempio con chi sta rifiutando la leva anche lì. Certamente non è facile e non so quale possa esistere in questo momento un movimento transnazionale. Non lo so, l’unica cosa che posso dire è che è quello che bisognerebbe provare a costruire.
Connessioniorecarie: Hai detto che non sai come creare un movimento transnazionale, ma fai parte di una realtà politica che è composta da palestinesi, arabi ed ebrei, quindi in realtà, tu di fatto sei già parte di un movimento transnazionale e mi sembra che quella che tu pratichi sia una politica transnazionale.
Yeheli Cialic: Io faccio parte del Partito Comunista israeliano, e questo è un punto di partenza molto importante da cui partire per rispondere. Perché è chiaro che in quanto comunisti noi ci rapportiamo con i lavoratori e le lavoratrici di tutto il mondo e non secondo una base nazionale. Chiaramente però ho più contatti con palestinesi che con ucraini o russi per ovvie ragioni di prossimità fisica. È anche importante sapere che il Partito Comunista israeliano ha una storia molto antica, che precede la fondazione dello Stato di Israele e questa dimensione del partito mi permette di avere dei rapporti di apertura e di comunicazione. Tuttavia, io penso che la comunicazione politica non sia soltanto parlarsi, la comunicazione politica deve essere qualcosa di più.
Un’altra cosa che bisogna considerare è che esiste uno squilibrio enorme e che questo squilibrio vissuto dai palestinesi non può non essere considerato e chiaramente questo rende la comunicazione politica non sempre facile, ma consapevoli delle diverse posizioni di potere le dobbiamo assumere e lavorare partendo da queste.
Quando facciamo politica facciamo delle scelte specifiche. Molti partiti e associazioni seguono l’opinione pubblica e i sondaggi mainstream. Ad esempio, una delle fratture principali riguarda il sionismo. Chiaramente se si fa parte di un gruppo che su questo ha un discorso chiaramente antisionista ci sarà una maggiore partecipazione da parte palestinese, se invece su questo si rimane ambigui ci sarà maggior consenso da parte degli ebrei israeliani. Io credo si debba essere molto chiari sul fatto che il progetto politico sionista non è qualcosa di accettabile.
Connessioni precarie: Rispetto a quanto raccontavi prima, mi pare che tu legga in termini di continuità il movimento di massa che c’è stato contro la riforma della giustizia che c’è stato prima del 7 ottobre con quello che sta succedendo oggi, ovvero le proteste per la fine della guerra. Vista da qua sembra che l’opinione pubblica israeliana sia abbastanza compatta. La sensazione che riceviamo non è che Netanyahu abbia vinto, ma che una certa ideologia militarista sia di fatto davvero difficile da attaccare e che in un qualche modo neutralizzi quelle che sono le spinte delle lotte di classe, lotte femministe e antimilitariste, che dopo il 7 ottobre sembrano in un qualche modo silenziate. Vorrei chiederti qualcosa di più rispetto a questa continuità e discontinuità.
Yeheli Cialic: Dunque, la situazione non è ideale, ma, ecco, questo è il Medio Oriente. Sicuramente c’è stato uno slittamento verso destra dopo il 7 ottobre, ma l’opinione pubblica è fluttuante. Per noi che siamo militanti e attivisti e abbiamo un’ideologia politica forte e chiara risulta molto difficile da accettare e capirlo ma in realtà questa è un’opportunità, perché vuol dire che abbiamo sempre la possibilità di cambiarla.
E d’altra parte è molto difficile in realtà leggere chiaramente questa situazione perché l’opinione pubblica è anche contraddittoria: da un lato vogliono fare accordi con Hamas per il rilascio degli ostaggi e dall’altra parte vogliono che Hamas sia completamente distrutto. Io non uso molto i sondaggi per leggere la situazione politica, perché dai sondaggi non si capiscono molte cose; quello che posso dire è che c’è una stanchezza diffusa nella popolazione. C’è la crescente sicurezza che la guerra “non si possa vincere”, ed è qualcosa che ha a che fare anche con il sentimento immediato che si ha quando si vedono i soldati ritornare distrutti e svuotati. Potrebbero essere i tuoi vicini di casa, i tuoi familiari: sono stanchi, vogliono tornare a casa e vogliono smetterla. Quindi si sta diffondendo l’idea che la guerra debba finire, ma parlare in termini di opinione pubblica è difficile, sembra quasi di dover catturare delle spirali di fumo.
Connessioni precarie: Hai tratteggiato un po’ la situazione di ebrei israeliani e palestinesi e dei palestinesi che vivono in West Bank e Gaza, ma nella società israeliana ci sono anche migranti, che lavorano. Noi immaginiamo spesso, semplificando, che esistono israeliani e palestinesi, divisi dal fronte di guerra. Ma nel mezzo ci sono anche condizioni materiali che differiscono e rendono la situazione ulteriormente complessa. Puoi parlarci meglio di questo? Inoltre, rispetto a quanto raccontavi sul sentimento di stanchezza che progressivamente si sta diffondendo volevo aggiungere qualcosa perché mi ricorda molto quello che ci raccontano i nostri compagni all’interno della Transnational Social Strike Platform durante la PAAW (Permanent Assembly Against War). Un nostro compagno ucraino che ha disertato l’esercito ci racconta che sono sempre di più le persone che cercano di fuggire scappando fuori dal paese o che disertano anche dall’interno, e lo stesso sta avvenendo anche in Russia. Mi pare che questo sentimento, dunque, potrebbe essere una base per creare un movimento transnazionale contro la guerra.
Yeheli Cialic: Allora, parlo da una prospettiva israeliana. I lavoratori migranti, soprattutto thailandesi, vivono in un universo parallelo. Sono impiegati per la maggior parte nell’agricoltura e nei kibbutz, che avrebbero dovuto essere un progetto socialista, ma sono un’utopia etnica suprematista bianca, che sopravvive reclutando persone provenienti da Paesi terzi.
Molti lavoratori israeliani sono riservisti e quando sono stati chiamati a combattere sono sorte gravi difficoltà finanziarie. I lavoratori palestinesi in Cisgiordania, che non possono essere chiamati cittadini, ma sono di fatto sudditi di un territorio che è dal fiume al mare occupato contro di loro, si possono muovere solo con permessi di lavoro e vivono in condizioni finanziarie orribili. Uno dei modi principali per dimostrare questa sudditanza dei palestinesi nei territori occupati da parte del regime israeliano è anche la guerra. Nel momento in cui è iniziata la guerra hanno revocato i permessi: molte famiglie facevano affidamento su quei permessi di lavoro per vivere e molte persone erano ancora in attesa dei loro salari.
Non è un posto facile in cui vivere, soffriamo molto l’inflazione, ma con la guerra tutto è diventato molto più costoso. La chiamiamo guerra, anche se nella migliore delle ipotesi è un massacro. Un genocidio. Bisogna porvi fine il prima possibile. Bisogna anche sapere però che dal punto di vista dei soldati può esserci stanchezza, ma sono stati incentivati per tutta la vita a credere che quello che stanno facendo è il loro dovere. Anche in questo caso c’è un ventaglio di condizioni che va da vittime del sistema – e quindi incentivate a fare quello che stanno facendo – a veri e propri criminali. La situazione non è facile, ma si può pensare che ci siano risorse, non possiamo pensare di non averle, e sono appunto la stanchezza diffusa, ma anche la resilienza dei palestinesi che continueranno a reagire, e infine anche i movimenti internazionali che continuano a muoversi per questo.