L’attuale ondata di proteste degli agricoltori mostra che sono in corso cambiamenti fondamentali nell’ambito della transizione verde, ma allo stesso tempo contribuisce a nascondere le condizioni materiali di milioni di persone, soprattutto migranti, che lavorano in quel settore. La transizione verde nel settore agricolo non ha a che fare solo con i profitti di grandi e piccoli agricoltori, ma impatta direttamente sul modo in cui milioni di donne e uomini sono costretti a riprodurre le loro vite. Questo è un problema politico che non può essere ignorato e non possiamo accontentarci dell’alternativa che si presenta ora tra la protezione dei profitti agricoli e gli attacchi della destra contro qualsiasi azione volta a prevenire il collasso climatico. È proprio questa alternativa a rendere tanto urgente quanto difficile un conflitto climatico di classe. Per questo motivo, nelle prossime settimane pubblicheremo una serie di contributi sulle proteste degli agricoltori, guardando a come la transizione verde sta influendo sulle nostre vite e sulle nostre possibilità di lotta. Riteniamo infatti urgente aprire uno spazio di discussione che possa sollevare domande e favorire una riflessione collettiva su cosa significhi oggi organizzarsi, come lavoratori e lavoratrici, attiviste e attivisti, per lottare come classe per un clima migliore.
Conflitti all’interno del capitale transnazionale
Negli ultimi mesi, la riorganizzazione del capitale e degli Stati in risposta alle turbolenze economiche e alla guerra, con l’UE e i suoi Stati membri attivamente coinvolti sia in Ucraina che a Gaza, ha scatenato le proteste degli agricoltori in tutta Europa. Nell’aprile del 2023, i governi polacco e ungherese hanno introdotto misure protezionistiche per difendere gli interessi dei loro capitali agricoli nazionali, colpiti dai bassi prezzi offerti dagli esportatori di grano ucraino, ma essendo il margine di profitto ancora oggi molto scarso, le proteste non si sono fermate. Richieste simili vengono ora sollevate in Romania da alcuni grandi proprietari terrieri. Qualche settimana fa, il taglio dei sussidi per il carburante per motivi di bilancio ha scatenato proteste anche in Germania, con trattori che hanno bloccato le strade e sono entrati nei centri urbani. Le proteste si sono poi estese all’Italia, alla Francia e in tutta Europa, aggiungendo alla lista delle rimostranze i presunti costi illegittimi imposti dall’UE per rendere la produzione agricola presumibilmente più verde, attaccando così direttamente il Green Deal europeo e la Politica Agricola Comune (PAC).
Queste proteste ci dicono qualcosa sulla natura, lo scopo e le contraddizioni che scuotono la transizione verde in Europa. Proprio mentre la Commissione si preparava a derogare all’uso dei pesticidi e ad ammorbidire le misure di decarbonizzazione sulla scia delle proteste degli agricoltori, il vicepresidente responsabile della politica climatica, Maroš Šefčovič, ha dichiarato che la transizione verde consiste innanzitutto nel riorganizzare lo sfruttamento e l’accumulazione di capitale per difendere la produzione industriale europea. Una grande fabbrica verde transnazionale, che non può stare in piedi senza accelerare la sua espansione nella produzione alimentare.
Da quasi settant’anni la PAC fatica a coordinare la produzione agricola a livello europeo. Per garantire la posizione competitiva del settore sul mercato transnazionale, le politiche della PAC forniscono sussidi agli agricoltori attraverso la spesa pubblica per compensare i bassi margini di profitto e garantire prezzi all’ingrosso più bassi. Le politiche di transizione verde mirano ora ad accelerare l’industrializzazione e la finanziarizzazione del settore. La recente proposta europea lega i sussidi della PAC alla conservazione di almeno il 4% dei terreni per scopi rigenerativi, evitando così la coltivazione di questi appezzamenti e promuovendo la loro trasformazione in prodotti finanziari, secondo lo stesso principio del mercato delle emissioni di carbonio (ETS). Non sono poi mancati tentativi di ridurre l’uso di pesticidi e fertilizzanti, una misura che gli agricoltori hanno denunciato come un ostacolo alle loro attività in quanto riduce la produttività – e quindi il profitto – della terra. Tutto questo ha prodotto uno scontro tra diversi frammenti di capitale, perché i produttori più piccoli, di fronte alla concorrenza transnazionale nella produzione e nella distribuzione, non vogliono rinunciare a parte dei loro profitti per ottenere sussidi europei. Di fatto, così come la messa a riposo dei terreni favorisce i grandi produttori e l’agricoltura estensiva, il processo di finanziarizzazione favorisce i grandi capitali multinazionali che cercano di acquisire più terre da sfruttare. Questi ultimi trovano opportunità di maggiori profitti anche nella privatizzazione delle assicurazioni contro gli effetti della crisi climatica sulle colture, trasformate in una questione di responsabilità del singolo produttore proprio mentre la crisi climatica produce effetti sempre più drammatici soprattutto sulla produzione alimentare.
Cosa mostrano queste proteste
La cosiddetta transizione “verde” continua a stabilire il modo in cui le persone vengono sfruttate e impoverite nonché il motivo per cui il clima viene sempre dopo il capitale. In questo processo, solo chi ha abbastanza potere sociale per difendere e affermare l’assoluta priorità dei propri interessi può scaricare i costi sugli altri. Mentre l’Unione Europea si sposta a destra, gli agricoltori trovano terreno fertile per articolare in termini protezionistici la necessità di difendere i propri profitti.
Anche se ci sono voci di protesta a favore di una produzione alimentare più giusta e rispettosa del clima, la narrazione principale presenta una rigida alternativa tra politiche verdi e interessi dei produttori. Accade allora che i partiti di estrema destra e conservatori possono cavalcare le proteste per screditare qualsiasi idea di transizione verde e di giustizia climatica e sociale. Inoltre, le spese militari per mantenere l’Europa in guerra richiedono ormai il sacrificio delle politiche verdi e del welfare, cosicché il Green Deal è sempre meno “verde” e la possibilità stessa di “fare accordi”, se ancora esiste, è un privilegio dei padroni, grandi e piccoli. Crediamo che la nostra urgenza sia quella di trovare un percorso che vada oltre l’alternativa tra diversi tipi di profitto e interessi dei padroni; un’alternativa che oggi rende impossibile politicizzare le condizioni di lavoro e di vita di milioni di persone impiegate in questo settore colpite dalla transizione verde, molte delle quali migranti il cui permesso di soggiorno dipende dall’avere o meno un lavoro. Un’alternativa, questa, che rende impossibile aprire spazi per costruire un potere collettivo contro queste condizioni sociali imposte sulla riproduzione delle nostre vite.
Cosa nascondono queste proteste
I tentativi in corso di accelerare la trasformazione della produzione alimentare europea sono un processo che caratterizzerà la transizione verde nei prossimi anni. La posta in gioco per noi sono le prospettive e le opportunità di praticare un conflitto di classe transnazionale sul clima dentro e contro questo processo. La transizione verde sta stringendo la sua morsa sulle condizioni di vita e di lavoro di milioni di persone, che sono le prime a soffrire per i tagli delle imprese e per le decisioni dei governi di investire più nella produzione militare che in misure contro un’inflazione che da anni sta impoverendo i salari.
Tra queste contraddizioni, gli attacchi ai lavoratori, migranti e non, la propaganda nazionalista e gli accordi tra grandi attori transnazionali che cercano di far profitto in questo scenario globale caratterizzato dal disordine della guerra e dalla competizione, la strada per un movimento climatico e di classe sembra stretta. È contro il tentativo di promuovere un nuovo regime di accumulazione del capitale agricolo che gli agricoltori stanno reagendo. Ci sono differenze nel modo in cui le persone saranno messe al lavoro all’interno di questo nuovo regime: i livelli di automazione, i tipi di produzione e le condizioni della forza lavoro agricola non sono gli stessi ovunque. Pensiamo che per immaginare una via d’uscita da questo sistema inquinante e di sfruttamento dobbiamo aprire uno spazio di riflessione collettiva su come affrontare queste differenze e costruire il potere sociale necessario per avere voce in capitolo in questo processo altrimenti distruttivo.