Dopo 46 giorni di sciopero, che nell’ultima fase ha coinvolto 45 mila lavoratori su 146 mila, alla Ford, General Motors e Stellantis – le cosiddette Big Three americane dell’automotive – sono stati rinnovati i contratti per i prossimi i 4 anni e 7 mesi. Se, di primo acchito, si facesse un confronto tra le rivendicazioni iniziali del sindacato United Auto Workers of America (UAW) e i risultati ottenuti, sarebbe a dir poco impietoso. Nella piattaforma sindacale, presentata un paio di mesi prima della scadenza contrattuale, c’erano cinque obiettivi definiti qualificanti e irrinunciabili: un aumento salariale del 40% in quattro anni, una riduzione a 32 ore settimanali pagate 40, l’abolizione dei due macro-livelli salariali e normativi introdotti dopo la crisi del 2008, l’abolizione del regime pensionistico a prestazione variabile in base all’andamento del mercato finanziario, la reintroduzione del Cost of Living Allowance (COLA) per recuperare completamente il potere d’acquisto che verrà eroso dalla futura inflazione.
Nelle 915 pagine del contratto Ford, nelle 458 del contratto General Motors e nelle 313 del contratto Stellantis non ci sono tracce dell’aumento del 40% del salario, della riduzione d’orario a 32 ore, dell’abolizione dei due macro-livelli salariali e normativi e delle pensioni variabili in base al mercato. Ci sono un aumento del salario del 25% in un contratto allungato di 7 mesi, quando l’inflazione negli ultimi 4 anni negli Stati Uniti è stata del 22% e le proposte delle Big Three oscillavano tra il 20-23% in quattro anni; un COLA, quantificato mediante astrusi calcoli, che recupera più o meno il 50% dell’inflazione futura con pagamenti posticipati di due mesi rispetto alla rilevazione statistica e la cancellazione dell’adeguamento, sebbene parziale, del salario negli ultimi sei mesi di valenza contrattuale; una riduzione da otto a tre anni per raggiungere il massimo salariale per i lavoratori del secondo macro-livello. Una valutazione strettamente sindacale dei contratti li rubricherebbe con l’abusato “poche luci e tante ombre”. E certamente non costituirebbero una chiara inversione di tendenza della condizione dei lavoratori e nemmeno l’apertura di una nuova stagione del conflitto sociale. Qualcosa si è ottenuto, ma le aspettative, le narrazioni, gli immaginari, le necessità erano tutte sovradimensionate ancor prima dell’inizio di uno sciopero definito in anticipo come “epocale e rigeneratore” della classe operaia americana.
“Abbiamo fatto la storia come nel 1937” Shawn Fain – Presidente del UAW
Prima di parlare delle caratteristiche dello sciopero si deve fare un passo indietro per rispondere alla domanda: che tipo di sindacato è l’UAW? Su 390 mila iscritti, 225 mila sono del settore dell’automotive, poco più di 100 mila lavorano a vario titolo nelle università e il resto è composto da iscritti nei casinò, nelle fabbriche d’armi, nei musei, nella sanità. Discorso diverso per i 580 mila pensionati che hanno quasi tutti un passato di lavoratori nelle industrie di automobili. I miliardi di dollari dei fondi pensione e delle prestazioni sanitarie sono dati in gestione finanziaria alla società di investimento BlackRock che risulta essere il primo azionista della General Motors e il terzo della Ford. Gli 895 milioni di dollari del fondo di resistenza per gli scioperi sono investiti a Wall Street e l’UAW è entrata nel mercato delle carte di credito con la holding bancaria Capital One. Insieme alle Big Three il sindacato gestisce tre enti bilaterali di formazione della forza-lavoro che verrà assunta. Sono gli enti bilaterali dai quali è partita, poi progressivamente allargata, l’inchiesta della magistratura per corruzione, appropriazione indebita, evasione fiscale nel 2017 che ha portato, con denunce e arresti, all’azzeramento del gruppo dirigente nazionale e al commissariamento del sindacato da parte del tribunale federale.
Alla fine del commissariamento nel marzo di quest’anno, per ordine del tribunale, si sono tenute le elezioni su doppio turno del Presidente e dell’esecutivo sindacale. Al primo turno ha partecipato il 9% degli aventi diritto e al secondo turno, che ha decretato la vittoria per pochi voti del “riformista” Shawn Fain su Ray Curry esponente della “vecchia guardia”, ha visto la partecipazione del 14% degli aventi diritto con il determinante contributo dei lavoratori delle università. È in questo contesto e in questa specifica congiuntura che soprattutto si afferma l’attuale gruppo dirigente del sindacato e molto meno per la flebile battaglia interna di democratizzazione degli apparati promossa dal gruppo Unite All Workers for Democracy (UAWD) al quale Shawn Fain aveva aderito all’ultimo momento.
Il 15 settembre sono scaduti i contratti quadriennali delle Big Three e il nuovo gruppo dirigente dell’UAW sperimenta una diversa forma di lotta. Non più uno sciopero-pilota dichiarato in una sola casa automobilistica come nel passato ma – ispirandosi ad uno sciopero avvenuto una trentina di anni fa alle Alaska Airlines – uno sciopero in progressione, iniziando con 13 mila lavoratori dei siti di assemblaggio di Ford, GM e Stellantis. In dirette Facebook settimanali, Shawn Fain aggiorna sull’andamento delle trattative e aggiunge fabbriche e centri di vendita dei ricambi che si mettono in sciopero. È lo Stand Up Strike che evoca un ritorno alle origini dell’UAW, negli anni 1936-37, quando mise in pratica il Sit Down Strike. Lo storytelling sindacale stabilisce una relazione diretta tra le due forme di lotta come a dire che è in atto una rifondazione del sindacato dopo gli arresti, il commissariamento e quindici anni di concessioni. Ma non si ritorna alle origini, semmai fosse possibile, e nemmeno viene rifondato l’apparato sindacale.
C’è una differenza profonda tra le due forme di lotta: il Sit Down Strike degli anni ’30 del secolo scorso significava l’occupazione delle fabbriche, lo Stand Up Strike non va oltre i picchetti “in movimento” – chiamati rally – all’esterno delle fabbriche e non a ridosso degli ingressi. Non regge nemmeno il confronto con la lotta delle Alaska Airlines: scioperi a gatto selvaggio definiti CHAOS – Create Havoc Aroud Our System – cioè provocare una crisi improvvisa nell’intero sistema della compagnia aerea. In vista della scadenza contrattuale e il divieto per legge di scioperare prima di quella data, le Big Three hanno accumulato scorte che stime attendibili hanno quantificato in 70-80 giorni di vendite a pieno regime. Le dirette Facebook di Shawn Fain sono finalizzate anche a costruire un nuovo immaginario: la scandalosa avidità dei manager, degli amministratori delegati mina alla base il “sogno americano” e per ottenere dei “contratti record” si deve recuperare la storia dell’UAW dagli anni ’30 fino a Walter Reuther, presidente dell’UAW dal 1946 al 1970. Il quale, aggiungiamo di passata, si distinse anche per l’emarginazione e l’espulsione di operai socialisti e comunisti dal sindacato.
I 46 giorni continuativi di sciopero sono stati fatti solo da tre impianti di assemblaggio dove ci sono stati momenti di tensione tra lavoratori e sindacato per l’insufficiente cifra settimanale, 500 dollari che diventano poco più di 300 dopo le tasse statali e federali, che il sindacato deve corrispondere a chi sciopera, a fronte degli 895 milioni di dollari della cassa di resistenza e degli stipendi del presidente e dei componenti dell’esecutivo che si aggirano attorno ai 200 mila dollari annui. Non è un caso, anche per questi motivi, che due dei tre impianti di assemblaggio, Toledo di Stellantis e Wentzville della General Motors, abbiano votato in maggioranza contro i contratti sottoscritti dall’UAW.
In realtà si dovrebbe parlare di un solo contratto: quello della Ford, il primo firmato. Gli altri sono un adattamento a due specifici contesti. Un contratto monstre di 915 pagine, delle quali una cinquantina denominate “lettere amministrative” non sono state rese pubbliche prima del voto di ratifica dei lavoratori. Lo schema, che aveva già suscitato proteste, ricalca i contratti precedenti: il contratto collettivo è seguito dalle centinaia “lettere d’intesa” che dovrebbero specificare e chiarire i punti dell’accordo ma che in realtà li complicano e in alcuni casi li smentiscono, per chiudere con le “lettere amministrative” che regolano i rapporti tra azienda e sindacato a partire dal funzionamento degli enti bilaterali. Il risultato è una giungla di norme e procedure che ha reso impossibile una lettura approfondita prima del voto dei lavoratori
“La vittoria del UAW pone fine a 43 anni di sconfitte del movimento operaio americano” Nelson Liechtenstein su Jacobin
Nel 1983 il settore dell’auto negli Stati Uniti occupava 990 mila lavoratori e l’UAW aveva 586 mila iscritti, nel 2022 gli occupati sono 1 milione 420 mila e gli iscritti al sindacato 225 mila. L’UAW non è presente nelle fabbriche americane della Tesla, Toyota, Hyundai, Honda, BMW e Volkswagen. E proprio alla Volkswagen del Tennessee risale l’ultimo tentativo, nel 2019, di elezioni sindacali che si è concluso con due sconfitte consecutive. L’affermazione di Nelson Liechtenstein – professore universitario e direttore del Centro studi sul Lavoro e la Democrazia, tenuto in molta considerazione da una certa sinistra statunitense che si riconosce in riviste come Jacobin, Labor Notes e Dissent – appare al tempo stesso decisamente azzardata ma che rispecchia una concezione ingessata e astorica di movimento operaio e della sua composizione di classe, sempre presente sottotraccia e riemersa esplicitamente con l’inizio dello sciopero nelle Big Three. In altre parole, la forza-lavoro è sempre classe a prescindere dalla sua composizione, eterogeneità, forme del conflitto, processi di soggettivazione e, nel momento in cui si esprime con una lotta, diventa automaticamente un movimento operaio con il potere, tra gli altri, di rigenerare anche le organizzazioni sindacali.
Questo lo si può vedere negli editoriali e nei commenti entusiastici, che a volte sconfinano nella mitologia, per le norme contenute nel contratto che riguardano il passaggio ai veicoli elettrici, il riconoscimento del sindacato nelle future fabbriche di batterie e il consenso ottenuto dalle Big Three per effettuare scioperi in caso di chiusura di impianti di produzione e assemblaggio. Per alcuni, ma non pochi, un vero e proprio salto di paradigma nelle relazioni tra capitale e lavoro. Ford, GM e Stellantis hanno avviato da alcuni anni dei pesanti processi di ristrutturazione della produzione e dei modelli di organizzazione del lavoro in vista del passaggio all’elettrico e nel contratto sottoscritto non si entra nel merito della flessibilità dei ritmi, degli orari, delle mansioni, dell’uso degli algoritmi, della velocità di rotazione degli inventari dei ricambi. Si rimane sulla superficie scivolosa di un assenso al riconoscimento del sindacato nei nuovi impianti quando esiste una procedura ben definita e non aggirabile, a meno di metterla completamente in discussione, del National Labor Relations Board che regola l’ingresso del sindacato nei luoghi di lavoro. Un discorso simile vale per gli scioperi al di fuori di un periodo contrattuale. Conta poco o nulla il consenso del datore di lavoro a fronte di leggi statali e federali che regolano, in realtà ostacolano e vietano, gli scioperi stessi. Anche qui, a meno di violare le leggi ma non pare il caso dell’UAW attuale seppur “riformata”. Ma nell’accordo con Stellantis, nelle “lettere d’intesa”, purtroppo c’è di più. All’ottenimento della riapertura di un impianto chiuso, quello di Belvidere, si accetta la chiusura di 18 tra impianti e centri di ricambi nei prossimi quattro anni.
“L’America è stata costruita dalla classe media e il sindacato ha costruito la classe media” Joe Biden – Presidente degli Stati Uniti
Tra i molti problemi di Joe Biden in vista delle elezioni del prossimo anno ce n’è uno chiamato Michigan, dove ci sono 65 mila iscritti all’UAW potenzialmente decisivi per una vittoria. Il Presidente più in sintonia con i sindacati, come la propaganda continua a presentarlo, che nel dicembre scorso ha vietato lo sciopero dei ferrovieri, ha svolto un ruolo di mediazione tra UAW e Big Three. L’obiettivo era che lo sciopero non riservasse alcun imprevisto e che il migliaio di miliardi stanziato dal Inflation Reduction Act e dal CHIPS and Science Act per una transizione verde, fosse implementato velocemente per rilanciare il processo di valorizzazione del capitale e riorganizzare le catene globali del valore.
Se si guardano le due apparizioni di Biden, la prima per una decina di minuti a un picchetto a Detroit anticipando il comizio di Trump in un centro di ricambi non sindacalizzato, la seconda dopo la firma del contratto a un’iniziativa con Shawn Fain dal titolo “Autoworkers Back to Work”, si capisce anche il significato simbolico del suo “sostegno”: bene lo sciopero ma è ora di tornare al lavoro. A Biden, e alla sua Amministrazione, però non basta e si spinge oltre. Cerca di veicolare l’immaginario di una società composta essenzialmente da una classe media. Un luogo indispensabile, come del resto per Biden sono gli Usa in quanto tali, in cui si compongono i conflitti con sempre l’aspirazione a perseguire il sogno americano. Una classe media elevata a feticcio per farla funzionare come un concetto politico da rivitalizzare.
Un evento senza un processo?
Durante i 46 giorni di sciopero l’UAW ha firmato due contratti con aumenti salariali e rivendicazioni normative molto al di sotto del contratto con le Big Three. Alla Mack Trucks, che produce automezzi pesanti anche elettrici, di proprietà della Volvo e alla General Dynamics che produce armi e sistemi d’arma. Nel primo caso con un aumento salariale del 19% su cinque anni, prolungando di un anno la durata contrattuale. Nel secondo, senza un giorno di sciopero, con un aumento salariale del 14% su quattro anni. Alla Mack Trucks la prima versione dell’accordo, senza un giorno di sciopero, è stata respinta dal 73% dei lavoratori che sono entrati in sciopero scavalcando il sindacato. Uno sciopero di una ventina di giorni, non sostenuto nei fatti dall’UAW tanto da evitare qualsiasi rapporto o connessione con la lotta delle Big Three.
Al termine il sindacato ha presentato un secondo accordo non particolarmente diverso dal primo con la minaccia che non ci sarebbe stato un terzo round ma i licenziamenti. Due esempi che mostrano che anche per il nuovo gruppo dirigente “riformista” rimane centrale il vecchio approccio del “fortress unionism”. Un sindacato cioè che mette al centro la riproduzione della propria struttura e delle gerarchie consolidate facendo leva sulla presenza nelle tre “fortezze” della Ford, della GM e della Stellantis combinata a un consistente patrimonio immobiliare e finanziario. Questo intreccio di “fortress unionism” e “business unionism” è risultato immune a ogni spinta riformatrice e si regge anche sulla separazione delle lotte degli iscritti perché un eventuale conflitto che aprisse un processo di ricomposizione sociale metterebbe in discussione l’intera struttura sindacato.
L’ipotesi di Shawn Fain e con lui il gruppo Unite All Workers for Democracy di introdurre elementi di democrazia senza scalfire la struttura e il funzionamento del sindacato ha già mostrato delle crepe anche solo dopo nove mesi. Alla General Motors il contratto, spacciato come grande vittoria con aumenti salariali clamorosi, è stato approvato dal 55% dei lavoratori, alla Ford dal 69% e alla Stellantis dal 70% con una serie di contestazioni per un non chiara gestione dei seggi e dei risultati. Il lungo sciopero delle Big Three nella forma che ha assunto dello Stand Up Strike non ha interloquito – se non per l’aspetto simbolico – con un processo più generale che, negli ultimi anni, ha visto una parziale riattivazione del conflitto di classe negli Stati Uniti. Più in evento, certo da sostenere e con cui solidarizzare, che tuttavia non ha oltrepassato i confini della fabbrica. Ha pesato una gestione sindacale che ha evitato le possibili connessioni sociali e territoriali del conflitto.
La classe operaia non è un dato aprioristico al di fuori degli spazi politici, dei tempi sociali delle linee del colore, del genere e delle generazioni. Guardare solo agli eventi e non anche ai processi è il modo migliore per costruire scenari che non vanno molto oltre delle conferme autoconsolatorie.