di MATTEO ROSSI
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By any means necessary. Il 15 settembre, annunciando lo sciopero contro Ford, General Motors e Stellantis, il presidente degli United Auto Workers Shawn Fain ha citato nientemeno che Malcolm X per esprimere l’intenzione del proprio sindacato di andare fino in fondo allo scontro in atto. Questa dichiarazione fa il paio con un’altra pronunciata due settimane dopo, quando Fain, riferendosi al ruolo degli operai statunitensi durante la Seconda guerra mondiale, ha detto che oggi bisogna portare la guerra «in casa»: una guerra della classe operaia contro la classe dei miliardari, in cui lo sciopero sia «strumento della liberazione». Il ricorso al lessico della guerra di classe e la citazione del leader dei black muslims da parte di un sindacalista bianco e cristiano dell’Indiana non sono estemporanei (e non solo perché Malcolm lavorò per un periodo alla catena di montaggio della Ford di Detroit), ma dicono molto sul momento attuale del movimento operaio statunitense. Dicono in particolare fino a che punto una classe operaia fatta di donne e uomini, bianchi, neri, latinos e asiatici sia ormai, ancora nelle parole di Fain, «stanca e arrabbiata» per le condizioni in cui da decenni è costretta a vivere e lavorare, ma non abbia più paura di «sollevarsi» e di far valere il proprio «potere» contro un’economia che la sfrutta e la opprime e che, con la conversione all’elettrico della produzione automobilistica, si propone di farlo ancora più intensamente. È per questo che da più di tre settimane lavoratrici e lavoratori delle Big Three dell’automobile hanno aperto una battaglia sul salario e sulle condizioni della propria messa al lavoro che rappresenta un momento decisivo per la nuova fase della lotta di classe statunitense apertasi da prima della pandemia. La posta in gioco di questo sciopero non riguarda però soltanto il settore dell’auto, né tanto meno soltanto il piano sindacale, ma i rapporti di forza che definiranno il nuovo regime di accumulazione che si sta inaugurando negli Stati Uniti. L’iniziativa degli auto workers porta infatti lo scontro sul salario nel cuore della transizione ecologica, per anticipare e contrastare i tentativi del capitale di farne un’occasione per consolidare i profitti impoverendo e precarizzando ulteriormente la forza lavoro.
Lo sciopero degli UAW iniziato il 15 settembre è senza dubbio il più importante nel settore dell’auto da decenni ed è per la prima volta rivolto simultaneamente contro tutte le Big Three, tramite una nuova strategia definita stand-up strike (in omaggio ai sit-in strikes degli anni Trenta), che prevede un’estensione graduale dello sciopero a un numero crescente di impianti per massimizzare la capacità di pressione e l’imprevedibilità del danno inflitto alle aziende. Lo sciopero è iniziato in tre grandi impianti di assemblaggio (Wayne in Michigan, Toledo in Ohio e Wentzville in Missouri), per poi estendersi dopo una settimana a 38 piccoli centri di distribuzione della componentistica di General Motors e Stellantis in oltre venti Stati, e dopo un’ulteriore settimana ad altri due impianti di assemblaggio di Ford e General Motors (a Chicago e a Lansing in Michigan), secondo una strategia eterogenea che tenta di dividere il fronte padronale. In due settimane, è così arrivato a coinvolgere 43 impianti e 25.000 operai, che restano comunque soltanto una frazione dei quasi 150.000 iscritti agli UAW impiegati dalle Big Threee pronti a scioperare. Simultaneamente, al di là dei luoghi in cui l’interruzione del lavoro è stata dichiarata formalmente, si è da subito diffuso una sorta di sciopero spontaneo a bassa intensità in moltissimi altri impianti, con i lavoratori sindacalizzati che hanno iniziato a rallentare la produzione rifiutandosi di rinunciare alle pause o di accettare gli straordinari volontari (che per molti, soprattutto giovani e precari, sono una quota consistente e strutturale del salario). A testimonianza di come oggi negli Stati Uniti anche lavorare otto ore equivalga a una forma di sottrazione.
Le rivendicazioni riguardano da un lato il piano più strettamente salariale, con la pretesa di aumenti del 40% in quattro anni (una percentuale pari a quella degli aumenti degli stipendi dei CEOs a partire dal 2008), di tutele contro l’inflazione con la reintroduzione di un Cost Of Living Allowance, della stabilizzazione dei nuovi assunti dopo 90 giorni, dell’eliminazione dei livelli di inquadramento multipli che consentono alle aziende di dividere e gerarchizzare la forza lavoro, ma anche di una riduzione dell’orario lavorativo settimanale e di un miglioramento dei benefici economici e sanitari per i pensionati. Queste richieste hanno primariamente l’obiettivo di cancellare la lunga serie di concessioni fatte dal sindacato stesso nel corso della crisi del 2008: una socializzazione delle perdite che, insieme ai generosi aiuti dell’amministrazione Obama, aveva consentito alle Big Three di rimanere sul mercato. «Tanto valeva prendere una pistola e spararsi in testa», pare avesse detto delle concessioni Shawn Fain, all’epoca sconosciuto delegato sindacale di un impianto Chrysler in Indiana. Come ampiamente prevedibile, in effetti, nei quindici anni successivi i profitti di Ford, General Motors e Chrysler (poi FCA, poi Stellantis) sono tornati a moltiplicarsi mentre i salari restavano stagnanti e venivano progressivamente erosi dall’inflazione. Per gli operai in sciopero, oggi questa tendenza deve finalmente essere invertita.
Al tempo stesso, le rivendicazioni guardano in avanti, con la pretesa di garanzie economiche e del riconoscimento del diritto di sciopero in caso di chiusura o spostamento degli impianti. Le richieste hanno cioè un significato di anticipazione nei confronti dei rischi posti dalla transizione alla produzione di auto elettriche, accelerata a suon di sussidi negli ultimi due anni dall’Inflation Reduction Act promosso dall’amministrazione Biden. Il timore del sindacato è infatti che le Big Three vogliano, da un lato, cogliere l’occasione della transizione per meccanizzare ulteriormente i processi produttivi, dal momento che la produzione di batterie elettriche richiede meno componenti, meno fasi di assemblaggio e quindi meno lavoro di quella dei motori a combustione interna. Il rischio è quindi l’espulsione di una quota di forza lavoro e l’ulteriore precarizzazione di quella restante. Dall’altro, il timore è che le aziende vogliano approfittare della conversione all’elettrico per spostare una parte consistente della produzione al Sud, dove le leggi antisindacali sono molto più zelanti, e, così, spazzare via ciò che resta dello zoccolo duro operaio del Midwest e della sua ostinazione. Sono le stesse Big Three a citare la transizione come il motivo che impedirebbe loro di aumentare i salari per poter continuare a competere con aziende come Tesla, già padrona di un’importante fetta di mercato e già libera da lacci e lacciuoli sindacali. Insomma, l’esatto contrario di quegli high paying, union jobs promessi da Biden nell’annunciare la sua politica industriale mascherata da climate policy. La lotta degli autoworkers, riportando il movimento dello sciopero nel cuore dell’industria, pone allora una sfida decisiva all’interno della transizione ecologica e dei rapporti di produzione e riproduzione che essa sta rideterminando. Una sfida che riguarda in prima battuta il livello dei salari, ma che annuncia anche la pretesa della classe operaia statunitense di imporre il proprio potere nella transizione ecologica, così come il suo rifiuto di pagare i costi economici e sociali di una conversione produttiva resa impellente dall’impatto ambientale distruttivo del capitale e dei suoi profitti.
Per questo, lo sciopero degli operai statunitensi chiama in causa tutti coloro che lottano contro la crisi climatica, e in particolare le decine di migliaia di attivisti che, nelle scorse settimane, sono scese in piazza in tutto il mondo per lo sciopero globale per il clima organizzato da Fridays for Future e che il 17 settembre sono scesi in piazza a New York per chiedere la fine dei combustibili fossili. Li chiama in causa perché la fine del fossile non può essere pretesa a prescindere dai suoi effetti su milioni di lavoratori e lavoratrici troppo spesso trattati come residui del passato da rottamare insieme alle loro industrie inquinanti, ma anche e soprattutto perché la capacità operaia di incidere sui rapporti di forza nella transizione può alimentare lo stesso movimento ambientalista e la sua battaglia per la giustizia climatica. Dall’affermazione di quel potere di parte dipende infatti la possibilità di aprire uno spazio di lotta capace di fare della transizione un campo di battaglia e di impedire che essa si limiti a inaugurare un regime di accumulazione green caratterizzato da avanguardistiche condizioni di sfruttamento. È senz’altro vero che gli operai dell’auto non lottano contro il fossile, avendo legittimamente a cuore le proprie condizioni di riproduzione più della salute del pianeta, ma è altrettanto vero che, come il movimento ambientalista, essi lottano perché la transizione ecologica e il loro stesso futuro non siano interamente dominati dal capitale. Riconoscere il fatto che questi due piani, nonostante le contraddizioni che li dividono, sono parte di un medesimo conflitto climatico di classe all’interno della transizione deve allora essere il primo passo verso una connessione tra lotta per il clima e lotta per il salario, tra la pretesa di una soluzione alla crisi climatica e la pretesa che a pagarne i costi siano coloro che l’hanno resa necessaria. Proprio dalla costruzione di questo schieramento comune passa la possibilità di lottare come classe nella transizione ecologica, negli Stati Uniti come a livello transnazionale.
Era probabilmente inevitabile che, data la dimensione dello sciopero e la sua collocazione geografica nel cuore del campo di battaglia elettorale del Midwest, esso attirasse le attenzioni predatorie della campagna presidenziale, con Trump che ha da subito annunciato una visita a Detroit e Biden che ha fatto di tutto per anticiparlo. Il primo ha tenuto un comizio in un’azienda non sindacalizzata, tentando ancora una volta di piegare le rivendicazioni operaie in senso nazionalista (contro la Cina) e anti-ecologista (contro Biden), ma ricevendo un netto rigetto da parte dei lavoratori e della leadership degli UAW (nonostante i fiumi di inchiostro scritti negli ultimi anni sulla presunta svolta trumpiana della ancora più presunta classe operaia bianca). Il secondo si è invece diligentemente presentato (prima volta per un presidente in carica) a un picchetto in Michigan insieme a Fain, dichiarando il proprio sostegno alle rivendicazioni degli operai contro la minaccia posta da una conversione all’elettrico da lui stesso sussidiata senza condizioni. Se è quindi difficile prendere sul serio un Biden riscopertosi piquetero (peraltro solo pochi mesi dopo aver impedito per decreto lo sciopero dei ferrovieri) è tuttavia necessario riconoscere le forze che lo hanno costretto a indossare un cappellino del sindacato e a impugnare il megafono in mezzo ai lavoratori in sciopero. D’altra parte, come ha detto in seguito lo stesso Fain, se l’uomo più potente del mondo si è presentato al picchetto è solo perché la solidarietà dei lavoratori in lotta può essere un’arma ancora più potente di lui.
Lo sciopero contro le Big Three costituisce infatti il momento culminante di cinque anni di mobilitazioni operaie e sociali senza precedenti negli Stati Uniti dell’ultimo mezzo secolo. Un quinquennio che è iniziato con le mobilitazioni femministe in seguito all’elezione di Trump e con gli scioperi delle insegnanti tra 2018 e 2019, che ha assunto dimensioni di massa con le rivolte di Black Lives Matter nell’estate del 2020 e che è poi continuato con il moltiplicarsi di scioperi per il salario prima e dopo lo striketober del 2021, ma anche con forme di sottrazione meno visibili come quelle della cosiddetta great resignation. E poi ancora proseguito negli anni successivi, con esperienze di lotta localizzate ma rilevanti in termini di visibilità e di composizione, come quella per la sindacalizzazione del magazzino JFK8 di Amazon a Staten Island, o con l’ondata di sindacalizzazioni e scioperi negli Starbucks di tutto il paese. Infine, negli ultimi mesi alimentato dal massiccio sciopero di sceneggiatori e attori a Hollywood per stabilire le condizioni dell’impiego dell’intelligenza artificiale nelle produzioni cinematografiche e televisive, e che, proprio per il suo carattere di anticipazione e per la sfida in termini di potere che pone alle trasformazioni tecnologiche in atto, presenta diversi elementi di analogia con quello degli operai dell’auto. Se negli ultimi cinque anni questo movimento dello sciopero si è manifestato in forme anche capillari ma spesso disconnesse e intermittenti, o poco visibili, o difficilmente replicabili, lo sciopero degli autoworkers rappresenta qualcosa di nuovo per dimensioni, per radicalità e per centralità strategica nell’assetto produttivo statunitense. Il 6 ottobre, a tre settimane dall’inizio dello sciopero, Fain ha annunciato che General Motors avrebbe accettato di estendere la copertura sindacale alle fabbriche che producono batterie elettriche. Resta tuttavia da vedere se l’eventuale firma di un nuovo contratto rappresenterà un momento di chiusura della lotta o di apertura a nuove rivendicazioni, e fino a che punto gli UAW riusciranno a far uscire la propria battaglia al di là del piano esclusivamente sindacale. Resta cioè da capire se e in che misura tramite lo sciopero gli operai statunitensi dell’auto riusciranno a incidere sui rapporti di forza che definiranno la trasformazione del capitalismo statunitense nei prossimi anni, imponendo un potere di parte capace di aprire lo spazio a una lotta di classe nella transizione e per la transizione.