Pubblichiamo un’intervista a Raúl Sánchez Cedillo, autore del libro Questa guerra non finisce in Ucraina, che sarà prossimamente disponibile anche in traduzione italiana. Con lui abbiamo discusso dell’impatto della guerra in Ucraina sulla situazione politica complessiva e sulle possibilità dei movimenti. Il confronto prende le mosse dall’analisi proposta da Raúl nel suo libro e dell’esperienza dell’Assemblea Permanente Contro La Guerra (PAAW) organizzata dalla Piattaforma per lo Sciopero Sociale Transnazionale (TSS). Le nostre visioni evidentemente non coincidono su ogni punto. Tuttavia condividiamo l’urgenza di mettere la guerra al centro della discussione, di fronte all’evidente tentativo di gestire la socializzazione dei suoi effetti per renderla un elemento naturale e indiscutibile della nuova fase politica. Rifiutare la guerra e la sua normalizzazione sono allora punti di partenza per poter elaborare ed immaginare possibilità politiche nuove. Questo dialogo è un momento utile in questa direzione e verso il meeting transnazionale Rompere la barriera: Affrontare la Dimensione Transnazionale in programma dal 27 al 29 ottobre a Bologna (clicca qui per maggiori info e il modulo di registrazione). Riteniamo infatti che nell’intervista emerga chiaramente la necessità di riconoscere come decisiva la dimensione transnazionale, tanto come problema per le forme attuali dei movimenti, quanto come possibilità per riconquistare prospettive di lotta che possano incidere sul presente. Uno dei temi della discussione è perciò come abbandonare visioni nostalgiche per pensare un nuovo internazionalismo, una politica transnazionale costruita sulle condizioni del presente. Questo dialogo si è svolto in larga parte prima delle elezioni spagnole del 23 luglio ma affronta ampiamente l’impatto della guerra nella situazione politica in Spagna, paese dove Raúl vive, e contiene nelle conclusioni alcune valutazioni che tengono conto dei risultati del voto. Leggere questi passaggi sulla dimensione nazionale spagnola alla luce di quanto detto in precedenza mostra in modo netto possibilità e limiti delle azioni che assumono la scala nazionale come orizzonte e il netto cambio di fase imposto dalla guerra e dall’appartenenza all’UE a questo riguardo.
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Giorgio Grappi: Subito dopo l’invasione russa dell’Ucraina, come TSS abbiamo affermato un deciso “No alla guerra” e lanciato la prospettiva di una “politica transnazionale di pace”. In questo testo dicevamo che, pur portando morte e distruzione in Ucraina, questa guerra andava compresa dentro un tentativo più generale di ridisegnare le relazioni globali, in un momento in cui il cosiddetto “ordine globale” mostrava già di scricchiolare. Il comunicato del TSS è circolato moltissimo a livello mondiale e ha raccolto decine di firme tra le più diverse. Questo ci ha portato a chiamare un’assemblea online il 20 marzo 2022, alla quale hanno partecipato 150 persone e da cui è iniziato il percorso dell’Assemblea permanente contro la guerra (PAAW). La PAAW nasce con l’idea di consolidare uno spazio di discussione e organizzazione contro la guerra dove poter elaborare discorsi e immaginare possibilità di lotta in questo nuovo scenario. Anche se il giudizio sulla scelta da parte di Putin di lanciare una guerra di occupazione era assolutamente netto, così come la critica del ruolo giocato dalla NATO e dall’UE negli anni che hanno preceduto l’invasione, un elemento caratterizzante della PAAW è stato il rifiuto di farci arruolare da una parte o dall’altra e di non voler leggere la guerra solo dal punto di vista geopolitico e delle politiche degli Stati. Abbiamo così scelto di considerare le conseguenze sui soggetti che ne subiscono gli effetti materiali, come donne, lavoratori, lavoratrici, migranti. Questa intervista nasce sullo sfondo di questo percorso. Tu hai scritto un libro che si intitola Questa guerra non finisce in Ucraina. Che cosa intendi con questo? E perché hai deciso di scrivere un libro di questo tipo?
Raúl Sánchez Cedillo: Perché sul conflitto in Ucraina, che esiste dall’inizio del mondo post-sovietico, e in particolare come guerra civile dal 2014, sono precipitate tensioni legate a quello che ho chiamato il “caos ecosistemico” connesso alla decadenza o fine dell’egemonia statunitense. Beverly Silver e Giovanni Arrighi parlavano della possibilità che dentro a questa crisi dell’egemonia statunitense si producesse un caos sistemico. Ben più di vent’anni dopo, a quel caos sistemico, cioè del sistema mondo e dei rapporti tra mercati e Stati, si aggiungono chiaramente altre dinamiche caotiche di sistemi caotici, che sono fondamentalmente quella climatica e quella dei movimenti dei migranti, dentro la cornice di quello che Jason W. Moore ha chiamato la fine dei “four cheaps”, cioè la forza lavoro, la natura o le materie prime, l’energia e gli alimenti a basso costo. Nel contesto di questa dimensione di finitudine e degli effetti sociali, politici e soggettivi della pandemia, che sono stati devastanti, precipitano tutte queste contraddizioni, gli antagonismi e le tensioni. Dobbiamo tenere presente che questa guerra si dà per la prima volta all’interno di quello che era il mondo di Yalta, cioè il mondo delle potenze che hanno vinto la Seconda guerra mondiale, con il rischio del nucleare e di un conflitto tra la NATO e la Russia. Il ruolo dell’Europa è in questo contesto assolutamente subordinato rispetto al tentativo di riaffermare o rinsaldare l’egemonia da parte degli Stati Uniti. Oggi abbiamo lo scontro tra due potenze appartenenti al Consiglio di sicurezza nazionale delle Nazioni Unite, e quindi due sovrani senza nessun possibile contrappeso – perché gli Stati membri del Consiglio di sicurezza non possono essere giudicati, hanno il diritto di veto, non riconoscono la Corte internazionale dell’Aja, ecc. Quello scontro che non si è dato se non nella dimensione della guerra fredda, proviene ora dalla periferia per arrivare al centro del sistema mondo senza nessun tipo di negoziazione possibile. Gli attori coinvolti hanno interessi assolutamente incompatibili. Una tregua in questo contesto significherebbe il riconoscimento di questo stato di fatto e dunque che la Russia ha invaso e si è presa una parte del territorio. Il governo di Kiev crollerebbe, perché è legato alla vittoria e al recupero di qualcosa in questo conflitto. Dobbiamo anche tenere conto degli interessi collegati tra gli Stati Uniti, i Paesi Baltici e la Polonia, che hanno una loro agenda rispetto alla Russia e al ruolo della NATO, in chiave anti-russa e anche neo-egemonica in quel territorio. Pensiamo anche alla Germania, completamente spaccata dalle tensioni legate alla fine della sua diplomazia mercantilistica all’interno di quella che Scholz ha chiamato una “svolta epocale”, che significa ridiventare una democrazia atlantica militare. Tutte queste tensioni sono legate agli effetti dell’aggravamento dell’inazione sul clima, alla dinamica dell’inflazione e alla turbolenza nel mercato mondiale e nelle supply chains. L’ordine del sistema di Stati e quello della ricomposizione geopolitica non sono in grado di controllare questa crisi. Il problema che si pone è allora quello di una nuova, autonoma azione politica di quelli che hanno tutto da perdere in questa guerra, cioè delle classi popolari in particolare in Europa, in Russia e in tutto il mondo. Perché questo certamente rischia di essere un conflitto nucleare con la Cina come antagonista finale degli Stati Uniti, perché sulla Russia si gioca la possibilità di isolare definitivamente la Cina come potenza egemone in pectore.
G: L’invasione ha fatto seguito alla pandemia, chiudendo spazi di intervento da parte degli Stati che la pandemia in qualche modo aveva costretto ad aprire. Al tempo stesso, come PAAW, ci siamo interrogati sul laboratorio che ha riguardato l’Est Europa e gli spazi oltre i confini europei negli ultimi decenni, incluso lo spazio post-sovietico, assumendo il piano della riproduzione sociale come centrale per comprendere i processi in corso. Quanto accaduto a Est negli scorsi decenni è stato spesso ignorato dai movimenti che abbiamo frequentato, contribuendo a creare una spaccatura e una evidente difficoltà di comunicazione. Come vedi il rapporto tra le nuove dinamiche innescate dalla guerra e la dimensione transnazionale della crisi della riproduzione sociale che era già emersa in precedenza?
R: Voglio chiarire un punto: questa guerra è una decisione, quella del Cremlino di invadere l’Ucraina. Ma la risposta del sistema di Stati atlantici è una decisione. Una decisione razionale che fa parte di un certo calcolo, per così dire, del cervello collettivo capitalistico, che ha assunto la guerra come un orizzonte di ordine. In questa dinamica caotica emerge una proto-scienza di controllo del caos che punta a stabilire dei vettori di attrazione per generare ordini più favorevoli dentro sistemi caotici. Qui subentra quello che ho chiamato il “regime di guerra”: parlare di regime di guerra significa considerare come la guerra intervenga in una dinamica di scontro sociale e sia parte delle operazioni capitalistiche necessarie per mantenere l’ordine dominante, cosa che nel solco della pandemia sarebbe stata molto più difficile. Possiamo ricordare la risposta europea alla pandemia, ma anche quella di Biden: il neoliberismo è morto, bisognava per così dire curare la società, investire a fondo perduto e fare deficit dentro un grande piano di investimenti e quindi riprendere la politica fiscale, la potenza dello Stato e la capacità statuale di disciplinare i capitalisti per aprire un orizzonte di regolazione dell’antagonismo di classe attorno al salario e al welfare. Questo riguarda anche la questione della qualità della vita, perché uno dei problemi è stata la devastazione sia psichica sia fisica della forza lavoro e la perdita radicale di senso dell’attività soggettiva e della cooperazione sociale. L’esperienza della morte e dell’abbandono di masse enormi di persone da parte dello Stato e la debolezza dei sistemi sanitari nei Paesi capitalistici del nord del mondo si è rivelata un autentico disastro. L’apertura di una fase di scontro sociale per il salario, di riorganizzazione del movimento operaio nei nuovi settori, dal lavoro domestico, alla logistica, al settore pubblico, alla sanità, fino al lavoro migrante, è stato giudicata troppo rischiosa. In Europa la risposta alla pandemia è stato un tentativo di salvare qualcosa che si era rivelato estremamente fragile: il sistema multilivello di comando e di amministrazione dell’UE, minacciato anche dalla potenza delle forze nazionaliste e sovraniste e razziste.
G: In Europa però non siamo più al punto in cui abbiamo un livello europeo contrapposto ai nazionalismi. La guerra ha contribuito a inserire le forze nazionaliste dentro i gangli del funzionamento dell’Unione europea. Questi due elementi sono in contraddizione o si sostengono l’un l’altro?
R: C’è una contraddizione in atto. Pensiamo alla Francia, all’Italia, o alla Spagna adesso e a quello che si dà nel cuore dell’Unione Europea, nei paesi come la Germania, e cioè il fatto che il patto di fondazione della Comunità europea, che vede insieme la socialdemocrazia e il Partito Popolare europeo, è sempre più in difficoltà e si sta sfaldando. Possiamo pensare ovviamente a Podemos in Spagna e a Mélenchon in Francia rispetto al campo della socialdemocrazia, però soprattutto si sta sfaldando a destra. Sempre di più si vedono forze di estrema destra esplicitamente nazionaliste e razziste, non più nascoste o dissimulate. Se pensiamo ai confini, la legislazione sugli stranieri appartiene agli Stati nazionali e su quella base si sviluppa questa dinamica di costruzione dei poli di estrema destra. Quello che stiamo vedendo e che tu dicevi a ragione, e cioè che la guerra, invece di frenare o rallentare quella dinamica di sfaldamento, la sta aggravando, la sta approfondendo. La guerra e il bellicismo portano a una chiamata ai sacrifici, per cui l’inflazione deriva dalla guerra a Putin, le politiche contro il riscaldamento globale vanno rallentate perché dobbiamo usare i combustibili fossili per colpa di Putin, ecc. Questo lo vediamo già nella vittoria di Meloni in Italia, nell’enorme potenza dell’estrema destra in Polonia e Finlandia, in Spagna. Ma vediamo anche la convergenza diciamo asintotica, tra Macron e Le Pen su tante cose, ad esempio rispetto alle lotte sociali, all’autoritarismo e alla violenza dello Stato. Quello che vediamo è un processo nel quale si sta dando quello che dicevi tu, che però non esisteva in questa forma prima della guerra. La guerra non comporta una sorta di rimessa in ordine e disciplinamento della società attorno alle istituzioni europee e a quel patto tra popolari e socialdemocratici, ma sta producendo il contrario, la crescita delle forze “sovraniste” che puntano allo sbaraglio dei meccanismi “multilivello” della governance dell’UE. Questo significa, ad esempio, che l’anno prossimo ci saranno le elezioni europee e potrebbe verificarsi una vera convergenza all’interno delle istituzioni UE attorno a un patto la cui sostanza fondamentale è per così dire l’anticomunismo rispetto a ogni autonomia e a ogni capacità di determinare opzioni politiche a partire dalle lotte e dagli interessi delle classi subalterne, compresa la pace e la contestazione della guerra e dell’allineamento atlantico. Oggi Meloni basta che dica sì alla guerra, sì alla NATO, e può fare tutto quello che vuole, come i finlandesi e i baltici. Anche per la Polonia, di fatto, grazie alla sua partecipazione militante alla guerra, la procedura sulla rule of law è stata sospesa.
G: Questa tendenza a destra può essere messa in relazione a una serie di processi di più lungo corso. Possiamo vederla ad esempio nelle politiche migratorie: nello stesso momento in cui ha avviato le procedure sulla rule of law in Polonia, l’Unione Europea ha espresso sostegno al modo in cui la Polonia si poneva rispetto ai migranti con la Bielorussia, e abbiamo visto politiche simili in altri Paesi, come Francia o Grecia. D’altra parte, negli ultimi anni la denuncia del carattere autoritario dei governi di Polonia e Ungheria non ha impedito all’UE di sbandierare ‘le loro storie di successo’ nel sistema produttivo dell’UE. Il lavoro in distacco, ad esempio, si inserisce nell’intreccio tra regimi salariali ungheresi, polacchi e una serie di direttive europee che poggiano sui differenziali salariali tra Stati membri. Amazon in Polonia funzionava molto bene come contraltare di Amazon in Germania. Dico questo perché concordo sul fatto che la guerra abbia segnato una chiusura, ma già da tempo si è reso evidente che l’autoritarismo politico non è in contraddizione allo sviluppo capitalistico al mercato, come a lungo si è sostenuto.
R: Questo è interessante anche per giudicare fino a che punto questa dinamica di guerra è comandata da un processo non sempre visibile e da variabili che riguardano, ad esempio, la riconfigurazione di quello che Sandro Mezzadra chiama il “metodo del confine”, per ridistribuire e ricomporre la capacità di mobilitare forza lavoro sotto condizioni di altissimo sfruttamento, dentro a mercati e a sistemi di mobilità anche transcontinentale. Pensiamo a quello che significa la guerra per la Germania e per le sue catene manifatturiere nell’Est, o per i mercati di lavoro migrante. Pensiamo ai tantissimi ucraini che stavano in Russia e che adesso sono in pericolo e devono comunque riposizionarsi attorno alla dinamica puramente sovrana della guerra e dichiarare la loro fedeltà oppure essere coscritti nell’esercito. Il miglior metodo per la mobilitazione totale è la creazione di nuove frontiere e nuovi spazi di mobilità. Da questo punto di vista la violenza della guerra ha una dimensione ordinatrice. Nel complesso la guerra accelera quei processi di cui tu parlavi, cioè accelera quella dimensione violentissima di governo e controllo sulla mobilità delle persone, sulla forza lavoro, che erano già in corso nell’Est Europa, e nel rapporto con la frontiera sud dell’Europa. Questa frontiera adesso è militarizzata, ma non impermeabile. La ‘sostenibilità’ dei sistemi sociali e politici dell’Europa occidentale dipende ancora dal flusso di forza lavoro che viene dal Sud, ma a causa della guerra, in condizioni di estrema squalificazione del valore della vita e quindi in un rapporto di sfruttamento estremo. Questo è stato il modello delle destre, pensiamo alla Lega, che risponde a un certo padronato che ha bisogno di questo flusso ininterrotto, però sotto condizioni di massima inumanità. La guerra è una vittoria dal punto di vista di chi sostiene queste posizioni.
G: Questa funzione ordinatrice della guerra oggi funziona? E come? L’impressione è che la guerra avvenga sullo sfondo di un disordine transnazionale caratteristico di questa fase storica. Tu hai sostenuto che la guerra ha di fatto scardinato le categorie e le modalità con cui i movimenti e la sinistra negli ultimi decenni si sono organizzati. Anche alcune categorie, come quella di imperialismo e di egemonia, oggi sono in tensione e non sempre riescono a cogliere le trasformazioni che ci troviamo di fronte. Sembra che oggi ci sia più bisogno che mai di ragionare e produrre discorso per immaginare percorsi di lotta, contro la tendenza ad affidarsi a categorie, concetti e allineamenti che ci sono serviti per decenni ma che oggi sono messi in scacco dalla situazione che stiamo vivendo.
R: Credo che questo sia il punto di svolta per la sinistra del Novecento, per una sinistra occidentale che ha vissuto il lungo ‘68 e poi la fase dell’alter-globalizzazione. Questa si basava sulla possibilità di una produttività del contropotere dentro alle strutture della governance, nella misura in cui la forma dominante dello sfruttamento e del dominio capitalistico era quella della messa al lavoro, della messa in ordine, della messa in produttività capitalistica dell’intelletto generale e della cooperazione sociale. Il patto sociale europeo negli anni ‘60 e ‘70 si basava sullo sviluppo umano dei bisogni e sulla sua trasformazione in merce, in una dialettica in cui il capitale non può distruggere unilateralmente la forza lavoro, ridurla al plusvalore assoluto di una prestazione animale, e quindi deve fare i conti con la forza lavoro senza distruggere tutto. Questa era la nostra opportunità di contrattare con il capitale a livello politico, anche trasformare la democrazia e il welfare in commons, universalizzare i diritti, per regolare l’antagonismo col capitale. Secondo me quella fase lì con la guerra viene meno e quindi il problema è anche quel presupposto che determinava e allo stesso tempo rendeva ragionevole la dimensione di frammentazione in cui abbiamo agito. Mi riferisco alla dinamica dei movimenti legata a un’idea di un soggetto molteplice, che però agiva in maniera non organizzata, non coordinata. Questo sia perché da un lato non eravamo o non siamo stati in grado di immaginare o di mettere in pratica, almeno in Occidente, una sorta di partito di questa moltitudine, sia perché un partito come quelli novecenteschi, sia leninista che nazional-popolare, è diventato una forma estrattivista, una forma di autonomia del politico che mette in subordine l’ecologia delle lotte e dei contropoteri. Questa dimensione entra radicalmente in crisi. Se vogliamo essere in grado di determinare rotture di emancipazione in questa situazione, cercherei degli esempi o dei punti di riferimento che ci servano per stabilire qualche comparazione e l’unico che trovo, almeno per l’Europa, è quello della Prima guerra mondiale. Dipende cosa intendiamo nel dire che entra in crisi la categoria di imperialismo: entra in crisi quell’idea che c’è solo un imperialismo, perché ovviamente la Russia ha avuto una dimensione imperialista e oggi la pratica assolutamente.
G: Mi riferivo soprattutto a una certa capacità, o meglio un tentativo, da parte degli Stati di indirizzare e incidere sul capitale nelle sue componenti finanziarie, sia attraverso le risorse sia attraverso la moneta. Allo stesso tempo però c’è un’incapacità di fatto di ordinare questi processi, che sfuggono costantemente. Quando viene usata nei movimenti la categoria di imperialismo, ciò a volte chiude gli spazi di ragionamento sulle fratture all’interno degli stessi soggetti che costituirebbero i “nuovi imperialismi”. Il problema che volevo porre è come riuscire a guardare dentro a queste contraddizioni e a queste fratture, cercando di immaginare anche gli spazi che si possono produrre e i soggetti che possono contribuire a questa apertura.
R: Per concludere il ragionamento precedente, nel movimento globale l’idea era quella di attraversare i sistemi di frontiere e i differenziali dei diritti e quindi mettere in crisi quella dimensione che oggi diventa palese quando la Commissione europea dice dobbiamo difendere la civiltà europea contro non soltanto la Cina, ma da tutto il sud globale.
G: La “giungla”[1].
R: La giungla, sì. Quel linguaggio diventa esplicito e quindi ritorno alla questione della Prima guerra mondiale, dove si era in una dimensione coloniale rispetto a cui anche il movimento operaio della Seconda Internazionale aveva delle ambiguità. Bernstein e altri vi vedevano una funzione civilizzatrice, Luxemburg ovviamente no. Oggi la lotta per i diritti nel dopoguerra, sociali, politici viene sussunta dentro a una dimensione di civiltà dove il patto sociale esplicito è: avrete questi diritti se obbedite e vi allineate a questa dimensione di guerra, di civiltà e quindi di gerarchizzazione razziale e coloniale dell’accesso ai diritti, quindi a una spaccatura e frammentazione della composizione delle forze del lavoro in senso larghissimo – includendo praticamente tutti quelli che vivono sotto forme di comando. Questo significa che la dinamica che presuppone una dialettica democratica dei diritti è messa in crisi e che quindi dobbiamo ragionare in termini di estrema condensazione del tempo di quello che si potrebbe chiamare il kairos della lotta. Il mio giudizio sullo svolgimento della guerra non è positivo: se non c’è rivolta, se non c’è insurrezione e se questa non è ben organizzata dal punto di vista strategico, c’è qualcosa di molto peggiore rispetto alla Seconda guerra mondiale, perché non esiste la possibilità di bilanciare una potenza che adesso addirittura dispone dell’arma nucleare. Bisogna pensare che da questo cervello collettivo capitalistico, che vede le scarse opzioni di introdurre elementi ordinativi in questa guerra, escono come soluzione delle proposizioni fasciste e quindi di comando effettivo e distruttivo. Il rapporto tra austerità e fascismo è stato dimenticato. Ma è un rapporto costitutivo, originario, sia in Portogallo sia in Italia sia in Germania. Mi riferisco all’estrema concentrazione del comando sulla disponibilità di credito, sull’accesso alla moneta, sul cambio. Questo è stato sempre legato a operazioni di estrema violenza contro la forza lavoro e oggi si sta determinando dentro una dinamica di guerra. I pezzi devastati delle tante sinistre devono dimenticare i bisticci e i litigi degli ultimi venti o trent’anni per mettersi al lavoro sul problema di questa dimensione ostile, nemica e terribilmente distruttiva che è questo regime di guerra. E bisogna rifiutare posizionamenti campisti come quelli per cui Putin non va bene però sta rompendo i coglioni agli americani e quindi… Come si fa oggi a fare un discorso del genere, soprattutto per chi ha rapporti anche con realtà dell’Est?
G: Sul tema dell’opposizione alla guerra: nelle prime fasi c’è stata un’esasperazione, anche alla luce della minaccia nucleare. Poi progressivamente la guerra è andata normalizzandosi. C’è l’orizzonte di una guerra senza limiti prestabiliti che spaventa ma non ci sono coordinate precise per reagire. Tuttavia, si tratta di un immobilismo solo superficiale: è difficile mobilitarsi contro la guerra, ma allo stesso tempo ci sono tensioni sociali che circolano per l’Europa. Noi abbiamo posto da subito come slogan il no alla guerra, ma non ci siamo allineati a un pacifismo morale. Abbiamo messo in circolo questo concetto di politica transnazionale di pace con l’idea di dire che la pace è oggi un orizzonte di lotta transnazionale che si oppone alle politiche di guerra. Tu come immagini un movimento contro la guerra?
R: Io credo che si debba utilizzare il concetto di regime di guerra per parlare non soltanto del conflitto specifico tra i due fronti, ma anche del muro contro il quale si scontrano le lotte per le libertà, i diritti, il reddito, la mobilità, il clima, le lotte contro il patriarcato. Questa dimensione della guerra dobbiamo individuarla, comunicarla, studiarla. Bisogna trovare o reinventare forme per dire che la guerra è la forma del dominio capitalistico. Bisogna legare la guerra al massimo differenziale di potere e di ricchezza che c’è stato mai nella storia e che è stato creato dagli ultimi quindici, vent’anni dopo la crisi del 2008, e che con la pandemia e adesso con la guerra è diventato più grande di mai. Anche quando si parla di miglioramenti, come nel caso spagnolo, questi si sono dati sulla base di un ultra-miglioramento della situazione delle oligarchie finanziarie corporative e dei redditi dell’1%. Quella situazione, che veniva denunciata nel 2011, è peggiorata. La guerra va qualificata come guerra capitalistica: dappertutto tutti i capitalisti sono in guerra e quindi il no alla guerra è il no della lotta di classe. Ma bisogna declinare questa dimensione allargando la definizione di classe a ogni lotta per i diritti perché ogni lotta per i diritti è una lotta di classe. La lotta sindacale è soltanto una parte della lotta per l’accesso al reddito dentro a un rapporto di lavoro. Pensiamo al lavoro informale, al lavoro di cura o alle lotte femministe, in cui la lotta per i diritti significa una capacità di contrattazione generale rispetto al capitalismo, per avere più diritti universalizzati e non razzializzati. Io penso che si debba attualizzare il “no alla guerra” di Zimmerwald del 1915 come un enorme basta al dominio capitalistico sul pianeta, che non è un processo ideologico, non è un processo pacifico, non è rivoluzione passiva, ma la costituzione di ordini violentissimi con il rischio non soltanto della guerra nucleare, ma anche di quello che i generali cinesi hanno da tempo già chiamato la “guerra senza restrizioni”, la “guerra ibrida”, la “guerra non lineare”, la possibilità che vengano attaccate le comunicazioni e la psiche globale, i sistemi di trasporto energetico e via di questo passo. Finché c’è questa dimensione di guerra fra Stati ed eserciti si crea una sorta di promozione della guerra civile globale dentro le società. Sappiamo anche che l’intenzione del Cremlino, ad esempio, è di creare grandi casini in Occidente, promuovendo sia i fascisti che quelli che combattono i fascisti per creare caos. Perché il caos indebolisce il regime di guerra dell’avversario. E quindi il problema che dobbiamo porci è come attualizzare il problema della rivolta e della rivoluzione. E come pensare forme di autogoverno e di rapporto con lo Stato, dentro e contro lo Stato che diventa regime di guerra, in maniera transnazionale, a livello europeo, a livello trans-europeo. Dobbiamo pensare a una nuova transnazionale-internazionale. E questo dobbiamo farlo sulla base di eventi e di prospettive sempre imprevedibili, dobbiamo essere capaci di “surfare” sugli eventi così come vengono, ma essere anche sempre meglio preparati per approfittare delle crisi, perché giustamente tu dicevi che c’è una grande ondata di lotte. Pensiamo a quelle francesi, che sono una rivolta contro la quinta Repubblica e contro la potenza sovrana. Ma quale sarebbe invece il passo successivo in termini pratici? La violenza organizzata? La violenza armata? Questo non appartiene più, o non ancora, al paradigma delle lotte, anche se la violenza fa parte delle lotte. Prima della caduta del muro di Berlino, gli Stati dell’Europa occidentale, pensiamo all’Italia, hanno ucciso sistematicamente e in funzione anticomunista le persone che lottavano e a un certo punto le altre persone hanno detto “anche noi prendiamo le armi per risolvere quel problema del potere”. Quindi il problema che ci poniamo, il problema di dire no alla guerra, implica anche il superamento di questo pacifismo che dice che la volontà democratica attraverso il consenso fermerà le guerre. Questo non è successo mai, tranne in quelle guerre assolutamente coloniali come quelle del Vietnam e comunque dopo vent’anni, e non è più successo in Iraq.
G: Ci sono diverse questioni: quella di produrre ragionamenti che prendano il piano transnazionale come una base di riferimento e non qualcosa che viene dopo, dall’incontro di esperienze nazionali; quella di ripensare la lotta di classe. Se pensiamo all’internazionale dobbiamo fare i conti con l’assenza dei soggetti organizzati che costituivano l’Internazionale come il partito operaio e il legame tra il partito operaio e il sindacato. Abbiamo di fronte una sfida di linguaggi, di discorsi e di organizzazione che rende il tutto più complicato, ma io sono d’accordo che lo sforzo necessario vada assolutamente compiuto in quella direzione.
R: Vorrei chiarire il mio riferimento. La nostalgia non c’entra niente, perché quello che si disputava in quel momento era la possibilità di un altro governo della classe, governare in una direzione alternativa il capitalismo. Oggi il problema è quello della distruzione assoluta del modo di produzione capitalistico diventato forza distruttiva e non solo produttrice di nuovi bisogni insoddisfatti per l’umanità. La permanenza e la continuità del comando capitalistico significano oggi guerra e distruzione climatica, distruzione degli ecosistemi, autoritarismo. Dobbiamo porre il tema del rapporto tra capitale e, come si dice in America latina, la buona vita, il buen vivir. E di un antagonismo assoluto. Da ogni punto di vista l’urgenza è quella di organizzarsi senza perdere questa singolarità geografica, di genere, di ricchezza, di educazione, di linguaggi organizzati, con macchine organizzative, comunicative, con nuove macchine da guerra che combattono la guerra per sabotare, distruggere e costruire allo stesso tempo istituzioni di autogoverno. Allo stile zapatista, allo stile di consigli di territori che si dichiarano capaci di produrre lotta, ma anche modi di organizzazione della produzione. Traduzione del Comune in maniera sperimentale, ma anche confederata, federata, capace di organizzare scambi finanziari e sistemi di aiuto, sistemi di soccorso rosso rispetto alla enorme repressione che vediamo anche soltanto per le azioni di disobbedienza civile. Pensiamo alla questione dei rifugiati climatici e alla promessa di grandi massacri, chiaramente prevedibili, da parte dei dispositivi di frontiera. Questo significa che per i nostri tempi abbiamo questo compito che ci è venuto addosso. Io vengo da una prospettiva che era per così dire estremista volontaristica, che pensava piuttosto a tempi lunghi di sviluppo, di mutazione non immediatamente percettibili, di salti di qualità nella crescita di società alternative, contropoteri.
Il problema oggi è questa estrema accelerazione e condensazione di tempi, in cui anche il modello occidentale è sempre più in declino. Dobbiamo pensare fino a che punto siamo indietro quando parliamo di rivolta: chi ha dei buoni rapporti con i milioni di cinesi o indiani, con la maggioranza del mondo, da questo punto di vista? Come facciamo a ragionare con loro e sulle loro lotte e prospettive? Pensiamo ad esempio a cosa significa la decrescita in posti dove c’è la fame. C’è ancora oggi un differenziale enorme e dobbiamo porci questo problema, perché se rimaniamo nell’idea di una certa permanenza dei sottosistemi in cui abbiamo vissuto finora non possiamo fare granché nel resto del mondo. Allora cerchiamo di avere un’Europa meno peggio di quella che è. Questa è stata chiaramente la scommessa di una sinistra legata ai Verdi. Anche in Spagna esiste questa prospettiva che possiamo chiamare di centrosinistra imperialista, cioè che assume che l’Europa perlomeno deve potersi difendere un po’. È la sinistra di Borrell quando parla della giungla, che sarebbe comunque schifoso se fosse fattibile. Ma non è nemmeno fattibile, perché quella capacità di porre un contrappeso al “Berlin Power” da parte di una certa sinistra organizzata nelle istituzioni non c’è. La dinamica di accelerazione degli automatismi dell’“austerity”, della restrizione dei bisogni, dell’autoritarismo, della neutralizzazione della protesta, della corsa agli armamenti, del linguaggio militaristico, della legalizzazione dei fascisti all’interno della società, fa sì che questo sia impossibile.
Mi sembra fondamentale questa enorme trasformazione nascosta nell’Est Europa di cui parlavi prima. Quello che hanno fatto in un sottosistema mondiale enorme, che era sviluppato, è stato un massacro assolutamente bestiale sia in termini di capacità, di vite umane, di educazione di cervelli e potenziali creativi. Tanta gente con un enorme livello di istruzione è caduta fisicamente e psichicamente nella miseria, nel degrado e nel risentimento. L’anticomunismo assoluto che ha guidato la shock therapy in tutta l’Europa, che ha prodotto gli oligarchi, ha represso tutti gli elementi comunisti non stalinisti presenti nella società, dando sfogo a questi nazionalismi e questi risentimenti come l’anticomunismo, la violenza, il patriarcato. E ha distrutto anche il filo narrativo, il filo storico che legava comunque l’esperienza del socialismo reale a una lotta storica contro l’autoritarismo e per la liberazione dei contadini e degli operai e contro la guerra. In Europa un processo di questo tipo, che possa mantenere quelle aspirazioni al benessere di fasce larghe delle popolazioni europee, non esiste più. Oggi la violenza nella distribuzione e contrattazione del reddito, dei diritti, degli spazi di libertà, dei privilegi è enorme e si basa sull’obbedienza al progetto di civiltà e sul suprematismo neocoloniale. Questo non c’entra niente con la sinistra così come si è configurata oggi e come era in parte alle origini dei Verdi in cui coesistevano pacifismo, femminismo e altre istanze. Nel caso della sinistra in Spagna, non c’è oggi qualcosa capace di coniugare una nuova ondata lavorista, di ripristino e aumento dei diritti anche per il lavoro indipendente e di piattaforme, un nuovo welfare e una sorta di stop al neoliberismo, con i diritti femministi o un consolidamento delle conquiste femministe sulla base di un patto sociale europeo.
G: In che forma la guerra ha inciso su quelle che sono le traiettorie politiche che abbiamo visto in Spagna in questo ultimo anno e mezzo, sia nei partiti sia nelle società? Quanto e come possiamo leggere quello che sta succedendo in Spagna dentro la cornice europea? Mi interessa ragionare del piano politico e istituzionale e di come questo si intreccia con quello dei movimenti. Oggi qual è la situazione?
R: Anche in Spagna la guerra ha messo fine alle possibilità alternative di un nuovo ciclo politico. Come si dice in spagnolo, è stata la puntilla che si dà al toro quando cade sul telo. La sinistra era arrivata al Governo quando era ormai sfinita dal punto di vista della capacità di combinare macchina elettorale e forza sociale e il rapporto con i movimenti, che sono stati esauriti da questo processo. La potenza elettorale è rimasta comunque fino al 2019. Quando è arrivato il primo governo di coalizione nel quale una componente, Podemos, veniva dal 15M, è scoppiata la pandemia, che è stata un duro colpo rispetto alle possibilità di dimostrare la validità di quella cosa. Questo si è tradotto da un lato in un’enorme violenza da parte del regime politico-mediatico-corporativo spagnolo contro questo governo e in particolare contro Podemos, e allo stesso tempo ha favorito la promozione di compatibilità, che sono state sollecitate e accettate da componenti che pensavano che questa fase – che immaginavano di rottura anche repubblicana e costituente rispetto al regime democratico e alla monarchia democratica nata nel ‘78 – fosse finita.
Questo ha coinciso, e mi sembra molto interessante per la dimensione europea, con il Next Generation EU, quindi col “nuovo patto europeo”, il più enorme sforzo fiscale europeo mai visto dal dopoguerra. Queste componenti hanno visto la possibilità di dimostrare che si può ripristinare una socialdemocrazia di riforme grazie al PNRR e ai fondi Next Generation seguendo le direttive della Commissione europea. Con questo governo la Spagna ha approfittato della direttiva sul salario minimo e non solo, cosa che invece l’Italia non ha fatto. Come sappiamo le direttive sono vincolanti, ma non determinano i tempi, perciò molto dipende dai governi e dalle congiunture. In Spagna Sanchez, insieme a Unidos Podemos e ai i sindacati, ha approfittato per fare una legislazione lavorista che migliora qualcosa. Ma tutto questo sulla base dell’obbedienza al nuovo corso europeo e quindi alla guerra. Praticamente anche il Partito comunista e altre componenti hanno accettato questo scambio. Volete avere fondi che sono ultra-favorevoli per i padroni e per le banche ma che comunque compensano la situazione dovuta all’iperinflazione? E loro hanno accettato questa cornice di possibilità per giustificare la loro esistenza come elemento di pressione e anche eventualmente di sostituzione della vecchia socialdemocrazia. Questo a me sembra un completo delirio, ma spiega il comportamento di queste forze. Questo viene per così dire anche giustificato dal fatto che l’opinione pubblica spagnola non si è opposta alla guerra, nei sondaggi il 60% era favorevole all’invio di armi. Culturalmente e politicamente soltanto Podemos si è opposto, anche perché loro hanno visto le conseguenze e le dimensioni di questa operazione: sei condannato a stare con questa crociata di civiltà e accettare la centralizzazione fiscale, il coordinamento tra capitalisti e il tentativo di golpe per mettere fine alla fase caotica dello sviluppo finanziario mediante quella che si chiama la gestione del rischio, il derisking. Nel senso che sì, ti diamo i soldi, ma devi indirizzare gli investimenti su certe cose e rispettare certe clausole. Condizioni che comunque non stanno funzionando perché ci sono enormi tensioni e contraddizioni nell’autonomia ancora della finanza e nelle ambiguità nella stessa Banca centrale europea.
C’è nella coalizione di governo chi vede la possibilità di una variante di sinistra di questo percorso, ma oggi qualsiasi possibilità di prendere l’egemonia in una coalizione di sinistra si scontra con la congiuntura dei fondi europei, che sono la base per legittimare l’azione governativa. L’idea di usare questi fondi per fare politiche di sinistra si scontra con il fatto che il Next Generation EU è diventato un patto di civiltà. Questo si vede anche tenendo conto del risultato delle elezioni del 23 luglio, che hanno visto la riconferma elettorale del patto tra PSOE, Sumar e gli indipendentisti baschi, catalani e galiziani, smentendo quella che appariva come una vittoria inevitabile della destra. Tuttavia, come ribadito durante la campagna elettorale, non si oserà andare al di là della difesa di queste conquiste nei limiti del possibile, accettando la dinamica europea complessiva, quella di un continente che deve difendersi da diverse minacce e deve sostenere la guerra anche con una prospettiva diplomatica. Il discorso è quello che bisogna sostenere il popolo ucraino perché ha valori democratici, mentre la Russia è una potenza completamente non democratica, e bisogna combinare diplomazia, ma comunque il sostegno militare viene accettato, così come l’appartenenza alla NATO e l’incremento della spesa militare. Nella dinamica della guerra, questa è la dimensione europea. Non c’è nessuna tendenza di messa in questione di questa dinamica, né una sinistra che rimanga legata a movimenti capaci di porre un piano di rottura politica e costituente. Questo rende fallimentare la pretesa di incidere a questo livello. Il bilancio è che questa fase è finita. Bisogna dunque salvare quello che si può e mettersi al lavoro in quel progetto di discussione transnazionale di cui parlavamo prima, sulla base di una diagnosi sulla fase e del riconoscimento di questa condensazione estrema dei tempi. Partendo dal non obbedire e non arruolarsi nella dinamica del regime di guerra e civiltà europea, come possiamo ricostruire questa dimensione transnazionale di lotta dentro alla prospettiva che io chiamo di pace costituente?
[1] Il riferimento è alle dichiarazioni dell’Alto Rappresentante dell’UE per gli affari esteri e la sicurezza Josep Borrell quando, lo scorso ottobre, ha sostenuto che l’Europa è “un giardino” e “la migliore combinazione di libertà politica, prosperità economica e coesione sociale che l’umanità è stata in grado di costruire”, mentre “la maggior parte del resto del mondo è una giungla e la giungla potrebbe invadere il giardino”.