Nel 1933 Adolf Hitler dichiarò il Primo Maggio Festa del Lavoro tedesco. Il giorno dopo sciolse i sindacati. Noi non crediamo alle analogie storiche e quindi non pensiamo che la storia possa riproporre un potere fascista come quello del Ventennio. Certo è però che Giorgia Meloni – forse postfascista, sicuramente non antifascista – ha tutte le intenzioni di occupare simbolicamente il Primo Maggio del 2023. Per fare le cose nel migliore dei modi ha convocato il giorno prima tre sindacati (CGIL, CISL e UIL, sempre quelli) per comunicare quali misure intende imporre al lavoro italiano, che nel frattempo è diventato però anche migrante, femminile, precario e soprattutto povero.
La misura più rilevante ‒ e anche la più discussa tra le fila del governo, dei sindacati e dei movimenti ‒ è lo smantellamento del reddito di cittadinanza e la sua sostituzione con il nuovo assegno di inclusione. Il messaggio del governo – già evidente nella guerra ai migranti e alle migranti dichiarata con il decreto Cutro – è che si deve lavorare, a qualsiasi condizione. Gli “occupabili” vanno catturati in un sistema di workfare e precarietà che, mentre esclude milioni di possibili beneficiari riducendo i criteri d’accesso al reddito, afferma il familismo patriarcale come passepartout di ogni politica sociale. Si scopre così che il lavoro non è l’alternativa a queste misure di “inclusione sociale”, ma il loro presupposto. Si parla di povertà, ma sotto l’insegna dell’occupabilità ci sono condizioni di precarietà sempre più intense, salari insufficienti ad arrivare a fine mese, e anche il rifiuto opposto da milioni di donne e uomini all’obbligo di lavorare a qualsiasi condizione.
A questo rifiuto si deve dare voce. I sindacati confederali però sono più impegnati a lamentarsi per lo scarso tatto con cui sono stati contattati. La direzione scelta dal governo era però evidente da tempo e loro hanno scelto di rispondere con delle assemblee, cioè di mobilitarsi a parole. Eppure, la realtà è fatta dei salari reali più stagnanti d’Europa, destinati a rimanere tali anche a fronte dei minimi sgravi fiscali previsti e delle mancette aziendali incapaci di porre un argine all’inflazione che da mesi soffoca lavoratori e lavoratrici. Per non parlare del fatto che il nuovo decreto estenderà la possibilità per i padroni di stipulare contratti a termine, senza obbligo di trasformarli in contratti a tempo indeterminato, e faciliterà il ricorso ai voucher nel settore turistico, proprio mentre le regioni si affrettano a chiedere al governo di rivedere al rialzo le quote di lavoratori stagionali previste dal decreto flussi. Contro tutto questo sarebbe necessario organizzarsi, per opporsi alle politiche attive di sfruttamento che il governo sta imponendo trattando il lavoro come una delle tante emergenze alle quali sostiene di dover rispondere.
Quello che sta succedendo in Italia in fondo non ha però il segno dell’eccezione. Gli attacchi del governo Meloni contro lavoratori e lavoratrici sono in linea con la riforma francese delle pensioni, che mira a infoltire i ranghi di quell’esercito del lavoro di cui il presidente Macron ama presentarsi come il comandante in capo. Sono in linea con le parole del direttore della Bank of England, che invitano gli e le inglesi ad abituarsi ad essere poveri. Sono in linea con il populismo del capitale nell’est Europa e con le spinte alla riorganizzazione neoliberale del mercato del lavoro che imprimono il loro chiaro segno sui piani per la ricostruzione dell’Ucraina.
Contro questa situazione in Francia, in Gran Bretagna e in Germania ci sono stati e ci sono scioperi e mobilitazioni di massa. Quando sarà colma la misura in Italia?