di LORENZO COSTAGUTA (Università di Bristol)
Scioperano i lavoratori e le lavoratrici delle ferrovie, sciopera la Royal Mail. Sciopera la scuola, scioperano infermieri e infermiere. Sciopera la metropolitana di Londra, scioperano gli amministrativi dell’università. E poi scioperiamo noi: docenti, ricercatori e ricercatrici, e tutt* gli/le impiegat* a vario titolo nell’insegnamento e nella ricerca nelle università britanniche. Il Regno Unito è attraversato da un’ondata di protesta sociale come non si vedeva da decenni. Il corpo docente dell’università, impegnato in una vertenza sindacale iniziata ormai mezzo decennio fa, d’improvviso si trova a fianco una nutrita schiera di compagni e compagne di lotta. È l’università ad aver fatto da apripista a una più ampia fase di scontento sociale? È pensabile che la spinta proveniente dai vari settori della società possa portare alla vittoria nelle battaglie del sindacato in università?
Per rispondere a queste domande è necessario fare un paio di passi indietro. A risvegliare dal torpore l’allora sonnacchioso sindacato del personale universitario (l’UCU, University and College Union) fu un piano scellerato di riforma del sistema pensionistico di una parte del corpo docente del paese presentato nel 2018. La proposta di riforma dell’Universities Superannuation Scheme (il fondo pensionistico delle università di più antica fondazione riunite nel Russell Group) venne motivata con la necessità di tappare un presunto buco di bilancio di svariati milioni di sterline. Per evitare il rischio default del conto, sostenevano i dirigenti dell’USS, c’erano due strade possibili: l’aumento dei contributi versati da personale e università (all’8 e 18% del salario annuo individuale, all’epoca) oppure una significativa riduzione delle pensioni erogate. Il problema, identificato immediatamente da parte del sindacato, era che la valutazione sullo stato di salute del fondo era stata fatta secondo calcoli di una prudenza del tutto irrealistica rispetto al contesto finanziario dell’epoca. In pratica, i dirigenti di USS si stavano muovendo per rendere il fondo sostenibile anche nel caso in cui buona parte delle università contribuenti avesse dichiarato fallimento e smesso di versare totalmente al fondo. Una assurdità contabile usata in maniera pretestuosa per celare quello che parrebbe il vero obiettivo dell’operazione: usare più liberamente i soldi del fondo per investimenti finanziari, trasferendo parte del rischio di questi investimenti sui contraenti stessi del fondo, nella speranza di generare ulteriore ricchezza per le università. Una pura manovra speculativa, impossibile da mettere in pratica con le vecchie regole a cui era vincolato il fondo.
La spudoratezza del piano concepito dai dirigenti di USS ha contribuito in maniera decisiva a radicalizzare un corpo docente tutt’altro che politicizzato come quello britannico. Gli scioperi del 2018 e del 2019 sono stati quelli del risveglio, con l’UCU a raccogliere migliaia di nuovi membri entusiasmati dall’esperienza collettiva di prendere parte a “picchetti” all’entrata dei campus, organizzare “teach outs” nei pub e nei bar intorno alle università e andare a manifestazioni in giro per il paese. L’elezione di Jo Grady al posto della moderata Sally Hunt nel 2019 ha certificato lo spostamento a sinistra del sindacato, concretizzatosi poi nell’avvio di una più ampia e radicale vertenza sulle four fights: le lotte contro l’abbassamento dei salari, l’aumento dei carichi di lavoro, le disuguaglianze salariali lungo le linee del genere, della razza e dell’abilità, e la precarizzazione del corpo docente. I numeri raccolti da UCU sono impietosi. Dal 2009, i mancati adeguamenti dei salari ai tassi d’inflazione hanno determinato una riduzione del potere d’acquisto del personale universitario del 25%. La differenza tra i livelli salariali degli uomini e quello delle donne è del 15.1% a favore degli uomini; quello tra corpo docente bianco e corpo docente BAME è del 12-13% a favore dei bianchi; quello tra docenti senza disabilità e docenti con disabilità è del 8.7%. Il 70% dei ricercatori e delle ricercatrici in università hanno un contratto precario, e negli atenei proliferano categorie di contratti “a zero ore” che non prevedono alcuna garanzia per i e le contrattisti/e. I docenti lavorano in media 50 ore a settimana, la metà di loro dichiarano disturbi psicologici derivanti dalla costante pressione a cui sono forzati a causa dei carichi di lavoro in università (dati UCU Edimburgo e UCU).
Arriviamo così agli scioperi di questi giorni. Il 30 novembre una grande manifestazione nazionale a Londra e in altre città del paese ha chiuso una tre giorni di proteste iniziata il 24 novembre. Si tratta di un piccolo assaggio rispetto a quella che, con ogni probabilità, sarà la ben più corposa azione dell’inverno 2023. L’attuale tornata di scioperi è caratterizzata da un cambio di passo nella dimensione della protesta. Secondo le restrittive norme sullo sciopero approvate da David Cameron nel 2016, nel Regno Unito è possibile andare in sciopero solo se votano sulla vertenza più del 50% degli iscritti al sindacato. Per quanto riguarda le università, il voto può essere organizzato in due modi: per università oppure su scala nazionale. Tutti gli scioperi dal 2018 alla prima metà del 2022 sono stati gestiti a livello di università, creando una situazione a macchia di leopardo: le università con iscritti più sindacalizzati e più a sinistra sono sempre andate in sciopero, quelle con iscritti più moderati, spesso, sono rimaste a guardare. Quest’estate, la dirigenza del sindacato ha tentato l’azzardo del voto nazionale, e la scelta ha pagato: con il 57% dei votanti sulle four fights e il 60% sulle pensioni, l’UCU ha ricevuto un solidissimo mandato di sei mesi per organizzare attività di protesta su entrambi i fronti. Per questa ragione gli scioperi in corso sono i più ampi della storia del settore, con decine di università che non hanno mai scioperato negli anni scorsi che si sono unite finalmente alla lotta. Un’iniezione di entusiasmo tanto più necessaria per sopperire alla difficoltà di molti che, trovandosi in università che hanno scioperato ogni semestre da un paio di anni a questa parte, avevano iniziato a dubitare dell’efficacia della strategia adottata da UCU.
Come è evidente, quindi, la protesta degli atenei britannici viene da lontano, e in larga misura non è legata agli scioperi avviati in questi mesi in altri settori dell’economia britannica. Ma se da un lato è difficile suggerire che l’università abbia fatto da apripista all’autunno caldo britannico, dall’altro si intravedono chiaramente modi in cui le diverse proteste andranno a intrecciarsi e ad aiutarsi vicendevolmente. In ultima analisi, gli universitari e le universitarie si trovano di fronte alla stessa situazione degli altri lavoratori e lavoratrici in sciopero in queste settimane: un drastico abbassamento delle condizioni di vita, causato da fattori contingenti (l’inflazione, l’aumento delle bollette) e strutturali (il mancato adeguamento dei salari nel corso degli anni e il progressivo deterioramento delle condizioni di lavoro). E si trovano a fronteggiare lo stesso tipo di avversario di molte (ma non tutte) categorie in sciopero: datori e datrici di lavoro che hanno le risorse economiche per risolvere i loro problemi, ma che per ragioni ideologiche non sono intenzionati a concederle (le università britanniche hanno cumulato un surplus complessivo di 3.4 miliardi di sterline nell’ultimo anno; è notizia di pochi giorni fa che il fondo USS, a riprova di quanto sosteneva il sindacato nel 2018, ha un surplus di 5.6 miliardi di sterline).
A differenza di altri settori, l’università ha costruito la propria base sindacale nel tempo: con la lotta per le pensioni iniziata nelle università Russell Group; allargando a tutte le università del paese tramite la vertenza sulle four fights; mantenendo alto il livello della protesta alla vigilia della pandemia, e facendosi trovare pronta a riprenderla subito dopo. Ma è altamente possibile che, senza la svolta di questi mesi, la protesta sarebbe rimasta al punto in cui si era impantanata nella prima metà del 2022: un’eterna sequenza di scioperi incapace di smuovere la situazione. Al momento di scrivere questo articolo, l’University and College Employers Association (UCEA) ha deciso di tornare al tavolo negoziale per discutere della vertenza sulle four fights con UCU e UNISON (il sindacato del personale amministrativo), con un primo incontro avvenuto proprio il giorno della manifestazione di Londra. Qualcosa si muove anche sul fronte delle pensioni (una trattativa che non si è mai interrotta, ma che ora deve fare i conti con il successo delle proteste e i nuovi numeri sullo stato di salute del fondo). È troppo presto per dire se questi sviluppi si tradurranno in qualcosa di definitivo, ma non vi è dubbio che senza la strategia al rilancio del sindacato e senza l’esempio dei tanti settori in sciopero in questi giorni, il processo di neo-liberalizzazione dell’università britannica sarebbe continuato indisturbato.