Subito dopo l’invasione dell’Ucraina, la Transnational Social Strike Platform ha pubblicato una presa di posizione intitolata No alla guerra. Per una politica transnazionale di pace, che ha avuto un’ampia diffusione. La sua diffusione in Europa, da Est a Ovest, negli Stati Uniti e in America Latina ha portato alla creazione dell’Assemblea Permanente Contro la Guerra, uno spazio transnazionale di discussione e organizzazione non solo per opporsi alla guerra, ma per praticare una politica che si schieri dalla parte di chi è colpito dalla guerra in Ucraina, di chi si oppone alla guerra in Russia, e di tutti e tutte coloro che lottano per non essere uccise, sfruttate e oppresse e che subiranno le conseguenze della guerra sulle loro condizioni di vita e lavoro. Per sostenere e dare visibilità a questo processo di organizzazione e comunicazione, apriamo un dibattito a più voci su quali aspettative suscita la prospettiva di una politica transnazionale di pace, quali possono o devono essere i suoi contenuti, quali sono gli ostacoli alla sua realizzazione e i progetti di connessioni e azioni che la rendono possibile. Il risultato è una prima serie di interviste a studiosi e studiose, compagne e compagni che negli ultimi anni hanno contribuito al dibattito del movimento su temi, discorsi e pratiche che una politica di pace transnazionale non può ignorare. Pubblicheremo in questa serie le interviste a Jeremy Brecher (Stati Uniti), Ida Dominijanni (Italia), Cinzia Arruzza e Tithi Bhattacharya (Stati Uniti), Ranabir Samaddar (India).
Jeremy Brecher, storico e attivista americano, è stato attivo fin dagli anni ’70 nelle lotte e nei dibattiti del movimento contro la guerra, del movimento operaio e nelle mobilitazioni per la giustizia climatica. È stato uno dei primi a sottolineare la necessità politica di collegare le questioni ambientali e le lotte dei lavoratori. Importante in questo senso è la sua Climate Insurgency Trilogy (2017). Le sue pubblicazioni contro i crimini di guerra degli Stati Uniti (In the Name of Democracy: American War Crimes in Iraq and Beyond, 2005) e sulla globalizzazione dei movimenti sociali (Globalization from Below: The Power of Solidarity 2000 e Global Village or Global Pillage: Economic Reconstruction from the Bottom Up 2001) contengono preziose intuizioni per pensare – come afferma nell’intervista – all’emergente lotta transnazionale e alla politica transnazionale di pace contro gli Stati e i capitalisti, contro i loro confini, le gerarchie e le guerre.
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Con ‘politica transnazionale di pace’ ambiamo a qualcosa di più della solidarietà internazionale. Questa formula contiene un appello a costruire connessioni transnazionali attraverso cui, oltre a esprimere un ‘no alla guerra’, contestare gli effetti della guerra sulle condizioni di vita e di lavoro di milioni di uomini e donne, persone LGBTQIA+, lavoratori, poveri, migranti e non, anche oltre i confini di Russia e Ucraina. Pensi che questo appello sia realistico, o pensi che dovremmo dare priorità a trovare una posizione dentro la riconfigurazione del quadro geopolitico?
Le due cose che nominate non sono opposte, ma connesse tra loro. La ‘riconfigurazione del quadro geopolitico’ è un elemento importante, ma imprevedibile, fluido, stratificato e soprattutto molto difficile da influenzare. Non riguarda solo gli Stati, ma anche altre forze politiche inclusi i crescenti movimenti fascisti e razzisti.
Un diplomatico alla Conferenza di pace di Versailles del 1919 disse a un artista che gli stava facendo un ritratto «sai quello che stanno facendo vero? Stanno scegliendo da che parte stare nella II Guerra mondiale». Nonostante tutte le complessità, la ‘riconfigurazione del quadro geopolitico’ può equivalere a quel scegliere da che parte stare nella III Guerra mondiale.
D’altro canto, una politica transnazionale di pace ha bisogno di due risposte intrecciate: per prima cosa, deve descrivere la realtà e spingere le persone a rigettare le forze che si stanno riposizionando in vista della III Guerra mondiale, invece che identificarsi con esse. La realtà più evidente è quella dello scontro tra grandi potenze che trasforma in mere pedine piccoli Stati come l’Ucraina. Parafrasando Gramsci, sono messi nella posizione di giocare il gioco di qualcun altro, nonostante non possano fare a meno di tentare di giocare il proprio. In seconda battuta, c’è il fatto che le persone che vengono armate in questo scontro geopolitico – per lo più lavoratori, migranti, donne, poveri, minoranze razziali, etniche e di genere, nonché tutti gli altri oppressi e discriminati – non possono che tentare di proteggersi organizzandosi in autonomia su un piano transnazionale, alleandosi, avanzando rivendicazioni di fronte agli Stati e ai capitalisti e mettendo loro i bastoni tra le ruote per rendergli la vita più difficile possibile. Per tutte queste persone, la fine della guerra in Ucraina è di primaria importanza. Una mobilitazione transnazionale di questo tipo potrebbe sostenere il movimento per la pace non solo in Russia, ma anche in Europa e negli Stati Uniti. In sostanza, penso che l’auto-organizzazione e l’auto-difesa dal basso siano fondamentali per contenere la distruzione globale causata dalla ‘riconfigurazione del quadro geopolitico’. Difficile immaginare altri modi per influenzare quel quadro.
Gli Stati europei e gli Stati Uniti si stanno presentando come i campioni dell’internazionalismo democratico contro l’avanzata dell’autoritarismo di Putin. Ciò sembra mettere in secondo piano la violenza del regime europeo dei confini nonché gli effetti devastanti delle politiche neoliberali, visibili specialmente in Europa centrale e orientale. Invece che indicare un impegno all’allargamento dei diritti civili e sociali, l’appello dei governi occidentali ai valori democratici è strumentale all’inasprimento della logica bellica dei fronti contrapposti. Una politica transnazionale di pace non può esaurirsi nella pur necessaria richiesta di farla finita con le ostilità, o nell’appello alla democrazia. Come si può articolare un discorso che faccia i conti con queste contraddizioni dentro e oltre la guerra?
Il primo passo è quello di riconoscere che la guerra in Ucraina è parte di una partita globale per l’egemonia. Per gli Stati Uniti, ciò significa stabilire un’egemonia globale che rende tutto il mondo una propria ‘sfera d’influenza’. Significa applicare la dottrina Monroe a tutto il mondo. Per la Russia, d’altro canto, significa avere egemonia sulla sua tradizionale sfera d’influenza nell’Europa dell’Est, nonché giocare un ruolo di primo piano in Medio Oriente e in altre zone. Per la Cina, infine, significa aumentare il proprio potere economico con un livello relativamente basso di coinvolgimento diretto e rischio militare. (Non mi esprimo sul ruolo dell’Europa in questa ‘riconfigurazione’ perché preferisco sentire ciò che hanno da dire al riguardo persone ben più informate di me). All’interno di questa cornice, un discorso possibile è quello che identifica queste grandi potenze in lotta come ‘nemiche dell’umanità’ e di tutti i gruppi specifici di cui quest’umanità è composta. Di contro, chiunque lotti per limitare e farla finita con le loro politiche distruttive può essere visto come un amico, un alleato, un compagno.
Dall’Ucraina si sono sollevate delle voci critiche nei confronti della sinistra occidentale, la quale per anni ha ignorato ciò che stava accadendo in Est Europa e ora legge la situazione in corso nella cornice dell’anti-imperialismo/anti-americanismo o dell’europeismo democratico, applicando lenti che non sono più adatte al presente. Quali sono gli elementi che secondo te questa guerra ci impone di considerare, e quali invece i modelli che ci richiede di abbandonare?
Lasciatemi iniziare dalla situazione statunitense e dal contesto esterno alla sinistra. Una parte sostanziale della leadership nazionale americana e un settore della destra vede nella guerra in Ucraina un’opportunità di rafforzare l’egemonia globale americana. Fanno aperto riferimento al fatto che una guerra prolungata può essere uno strumento per indebolire la Russia e con essa il regime di Putin, e al contempo espandere l’economia, la presenza militare e politica statunitense in Est-Europa. Un altro settore della destra sostiene la politica autoritaria e razzista di Putin. La maggior parte delle persone comuni sono colpite dall’aggressione russa e dagli effetti devastanti che sta avendo sugli ucraini. La maggior parte della sinistra americana ha condannato l’invasione russa dell’Ucraina, facendo comunque riferimento alla continua attività provocatoria e aggressiva portata avanti dagli Stati Uniti e dalla Nato a partire dal 1989. Un settore minore della sinistra, quello che un tempo vedeva nell’Unione Sovietica l’avanguardia delle forze progressiste mondiali, si rifiuta di definire un’invasione l’atto russo e lo giustifica sulla base dell’espansionismo Nato, della presenza nazista in Ucraina e della necessità di contrapporsi all’imperialismo statunitense nonostante le tendenze evidentemente razziste, imperialiste e fasciste del regime di Putin.
Al polo opposto, un gran numero di appartenenti alla sinistra è rimasto talmente colpito dalla brutalità dell’attacco russo, ed è stato a tal punto ispirato dalla resistenza ucraina, da ignorare completamente il ruolo giocato dagli Stati Uniti e dalla Nato nel provocare la guerra e ora chiede di aumentare l’invio di armi a sostegno degli ucraini. Ciò implica anche un ritorno della retorica dell’‘eccezionalismo americano’, attraverso la quale è possibile adottare un doppio standard di valutazione: le atrocità della Russia e di altri stranieri sono condannate, mentre Mai Lai, Fallujah e 78 giorni di bombardamenti in Serbia vengono dimenticati,. Ciò che manca in tutti questi posizionamenti è un’analisi dell’ordine mondiale come un complesso interattivo, nonché dello Stato-nazione e dei sistemi delle superpotenze come composti da elementi contrastanti che si spingono a vicenda verso la reciproca distruzione. Durante la Guerra fredda, si fece pian piano strada l’idea che le opposte potenze nucleari fossero in realtà parte di un sistema fatto di interazioni reciproche che in qualsiasi momento avrebbe potuto perdere il proprio equilibrio e condurre il mondo all’Armageddon nucleare. La distensione e il parziale disarmo furono l’esito di tale riconoscimento. Anche oggi bisogno di una comprensione sistemica della crisi mondiale.
La guerra in Ucraina è una guerra patriarcale in quanto riafferma, attraverso le bombe, tutte le gerarchie che abbiamo contestato. Gli uomini sono costretti a essere soldati e a dimostrare combattendo quanto siano mascolini e patriottici. Le donne trans non possono lasciare l’Ucraina perché i soldati al confine le identificano come maschi. Le donne sono trattate come deboli e impotenti, come oggetto di protezione, mentre le centinaia di migliaia di migranti che lasciano l’Ucraina saranno impiegate come forza lavoro dequalificata nei settori essenziali o nel lavoro domestico. In che modo pensi che una politica transnazionale di pace possa sfidare le gerarchie patriarcali e sessuali che la guerra sta rafforzando?
Il danno arrecato dalla guerra alle donne, nonché l’esacerbazione del sessismo che si porta dietro, sono motivi sufficienti per reclamare un immediato cessate il fuoco. Sono ragioni sufficienti per reclamare negoziati seri e opporsi all’idea di una ‘guerra lunga’ per la ‘totale sconfitta di Putin e della Russia’. È molto probabile che le donne saranno al centro dell’emergente lotta transnazionale contro le guerre per l’egemonia globale che potranno ancora darsi in futuro. La nascita del movimento globale delle donne è stata essenziale per dare il via alla prima globalizzazione dei movimenti sociali avvenuta negli ultimi decenni del XX secolo. Le donne sono state in prima fila nei movimenti del XXI secolo negli Stati Uniti e in quasi tutto il mondo, inclusi il movimento per il clima, Black Lives Matter, il movimento per i diritti riproduttivi e delle persone LGBTQIA+. In Russia le donne sono state tra le prime a opporsi alla guerra in Ucraina. Il loro coinvolgimento ha certamente a che fare con la percezione di un legame che connette le donne al di là dei confini nazionali e di tutti gli ostacoli e le gerarchie.
Qualcuno ha sostenuto che questa guerra segna la fine della globalizzazione. Quali pensi saranno le trasformazioni di lungo periodo imposte da questa guerra, e rispetto alle quali la politica transnazionale di pace deve farsi trovare pronta?
È ancora presto per fare una valutazione dell’impatto della guerra in Ucraina. Gli allineamenti e le polarizzazioni di oggi costituiscono una tendenza, non una cosa definitiva. Ci sono ancora sorprese all’orizzonte. La globalizzazione è costitutivamente instabile. Come ho scritto nel 2002 in Globalization From Below, ciò che sarà potrebbe assumere la forma “di una guerra di tutti contro tutti, di un’egemonia mondiale di una sola potenza, di un’alleanza tirannica delle élites, di una catastrofe ecologica globale, o una combinazione di alcune di queste cose”. La guerra in Ucraina dimostra quanto sia interconnessa, oggi, l’economia globale e quale frattura possa prodursi al suo interno quando pezzi di quell’economia – la finanza, il settore alimentare, quello energetico, logistico, sanitario – vengono anche solo parzialmente de-globalizzati. Assisteremo a un ritorno in auge della retorica del nazionalismo economico – con il potere dello Stato utilizzato per favorire un attore economico o un altro – ma ciò non implicherà un ritorno delle economie nazionali autonome e perfettamente integrate. È molto più probabile uno scenario dominato da uno scontro economico. In questa lotta, diverse nazioni e attori economici tenteranno di favorire un allineamento di segmenti della popolazione dietro i loro interessi e contro quelli di altri. Per contrastare questo scenario è fondamentale la creazione di una visione transnazionale dei veri interessi delle persone comuni.
La politica transnazionale di pace deve muoversi sul breve periodo, dentro l’urgenza prodotta dalla guerra, ma deve anche essere capace di darsi una prospettiva autonoma e di lungo periodo. Come pensi si possano combinare queste due dimensioni?
Il punto di partenza di qualsiasi sforzo, sia di lungo che di breve periodo, deve essere gettare luce sul percorso distruttivo in cui ci stanno conducendo gli Stati, i capitalisti e le élites nazionali e transnazionali. Ciò include la follia dell’invasione russa dell’Ucraina. E include anche la follia dell’Occidente, che ostacola i negoziati in nome di una ‘guerra lunga’ nonostante gli appelli del governo ucraino a raggiungere un accordo. Ancora, include l’espansione degli arsenali nucleari e la crescente intenzione di ricorrere alla minaccia nucleare. Include, infine, l’incombente minaccia dell’apocalissi climatica verso cui loro ci stanno conducendo. La nascita di una ‘politica transnazionale di pace’ è uno dei pochi barlumi di speranza a cui possiamo affidarci in questi tempi bui. In quanto è transnazionale, la sua posizione non dipende solo dall’identificazione di questo o quel leader nazionale come il problema, ma dalla presa in considerazione dell’ordine mondiale e dei sistemi (lo Stato-nazione, il mercato, le multinazionali, il fossile…) che lo compongono. Allo stesso tempo, una politica transnazionale di pace permette di prendere posizione a sostegno della resistenza contro la violenza che la guerra esercita sulla popolazione ucraina e sulle persone in tutto il mondo.