La marea femminista si è mostrata per anni con la forza di uno sciopero transnazionale. Poi c’è stato il tempo della pandemia, rallentato ma carico di cambiamenti rapidissimi. Pochi giorni fa, una folle guerra è scoppiata in Ucraina, ferendo ulteriormente la possibilità di costruire legami transnazionali. Noi però non possiamo tacere in questo tempo insopportabile, noi non possiamo rinunciare a costruire il prossimo 8 marzo come sollevazione contro la violenza maschile. È vero. Quest’anno non c’è l’insubordinazione delle lavoratrici essenziali che in ogni parte del mondo hanno tenuto vivo il processo dello sciopero durante la pandemia. È altrettanto vero che sul piano transnazionale l’avvicinamento all’8 marzo è stato segnato dalle difficoltà. In Italia a luglio e novembre ci sono state grandissime manifestazioni di donne e persone Lgbtq+ contro la violenza patriarcale, in connessione tra loro e con le lotte in Turchia e nell’Est europeo. La nostra rabbia e la nostra pretesa di libertà non sono sopite, ma i fili di quelle connessioni si sono allentati sotto il peso di trasformazioni materiali pesanti e accelerate, che hanno inciso sulle capacità di mobilitazione, sulle scelte politiche e sui processi organizzativi. Dobbiamo essere però consapevoli che il movimento femminista transnazionale ha aperto una frattura nella società neoliberale che non può essere chiusa o neutralizzata. Ha fatto della lotta contro la violenza maschile e le sue gerarchie una questione inaggirabile, che infatti è entrata a far parte delle agende governative della ricostruzione post-pandemica sotto il segno della «parità di genere». La parità di genere dell’Unione europea, però, non offre soluzioni, ma dà nuove forme ai problemi con cui milioni di donne e persone Lgbtq+, migranti e precarie si sono confrontate in passato e dovranno continuare a confrontarsi. In questo quadro mutato, il prossimo 8 marzo è alle porte e la parola d’ordine dello sciopero femminista e transfemminista circola ancora in diverse parti del mondo. Niente oggi è più importante della possibilità di manifestare la nostra forza collettiva necessaria per rompere l’isolamento esasperato dalla pandemia, per combattere il senso di impotenza di fronte ai mutamenti che stanno travolgendo le nostre vite, per opporre un no senza condizioni alla violenza della guerra, che non può nascondere il suo carattere maschile. Non possiamo rinunciare a sostenere ostinatamente quel progetto di organizzazione e liberazione che è lo sciopero femminista.
Lo sciopero femminista fa la differenza perché ha trasformato la lotta contro la violenza patriarcale nella leva per interrompere la produzione e la riproduzione sociale. Non ha inseguito o determinato improbabili ricomposizioni tra soggetti diversi o coalizioni tra segmenti di movimento, ma ha tracciato una linea di schieramento. Ha dimostrato che la violenza patriarcale è una pratica sociale di subordinazione che dà il segno all’intera società, che parte dalle case, entra in ogni luogo di lavoro, impregna leggi e istituzioni. Ha reso la violenza maschile un fatto pubblico e politico e non più privato. Ha restituito allo sciopero la forza di un processo espansivo di politicizzazione e sottraendolo finalmente al monopolio sindacale, che lo aveva ridotto e continua a trattarlo come uno strumento da usare occasionalmente per rivendicare posti a sedere ai tavoli di governo oppure per contestare ritualmente il governo di turno. Lo sciopero femminista è qualcosa di diverso dallo sciopero generale che mira a unificare tutte le categorie del lavoro, perché mostra che ogni categoria è attraversata dalle condizioni di sfruttamento e di subordinazione imposte dalla violenza maschile, e che prendere posizione contro di essa non è soltanto un affare delle donne o delle persone Lgbtq+ che la subiscono. La condizione delle donne e delle persone Lgbtq+ non può essere generalizzata, perché le posizioni in cui ci troviamo rispetto alla violenza maschile stabiliscono una divergenza fondamentale tra chi la pratica e la riproduce e chi non vuole più subirla e la combatte. Questa è la linea di schieramento che chiama tutte e tutti a prendere posizione contro un ordine sociale globale che si regge sulla violenza maschile per legittimare ogni gerarchia e per intensificare lo sfruttamento. Come ha dichiarato Non Una di Meno lanciando il prossimo 8 Marzo, lo sciopero femminista e transfemminista è per tutt*. Non siamo uguali di fronte alla violenza maschile, ma possiamo trasformare questa divergenza in un antagonismo che, proprio perché attraversa ogni condizione di vita e di lavoro, impone di ripensare alla radice la forma e i contenuti della nostra rivolta contro le condizioni che rischiano costantemente di ridurre al silenzio le donne e le persone Lgbtq+.
Lo sciopero femminista e transfemminista del prossimo 8 marzo sarà per noi uno sciopero contro la guerra. L’aggressione russa dell’Ucraina è il punto di massima intensità della violenza maschile che combattiamo. Le donne e le persone Lgbtq+ sanno meglio di chiunque altro che c’è una differenza abissale tra l’aggressore e l’aggredita. Non sono solo i fronti politici a stabilire le posizioni dentro alla guerra. Dentro alla guerra non siamo tutt* uguali. Nella guerra in Ucraina c’è anche un fronte sul quale si scontrano da una parte l’autoritarismo, il neoliberalismo, il militarismo, il razzismo, il culto dello Stato, e dall’altra centinaia di migliaia di donne, persone Lgbtq+, uomini che non hanno nessun passaporto di lusso che li protegga e non hanno nessuna intenzione di essere ammazzati sotto le bombe, di essere stuprate diventando simboli della potenza dell’aggressore, di perdere ogni briciola del loro futuro in un campo profughi circondato da confini e che apre le porte dello sfruttamento razzista in qualche angolo d’Europa. La guerra in Ucraina continua già in decine di migliaia di case europee in cui una donna garantisce una quota ancora maggiore di riproduzione sociale per far fronte all’aumento dei prezzi o per garantirsi il rinnovo del permesso di soggiorno. I salari sosterranno il costo di una guerra, mentre stanno già sostenendo quello della ripresa post-pandemica. Questa grande divergenza tra la guerra e la nostra pretesa di una pace senza quiete segna il fronte fondamentale su cui tutt* siamo chiamat* a schierarci il prossimo 8 marzo e lo sciopero femminista e transfemminista è il modo per farlo in modo non pacificato e non rituale.
La guerra non è solo lo scontro tra nazionalismi fanatici e democrazia, la sua posta in gioco non è il sogno delle anime belle di trasformare l’Europa in una potenza autonoma capace di opporsi simultaneamente a Putin e alla NATO. La guerra coincide con una ricostruzione che cerca di imporre nuovi regimi di sfruttamento e riproduzione sociale come un processo inevitabile. Non ci troviamo più sotto il regime dell’austerity e il neoliberalismo sta applicando il proprio programma politico con tutta la forza del denaro dei piani di ripresa. «Parità di genere» è il nome che l’Europa ha scelto per una strategia trasversale che, come tale, costituisce l’infrastruttura ideologica e materiale che sosterrà i due pilastri dell’innovazione digitale e della transizione ecologica. Le strategie nazionali sono molto diverse tra loro ma nessuna mette in questione la divisione sessuale del lavoro. Piuttosto, la riorganizzano in funzione di un nuovo regime transnazionale di accumulazione, combinando lavoro domestico gratuito e salariato, sfruttamento del lavoro migrante e svalorizzazione del lavoro essenziale, rafforzamento della famiglia come unico canale di accesso al welfare, finanziarizzazione dei servizi e debito individuale, valorizzazione e repressione della libertà sessuale. Tutto questo non può essere combattuto su un piano soltanto nazionale, perché la ricostruzione si gioca proprio su movimenti senza precedenti di denaro, merci, donne e uomini attraverso i confini e perché l’Europa si sta riorganizzando istituzionalmente attraverso l’amministrazione transnazionale dei fondi di recupero. Riaffermare la necessità dello sciopero femminista significa per noi rifiutare di soccombere sotto il peso delle gerarchie imposte dalla ricostruzione. Significa che la battaglia contro la violenza patriarcale può essere la divergenza che produce una connessione politica attraverso i confini tra coloro che rifiutano una ricostruzione che si alimenta di oppressione, sfruttamento e guerra. Lo sciopero femminista e transfemminista dell’8 marzo è per noi il momento in cui rilanciare la comunicazione politica transnazionale da cui possiamo trarre la forza per contrastare la ricostruzione pianificata dall’UE sulla pelle di donne, operaie, precari, migranti.
Tanto nella guerra quanto nei nostri processi organizzativi solo a partire dalla lotta contro la violenza maschile è possibile costruire un’opposizione credibile alla transizione post-pandemica. Non può essere “salvato il lavoro” sulla pelle delle donne licenziate, non deve essere la svalutazione del lavoro essenziale il sostegno nascosto della conversione ecologica, non è ammissibile che la libertà sessuale sia schiacciata per garantire la tenuta della divisione sessuale del lavoro e le gerarchie di genere istituzionalizzate nella famiglia, né deve essere il razzismo a contenere i costi della produzione e riproduzione sociale. Bisogna scommettere sullo sciopero femminista e transfemminista nonostante le difficoltà della sua organizzazione, che si sono moltiplicate a causa della pandemia, della povertà, dell’isolamento che ha prodotto, ma che non hanno cancellato il rifiuto individuale e collettivo della violenza patriarcale. Dare una direzione a quel rifiuto è un progetto per il quale lottare. L’8 marzo può scatenare una ribellione contro la guerra e una politica transnazionale di pace a partire dal rifiuto della violenza patriarcale. L’8 marzo non sarà, come in passato, il punto di arrivo e precipitazione di una miriade di insorgenze ininterrotte, ma per noi è la riapertura di un processo, l’occasione di alimentare con forza la possibilità dell’iniziativa e dell’organizzazione collettive e transnazionali che sono necessarie a contrastare le condizioni patriarcali e razziste della ricostruzione neoliberale. È il momento in cui sarà possibile mostrare in ogni piazza che la parola sciopero è il nome in movimento di una pretesa di libertà che non vuole essere domata.