venerdì , 22 Novembre 2024

L’astratta concretezza di Julie Mehretu

di FRANCESCA DELLA SANTA

Cairo (2013), inchiostro e acrilico su tela, 304.8 x 731.52 cm

Nelle opere di Julie Mehretu rimbomba il conflitto fra lo spazio e il tempo, aggrovigliati e indistinguibili, in una relazione pesante che l’artista racconta all’interno di un paesaggio urbano che espande nella complessità in movimento e in lotta con sé stesso. Le sue opere tuonano nel suono delle linee che si interrompono, che si incrociano, che sfuggono allo sguardo. Una linea prospettica spostata dal centro ci sbilancia nell’urto della folla; nauseati dall’odore di pneumatici bruciati, d’asfalto, dalla nube di smog rimaniamo disturbati e allo stesso tempo affascinati da opere il cui senso immediato ci sfugge, ma che colpiscono come qualcosa di noto.

Non esiste alcun paesaggio che sia semplice paesaggio. Il paesaggio è politico, sempre

Algorithms, Apparitions and Translations (2013) serie di cinque acqueforti con acquatinta, punta secca e incisione, 79.2 x 94.7 cm

Nera, nata ad Addis Abeba, scappata dall’Etiopia nel 1977 durante la guerra civile, il suo paesaggio politico Mehretu lo rappresenta nella metropoli, soprattutto americane, soprattutto New York, dove vive e lavora. Il tratto geometrico, a matita, a penna, il colore ben steso. Eppure, mai la geometria è stata meno ordinata, meno rassicurante. Quello che le orecchie sentono è il caos, mentre gli occhi vengono invasi dagli stimoli di immagini che si affollano e si accalcano l’una sull’altra, come in un velocissimo video, in continui contropiani (Cairo, 2013).

Il suo lavoro è la moltitudine che si impone sull’ordine dell’architettura: sui rendering, da cui spesso parte, si crea e si affolla la vita fremente, il conflitto politico, il movimento delle merci e degli uomini e delle donne (Algorithms, Apparitions and Translations, 2013). Nelle linee vettoriali improvvisamente troncate si individua la dichiarazione di un ordine instabile ma che continua a ricalibrarsi, lo spazio si tende e si distrugge senza sciogliersi mai.

Loop (B. Lozano, Bolsonaro eve) (2019–2020), inchiostro e acrilico su tela, 243,8 x 304,8 cm

Mehretu parte da fotografie e quadri, da planimetrie e mappe, ma il suo racconto si concentra su tutto ciò che non è rappresentabile, sono le paure e l’instabilità di campi di migranti, la rabbia che esplode durante i riots dell’estate del 2019 per le strade di Minneapolis, lo sconforto davanti all’elezione di Bolsonaro (Loop [B. Lozano Bolsonaro eve], 2019-2020). È un lavoro ragionato, intelligente, che mentre rappresenta racconta una realtà nella sua incompiutezza, nella sua povertà e nella sua prepotente ricchezza. Usando come base i dipinti della Hudson River School, scuola di pittori paesaggisti americani di rara bruttezza, Mehretu affronta la storia statunitense, il passato coloniale e il presente razzista (HOWL, eon I, II, 2016-2017). Il paesaggio è politico e racconta la sua storia, ma il presente spinge e sgomita e si conquista il suo spazio in una narrazione non lineare.

HOWL, eon (I, II) (2016-2017), inchiostro e acrilico su tela, 823× 975,36 cm

Si accumulano sulle tele e nei dipinti stili e texture che accompagnano una frenesia crescente. Il tempo si contorce, frammentato, eppure incombente. Interpretando al meglio l’astrattismo, recuperando la forza di linee nella produzione del movimento, Mehretu ci porta con le sue opere davanti all’immensità del globale, mantenendo ferma nel suo racconto la lucidità della contingenza e del presente. La sua arte dichiara uno spazio che continua a negoziarsi, privato di una forma definita, che si sottrae a una possibile lettura univoca, non permette rassicurazione, ma quel continuo movimento appare come attraversato da una sonorità quasi musicale (Retopistics: A Renegade Excavation, 2001).

Retopistics: A Renegade Excavation (2001), inchiostro e acrilico su tela, 257.8 × 529.6 × 5.1 cm

Mehretu fotografa metropoli urbane che si arrampicano verso l’alto, che fagocitano l’orizzonte afferrando lo spazio disponibile. Ma se la fotografia fissa un momento specifico, Mehretu si scontra con quel che esiste cercando quel che succede appena più in là. La sua arte non ha alcun valore di testimonianza, perché interpreta, legge i fenomeni e le trasformazioni e facendolo prende una sua posizione. L’arte non può mai essere pensata come qualcosa di etereo e puro, è problematica, complessa e complicata, perché è dentro alla realtà, la sua astrazione non è praticabile se non come atto di ingenuità. Nel 2021 la rivista «Art review» ha inserito al primo posto nella classifica dei Power 100 il movimento Blacks Lives Matter, mentre al quarto il movimento del #Metoo. Nel sito di Freize, «Art fair London», nel 2020 è stata prevista una sezione specifica LGBTQ. Così Mehretu, nera, donna, lesbica e migrante, è da poco entrata a far parte del Consiglio d’amministrazione del Whitney Museum[1] e le sue opere vengono commissionate da colossi come la Goldman Sachs. Rimane aperto quel campo di tensione, che lei stessa raffigura, come ordine instabile che continuamente tende da una parte e da un’altra, che continuamente si cerca di arginare, addomesticare, irrigidire. La linea, però, corre, s’interrompe ed esplode e il tempo e lo spazio rimangono in gioco.

 

[1] Il museo ha dovuto riorganizzare il proprio board a seguito dello scandalo che ha coinvolto, nel 2019, il suo ex vicedirettore, Warren B. Kanders, per la vendita di gas lacrimogeni della sua azienda. Mehretu è la terza artista ad entrare a far parte del board del museo, dopo Chuck Close, morto da poco, e Fred Wilson. Il museo, come molte istituzioni culturali statunitensi, sta ricostruendo la propria immagine.

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