Pubblichiamo un’intervista ad Alessandro Fishman Rotmensz, attivista a Gerusalemme e tra i firmatari del comunicato Not in Our Name, con il quale giovani ebrei ed ebree italiane hanno condannato pubblicamente le politiche di apartheid e razziste del governo israeliano, i bombardamenti su Gaza e il tentativo di legittimarli nel nome di tutti gli ebrei del mondo. L’intervista mostra che Not in Our Name, pur essendo una novità nel panorama italiano, si colloca in continuità con le azioni di altri collettivi e movimenti che, negli Stati Uniti, in Europa e in Israele lottano da anni contro le politiche di occupazione e di colonizzazione dei governi israeliani e contro ogni espressione di razzismo istituzionale. Tra questi ci sono Union Juive Française pour la Paix, che ha partecipato alla costruzione del Primo Maggio dei e delle migranti del Transnational Migrant Coordination, e vari gruppi di ebrei e palestinesi che in Israele lottano contro il conservatorismo e il razzismo che prendono sempre più piede nella società e nella politica israeliane. Negli ultimi mesi questi movimenti hanno portato in piazza palestinesi, israeliani, collettivi di israeliani e palestinesi che si sono uniti nelle proteste contro gli sfratti di Sheikh Jarrah. È in questo contesto che vanno inquadrate le vicende di Gerusalemme che hanno portato all’escalation di violenza degli ultimi giorni e all’attacco israeliano alla popolazione palestinese.
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Come è nata l’iniziativa Not in our name che sta avendo un’ampia diffusione in questi giorni?
Siamo un gruppo molto eterogeneo che comprende giovani ebrei ed ebree che partecipano a collettivi e movimenti sociali differenti, e che hanno rapporti con le istituzioni ebraiche e con Israele molto diversi tra loro. Abbiamo iniziato a confrontarci quest’estate contro il piano di annessione della Cisgiordania e lo abbiamo criticato pubblicamente con una lettera. Ci siamo resi conto in quell’occasione che c’è un’urgenza da parte di molti ebrei di prendere una posizione chiara contro le politiche del governo israeliano e di contestare e rifiutare un nesso automatico tra ebraismo e politiche del governo, che troppo spesso emerge nel dibattito sul conflitto israeliano palestinese. Not in Our Name risponde a questa esigenza. Anche questa volta, come nel 2014, la retorica che ha accompagnato le violenze e la guerra è stata quella della difesa del popolo ebraico nel suo insieme. In questi giorni poi abbiamo visto le immagini di manifestazioni, come quella di Roma, in cui esponenti dell’ebraismo italiano sono scesi in piazza insieme a personaggi della destra italiana come Salvini. Anche rispetto a queste vicende sentiamo di dover dire «non è in nostro nome»: rifiutiamo e condanniamo le politiche razziste di Salvini e non possiamo rimanere silenzio di fronte alla complicità di esponenti dell’ebraismo italiano con tali figure. Quando abbiamo scritto il comunicato non ci aspettavamo una tale circolazione. Abbiamo ricevuto sostegno e supporto da diverse realtà ebraiche e non solo, da parte di persone che vorrebbero unirsi a noi. In realtà Not in Our Name è uno slogan che prima di noi è stato utilizzato da attivisti in Israele e da ebrei nel mondo. Insomma, si tratta di una presa di posizione molto vicina ad altre che ci sono state in Europa, negli Stati Uniti, ma anche in Israele e Palestina da parte di movimenti sociali locali che lottano contro il governo israeliano e l’occupazione.
Puoi parlarci di questi gruppi? Siete in contatto con altre realtà?
Il nostro comunicato ha dato il via ad altre azioni, ci hanno contattati attivisti dalla Svizzera dove si sta organizzando una mobilitazione dello stesso tipo. Un gruppo che sentiamo molto vicino a noi e con il quale abbiamo avuto un confronto nei mesi passati è il collettivo inglese Naamod. In Francia esiste l’Union Juive Française pour la Paix, che si impegna nella lotta contro il razzismo in Francia e ha promosso diverse azioni contro il governo israeliano e la politica di occupazione. O ancora Juives et Juifs Révolutionnaires, che in questi giorni sono usciti con un comunicato molto simile a quello italiano. Sono tutte realtà alle quali guardiamo e con cui ci interessa connetterci. Chiaramente anche qui in Israele e in Palestina ci sono gruppi di attivisti che si mobilitano contro il governo israeliano e la politica di occupazione, e questo è il dato che più spesso non viene preso in considerazione fuori dalla regione. Tra questi gruppi c’è Standing together che è stato sempre in prima linea nelle proteste di Sheikh Jarrah. Si tratta di un gruppo fondato da un ex parlamentare di Hadash, il partito comunista arabo-ebraico. C’è poi All that’s left, nato dieci anni fa e che fa azioni a Jaffa, Sussiya, Hebron. Tayoush si mobilita invece in Cisgiordania documentando gli attacchi dell’esercito e dei coloni da vent’anni. A Gerusalemme, che è una città divisa piena di conflitti, c’è Imbala che è uno spazio anti-occupazione trans-femminista e anti-apartheid che è un luogo unico in città. Tutti questi gruppi non hanno vita facile, in Israele così come altrove, vengono spesso attaccati e tra le accuse più frequenti c’è quella di tradimento. Per questo lo slogan Not in Our Name non va inteso solo come una denuncia e una presa di distanza formale, ma come una presa di posizione attraverso la quale mettere in connessione queste esperienze che esistono in Israele, in Palestina e nel mondo.
Questi gruppi di cui ci hai parlato hanno partecipato alle proteste delle ultime settimane a Sheikh Jarrah? Puoi raccontarci gli sviluppi recenti che hanno condotto all’escalation di violenza di questi giorni?
Free Jerusalem, Standing together e molti altri di questi gruppi si sono mobilitati negli ultimi mesi contro gli sfratti di Sheikh Jarrah, non solo a Gerusalemme ma anche in altri centri dove la situazione è molto simile. Sheikh Jarrah è l’ultimo episodio di una lunga serie di sfratti e di occupazioni che avvengono sistematicamente in molti centri palestinesi, e proprio per questo è diventato il simbolo di una lotta molto più estesa. Una serie di lotte prima molto frammentate, divise tra diversi centri e duramente colpite dalla repressione israeliana, sono riuscite a unirsi proprio contro gli sfratti delle ultime settimane. A gennaio, ad esempio, la maggior parte delle proteste contro l’espansione dei coloni erano concentrate al Sud di Hebron, a Rakeez, dove il primo di gennaio una soldatessa dell’esercito israeliano ha sparato a un ventiquattrenne palestinese durante una requisizione di un generatore elettrico, paralizzandolo. In quell’occasione centinaia di persone tra israeliani e palestinesi erano scese in piazza nel sud di Hebron in una manifestazione duramente repressa dall’esercito, con incarcerazione degli organizzatori e continue ritorsioni contro gli abitanti di Rakeez. Dopo gli attacchi si è deciso di convergere su Sheikh Jarrah, anche perché si avvicinava il 2 maggio, il giorno in cui la Corte Suprema israeliana si sarebbe espressa in merito agli sfratti, che coinvolgono circa 70 persone. Le proteste sono andate avanti anche durante la pandemia e sono diventate sempre più partecipate. In piazza sono scesi gruppi di palestinesi, israeliani solidali, collettivi di israeliani e palestinesi come Free Jerusalem e Standing together. Ha partecipato spesso anche Ofer Cassif, parlamentare che fa parte del partito comunista composto da arabi e israeliani, uno dei pochi che all’interno della Knesset (parlamento israeliano) parla di Apartheid in Israele. Ciò che è sorprendente è che più è cresciuta la repressione di queste proteste, più è aumentata la partecipazione alle mobilitazioni. Sheikh Jarrah è diventato nel giro di qualche mese il simbolo delle ingiustizie che vive il popolo palestinese.
Cosa è successo a Sheikh Jarrah negli ultimi mesi?
In effetti è un caso molto particolare, che tira in ballo il problema delle absentee property law. Dalla fine dell’Ottocento fino al 1948 a Sheikh Jarrah vivevano ebrei. Con l’inizio della guerra e delle tensioni a Gerusalemme e in tutta la Palestina, gli ebrei furono costretti a fuggire, così come i palestinesi di Ramle, Haifa, Bet Shemesh. Molti di questi rifugiati palestinesi andarono a Sheikh Jarrah e ci sono rimasti. In virtù delle absentee property law, che permettono gli sfratti sulla base di contratti precedenti al 1948, la Corte Suprema israeliana ha attribuito alle famiglie ebraiche le case di Sheikh Jarrah. Queste leggi tutelano una parte della popolazione sulla base della religione e ne discriminano un’altra sulla base del medesimo principio. Dopo una manifestazione il 9 aprile sono cresciute le tensioni, soprattutto a Gerusalemme, fino a quando il comune di Gerusalemme ha deciso di mettere delle grate alla porta di Damasco per impedire l’accesso. Formalmente si tratta di misure anticovid, prese per evitare che le persone si siedano e creino assembramenti, ma questo ha prodotto agitazione in città, visto che proprio negli stessi giorni iniziavano le riaperture delle discoteche in tutto il paese… La porta di Damasco infatti è un luogo di ritrovo fondamentale per i palestinesi e la decisione è stata presa alla vigilia del Ramadan, momento in cui la porta di Damasco è il centro delle celebrazioni e dei festeggiamenti durante le serate. La situazione è peggiorata quando il 22 aprile un gruppo di estrema destra ebraico, Leahava, ha sfilato provocatoriamente per la città, con l’obiettivo di arrivare alla Porta di Damasco. Dopo la manifestazione di Leahava sono state tolte le grate alla porta di Damasco per provare a calmare gli animi, ma le proteste in realtà sono aumentate. Si è trattato anche di una risposta all’avanzata della destra estrema israeliana, che diventa sempre più protagonista nella politica e nella società israeliana, spalleggiata dalle forze politiche e istituzionali. A Sheikh Jarrah hanno iniziato a svolgersi tutte le sere alla fine del Ramadan delle manifestazioni e si sono diffuse delle proteste di solidarietà in molte parti della Palestina, in Giordania, ad Amman e Gaza, e in Israele. Ad Al-aqsa, dopo le preghiere, i fedeli musulmani hanno iniziato a rimanere sulla Spianata per protestare e le forze armate israeliane sono entrate per due giorni. Durante la festa del «giorno di Gerusalemme», in cui ogni anno si tiene una manifestazione della destra israeliana per Gerusalemme come capitale unica di Israele, l’estrema destra è tornata all’attacco. Il ministero degli interni aveva vietato ai manifestanti di passare per la porta di Damasco, e gli organizzatori avevano deciso di «annullare» la parata sostenendo di non voler sfilare se non in tutta la città, in una Gerusalemme «unita». Molti manifestanti però erano già in strada e due leader della destra sono andati a Sheikh Jarrah. Lo stesso giorno Hamas ha minacciato di colpire Israele se non avesse ritirato la polizia dalla Spianata delle Moschee e da Sheikh Jarrah, e alle 18 sono partiti i missili verso Gerusalemme e molte altre città israeliane. Di fronte all’escalation di violenza, agli sgomberi forzati e ai bombardamenti di Gaza che sono seguiti, abbiamo sentito di dover prendere parola per chiarire che queste politiche non sono portate avanti in nostro nome, e che non condividiamo l’appoggio incondizionato che le comunità ebraiche nel mondo riservano al governo israeliano, in modo del tutto parziale e acritico. Credo che la nostra presa di posizione, oltre a creare connessione ed esprimere solidarietà con chi in Israele e Palestina lotta ogni giorno contro le politiche del governo e l’occupazione, sia utile anche a fare piazza pulita di alcuni luoghi comuni sulle posizioni di palestinesi ed ebrei dentro il conflitto, che in Italia circolano molto spesso anche nelle aree di movimento e nelle piazze di solidarietà alla Palestina. Spesso, ad esempio, lo sguardo esterno sulla vicenda e la tendenza a semplificare secondo schemi ormai vecchi portano a trascurare che anche quella palestinese è una società complessa. Hamas, che si presenta come partito politico, è a tutti gli effetti un’organizzazione terroristica che non si può considerare espressione di auto-organizzazione e di libertà per il popolo palestinese. Non a caso ha iniziato gli attacchi non tanto per la questione di Sheikh Jarrah, quella che stava unendo la popolazione palestinese contro le politiche del governo, ma per l’ingresso delle forze armate sulla Spianata delle Moschee. Questo dimostra che Hamas punta a una liberazione islamica della Palestina, e non della popolazione palestinese. Sono due cose molto diverse. Questo spiega anche perché il dittatore turco Erdogan non ha perso occasione per esprimere subito il suo supporto ad Hamas, che finanzia insieme alla Siria di Assad e all’Iran, e a condannare gli attacchi di Israele come se si trattasse di una guerra di religione. Come dice Mohammed Al-Kurd, abitante e militante di Sheikh Jarrah, la questione palestinese è legata alla terra, non alla religione; la liberazione della Palestina è la liberazione della popolazione palestinese cristiana, musulmana, drusa. La destra che, ormai da troppo tempo, governa in Israele ha inasprito il conflitto e acuito delle spaccature che erano già molto forti tra israeliani e palestinesi. Oggi la società israeliana è sempre più a destra e proprio per questo è necessario allargare lo spazio di solidarietà alla causa palestinese perché solo da una salda opposizione tanto di ebrei quanto di palestinesi alle politiche di occupazione e da un sostegno internazionale è possibile pensare che si apra una stagione diversa.
Puoi dirci qualcosa sullo sciopero che è stato chiamato il 18 maggio?
Io credo che politicamente lo sciopero sia un’arma fondamentale in questo contesto, se i palestinesi si fermano il paese si blocca letteralmente. I numeri sono stati molto alti e ci sono state delle importanti manifestazioni che sono un ottimo segnale contro il governo dopo le violenze degli ultimi giorni. Poi c’è una novità importante da segnalare, cioè che questo sciopero ha unito i palestinesi con cittadinanza israeliana, quelli della West Bank e di Gaza. È un’unità per niente scontata, perché la separazione geografica e di interessi dei palestinesi ha spesso reso difficile azioni di questo tipo. Lo sciopero del 18 maggio sembra aver smentito questa tendenza degli ultimi anni, e infatti la partecipazione ha raggiunto livelli inediti. Nella situazione attuale, con i bombardamenti su Gaza, l’occupazione in West Bank, gli sfratti di Sheikh Jarrah, le discriminazioni che subiscono i palestinesi in Israele e la totale mancanza di protezione dello Stato dalle aggressioni dei coloni ebrei, sembra che i diversi fronti si siano ritrovati in questa sollevazione generale e nello sciopero. È stato uno sciopero di portata storica proprio perché è riuscito a unire luoghi diversi e situazioni frammentate dal punto di vista geografico, giuridico e sociale, mostrando che il popolo palestinese combatte la stessa lotta.