Da anni in Turchia la mobilitazione dell’8 marzo si muove per le strade di Istanbul al grido «Tayyip scappa scappa scappa, arrivano le donne». Da anni Tayyip Erdogan risponde a questo grido con la repressione, ma quest’anno ha cambiato tattica. La polizia non ha colpito il corteo dell’8 marzo, ma nella notte decine di donne sono state arrestate. E sempre di notte, con un decreto esecutivo, il 20 marzo Erdogan ha ritirato l’adesione della Turchia alla Convenzione di Istanbul. Erdogan ha paura delle donne che a migliaia hanno riempito le strade per contestare l’autoritarismo patriarcale del suo governo. Ritirarsi dalla Convenzione vuol dire dichiarare tolleranza zero verso chi osa sfidare le autorità politiche e sociali affermando una pretesa collettiva di libertà. La violenza è il baluardo che tiene insieme la fortezza di una famiglia la cui intangibilità deve essere garantita con ogni mezzo come una necessità sociale. E questo non vale soltanto ai bordi della «civiltà europea»: siamo di fronte innumerevoli atti di famiglia che in forme diverse e con differenti intensità stanno segnando la direzione della ricostruzione e dello spazio transnazionale dell’Europa. Dobbiamo contrastare quegli atti con ogni mezzo, attivando e consolidando processi di organizzazione transnazionali capaci di affermare la libertà delle donne e delle persone lgbtq+ contro la riproduzione di una società oppressiva.
La Convenzione di Istanbul non è e non può essere la soluzione definitiva al fatto sociale della violenza maschile. Essa, tuttavia, stabilisce un limite che non è soltanto giuridico, ma simbolico e politico. Lo ha capito Zeynel Korkmaz, un uomo turco che dopo avere accoltellato la moglie davanti ai figli ha candidamente sostenuto in un post su Facebook che la Convenzione «lega le mani agli uomini e li lascia disperati». Erdogan non vuole che gli uomini abbiano le mani legate. Con il ritiro dalla Convenzione, egli legittima la violenza come pratica sempre ammissibile per rinsaldare le fratture politiche che minacciano il suo trionfo alle prossime elezioni di maggio attraverso la difesa di un ordine sociale di cui la famiglia deve essere il pilastro. Non a caso il ritiro dalla Convenzione avviene simultaneamente al tentativo di escludere dal parlamento l’HDP, il partito democratico del popolo, che da sempre sostiene la battaglia femminista e quella delle donne e degli uomini curdi. Mentre il paese si trova sull’orlo di un tracollo economico, il governo insegue il sostegno delle forze islamiste affermando che l’aumento dei femminicidi è una menzogna e che in tutti i casi la soluzione non va cercata all’estero, ma nelle tradizioni e nei costumi nazionali. La famiglia va quindi difesa come garanzia di stabilità sociale, e per questo Erdogan rifiuta una Convenzione che denuncia la violenza domestica, che considera il genere come una costruzione sociale, che secondo lui è anche colpevole di incoraggiare l’omosessualità. Rifiutare la Convenzione significa lasciare la mano libera contro le donne che con sempre maggiore intensità non accettano la propria subordinazione domestica, sociale e politica; significa attaccare la libertà sessuale praticata da donne e persone lgbtq+ che singolarmente e collettivamente contestano le posizioni e le gerarchie patriarcali che la famiglia istituzionalizza e la società reclama per la propria stabilità e riproduzione.
Erdogan e il suo governo non sono soli. Dopo aver ulteriormente ristretto la possibilità di abortire, il 30 marzo il parlamento polacco ha votato per ritirare l’adesione alla Convenzione e dare avvio all’iter di scrittura di una nuova carta, per affermare che la famiglia è il luogo che protegge le donne dalla violenza e che va messa al bando «l’ideologia di genere» colpevole di destabilizzarla. La carta ‘alternativa’ dovrebbe quindi essere proposta anche a Ungheria, Bulgaria, Slovacchia e Repubblica Ceca, paesi in cui la convenzione di Istanbul o è stata recentemente rifiutata o mai ratificata: dopo essersi sfaldato politicamente quando l’UE ha almeno nominalmente vincolato il recovery fund al rispetto dello Stato di diritto, il blocco di Visegrad si ricompatta attorno alla reazione patriarcale. Lo slogan «sì alla famiglia, no al genere» stabilisce il fronte di una battaglia culturale materialissima, la cui posta in gioco è ristabilire le gerarchie sociali e sessuate messe più o meno silenziosamente in discussione negli ultimi anni. Come ha recentemente dichiarato Confindustria Est Europa, «la centralità della famiglia è indispensabile per l’impresa e per l’occupazione». L’antieuropeismo professato dal fronte orientale – che, come Erdogan, considera la Convenzione di Istanbul «un’imposizione straniera» che intacca i pilastri della tradizione e delle singole culture – è utile per addossare all’Unione la responsabilità di una precarizzazione sempre più intensa. D’altra parte, questo fronte orientale non intende rinunciare né ai fondi di recupero europei, né ai capitali occidentali, tedeschi in particolare, che beneficiano di salari bassi anche grazie al lavoro gratuito delle donne nelle case. Tenere le donne ‘al loro posto’, sfruttare il loro lavoro per rimediare a un welfare ridotto al minimo, incardinarle alla famiglia anche attraverso politiche di conciliazione famiglia-lavoro volte a incentivare il part-time e la procreazione con sussidi destinati ai figli diventa così un punto di convergenza tra i due fronti. Bisogna riportare l’ordine in una società le cui istituzioni sociali patriarcali sono state letteralmente travolte dalle migrazioni di donne che svolgono lavori essenziali nell’Europa occidentale. D’altra parte, incardinare le donne alla famiglia significa anche fare del lavoro di cura una loro destinazione naturale, svalutandolo dal punto di vista salariale e sociale nei cosiddetti lavori essenziali. Così, la risposta alle battaglie portate avanti dalle donne nell’Est europeo negli ultimi anni, e ancora con maggiore intensità durante la pandemia, è la valorizzazione del loro ruolo materno e di cura, che diventa fondamentale per accedere a servizi e sussidi, mentre riafferma la procreazione come inaggirabile obbligo al quale le donne devono piegarsi per far fronte alla crisi della riproduzione sociale. In questa logistica transnazionale della riproduzione, la messa al bando del gender stabilisce l’illegittimità politica di ogni pretesa di rivendicare un miglioramento delle proprie condizioni di vita e di lavoro al di fuori della famiglia. Così, mentre colpisce materialmente le persone lgbtq+, a cui sono negati servizi e sussidi, la crociata contro l’ideologia gender dovrebbe comunicare a tutte le donne che la famiglia è l’unico canale legittimo di accesso a sostegni sociali ridotti al minimo. La crociata anti-gender – che anche in Italia continua a essere praticata da loschi figuri in cravattino e da donne che confondono il femminismo con la certificazione anatomica del sesso ‒ coincide con il tentativo di chiudere le possibilità e le pratiche attuali di connessione politica tra donne e persone lgbtq+ contro la riproduzione sociale patriarcale.
Noi non crediamo in alcun modo alla rappresentazione dell’UE come baluardo dei diritti delle donne e delle persone lgbtq+, così come non crediamo che essa sia minacciata a oriente da ‘barbari antiliberali’ e al suo interno dagli ‘islamici retrogradi’. Le istituzioni europee e i paesi che pretendono di incarnare lo spirito più autentico dell’Unione possono tranquillamente dichiararsi a favore della gender equality e dei diritti delle persone lgbtq+, e contemporaneamente mettere a valore i gradi diversi di subordinazione delle donne e di repressione della libertà sessuale che attraversano lo spazio europeo e le sue frontiere esterne. Il razzismo istituzionale lega Orban, l’Unione Europea ‒ che continua a puntare sulla Turchia per mettere in atto il suo nuovo piano di governo della mobilità e la finanziaria per garantirsi un gendarme del confine mediterraneo ‒ ed Erdogan ‒ che continua a perseguitare la popolazione curda e legittimare lo stupro delle donne siriane nei campi profughi dai quali trae i suoi profitti. D’altra parte, nella sua articolazione transnazionale l’UE si regge sull’esistenza di differenziali che non riguardano solo i salari e i sistemi di welfare, ma anche l’interpretazione del principio della gender equality da parte dei singoli Stati. La sopravvivenza dei sistemi nordeuropei di welfare – i pochi che ancora funzionano su base individuale e non familistica ‒, la «conciliazione» tra maternità e lavoro prevista dal Family Act in Italia, l’azzeramento o la formulazione anti-gender dei diritti sociali nell’Europa dell’Est presuppongono tutti, in misura diversa, il lavoro tanto essenziale quanto squalificato di donne che come mogli e madri tengono insieme i frammenti di una esistenza precaria, delle migranti destinate ai lavori essenziali in cambio di salari che non bastano nemmeno a rinnovare il permesso di soggiorno, se c’è. Mentre prende formalmente le distanze da uno dei propri Stati, la Polonia, dichiarandosi uno spazio lgbt-friendly, l’UE non pone limiti alla possibilità che le persone lgbtq+ siano diffusamente discriminate all’interno dei propri confini, quando non apertamente esposte alla violenza repressiva degli Stati dai quali attinge forza lavoro a basso costo per il suo capitale industriale e per una riproduzione sociale impoverita. Di crisi in crisi, prima e durante la pandemia, l’UE e i suoi Stati hanno contribuito a esasperare le condizioni di precarietà e razzismo che colpiscono le donne, che le espongono alla violenza, che limitano le possibilità individuali e collettive di combatterla.
Di fronte alla guerra contro le donne che sostiene la logistica transnazionale della riproduzione, alla legittimazione della violenza maschile come supplemento privato di garanzia dell’ordine, al tentativo di barattare briciole di welfare con la legittimazione del razzismo e con la repressione di chi pratica la libertà sessuale contro la famiglia e il suo ordine sociale, l’iniziativa femminista non può esitare e deve essere transnazionale. L’attacco alla Convenzione di Istanbul non è un fatto locale e confinato, ma indica chiaramente la posta in gioco della ricostruzione post-pandemica e i terreni della nostra iniziativa possibile e necessaria. Dobbiamo rifiutare con ogni mezzo le posizioni di chi rivendica la sicurezza e la libertà delle donne al prezzo di quelle delle persone lgbtq+, riconoscendo la necessità di una connessione capace di rifiutare efficacemente le politiche neoliberali della famiglia e gli attacchi a chi contesta le posizioni sociali che essa impone. Dobbiamo riconoscere nella violenza maschile una pratica sociale di ingiunzione alla subordinazione e svalutazione del lavoro delle donne, che lo rende tanto essenziale quanto subalterno. Dobbiamo sapere che mentre si difende la Convenzione di Istanbul sotto attacco è necessario organizzarsi per rovesciare le condizioni sociali e politiche che in ogni momento rendono le donne più esposte alla violenza maschile, a partire dal razzismo istituzionale. Dobbiamo riconoscere che ciò che sta accadendo in Turchia, nei paesi dell’Est e in Europa è una reazione di fronte alle mobilitazioni e alle lotte di cui donne, lavoratrici, migranti e persone lgbtq+ sono state protagoniste in questi anni sui posti di lavoro e nella società, sfidando i confini della violenza. Quelle mobilitazioni e quelle lotte sono il nostro punto di partenza inaggirabile e alimentano la prospettiva femminista dello sciopero sociale transnazionale. Se lo scorso 8 marzo lo sciopero femminista ha fatto i conti con i limiti che le conseguenze sociali della pandemia hanno opposto alla sua organizzazione e pratica di massa, ora si presenta l’urgenza di sfidare quei limiti costruendo connessioni politiche con i movimenti che in Turchia e a ridosso delle frontiere orientali dell’UE affermano il carattere essenziale dello sciopero.