Pubblichiamo l’intervista a Rex, uno dei riders coinvolti nell’inchiesta torinese contro UberEats. Altre inchieste nel frattempo vanno avanti nei tribunali italiani. È notizia di ieri la richiesta da parte del procuratore capo di Milano, Francesco Greco, di punire i colossi del food delivery con ammende per 733 milioni di euro e l’obbligo di assunzione di 60mila riders sull’intero territorio nazionale. Esito di un anno di indagini, la battaglia che si apre ora si affianca al processo per caporalato già in corso presso i tribunali di Milano e Torino, che l’anno scorso ha portato al commissariamento di Uber Italy: una serie di iniziative giudiziarie che hanno portato alla ribalta l’esistenza di un sistema ben noto ai lavoratori, ma che va letto all’interno delle più generali condizioni del lavoro per evitare di affidarsi esclusivamente alla buona volontà delle procure o del legislatore nazionale ed europeo. Il 16 febbraio a Torino si è infatti tenuta la prima udienza della causa civile nell’ambito del processo per caporalato contro UberEats e la sua intermediaria Flash Road City, che rivendicavano di aver costruito «un sistema per disperati», secondo le parole della stessa manager di Uber Italy, approfittando della ricattabilità dei migranti per farli lavorare senza contratto a 3,50 euro a consegna, qualunque fossero la distanza e le condizioni atmosferiche, per imporre ritmi e orari di lavoro massacranti, per negare qualsiasi tutela in caso di incidente e soprattutto per derubarli sistematicamente di metà dei loro salari. In questa intervista, Rex mostra che è proprio grazie al regime della Bossi-Fini che UberEats ha potuto costruire questo metodo di sfruttamento sulla pelle dei migranti, che ha poco di eccezionale e che anzi emerge sempre più chiaramente come la verità della cosiddetta gig economy e più in generale del “lavoro essenziale”. A lavorare come riders sono infatti per la maggior parte proprio i migranti, perché grazie al ricatto del permesso di soggiorno le piattaforme possono imporre loro uno sfruttamento più brutale, spesso informale e parallelo a quello della app, tramite agenzie di intermediazione come FRC. L’algoritmo non può fare a meno del permesso di soggiorno: non bastano formule sofisticate, serve il razzismo istituzionale per farlo funzionare a dovere. Si tratta, per altro, di un sistema di sfruttamento razzista rodato a livello transnazionale. A gennaio a Parigi 66 riders sans papiers – licenziati dalla start-up Frichti proprio perché sprovvisti di documenti (che non avevano potuto ottenere per via del rifiuto dei padroni di dar loro accesso alle procedure di regolarizzazione) – hanno depositato i loro dossier al Tribunale del lavoro per far riconoscere un contratto di lavoro fra le parti e ottenere delle indennità. Recentemente ci sono stati scioperi in Lituania, dove la Bolt Food ha imposto arbitrarie diminuzioni dei salari rifiutando di assicurare i lavoratori, e in Georgia, dove i riders hanno chiesto un aumento degli stipendi e maggiore sicurezza sul lavoro, costringendo Glovo ad accettare di garantire bonus orari e a trattare sulle richieste da loro avanzate. Anche a Torino, una volta scoperta la truffa dei finti contratti, un gruppo di migranti ha deciso di organizzarsi per chiedere, se non giustizia, almeno quello che spetta loro. Nelle fabbriche, come nella logistica, nell’agricoltura come nella gig economy il ricatto del permesso di soggiorno è un’arma usata sistematicamente per disciplinare e sfruttare i migranti e in particolare le donne migranti che svolgono i cosiddetti “lavori essenziali”, così come per produrre divisioni e gerarchie tra la stessa forza-lavoro. Gli scioperi e l’organizzazione sempre più diffusi a livello transnazionale mostrano che i migranti non hanno nessuna intenzione di sottostare al regime di questo «sistema per disperati». Il lavoro migrante è una forza politica essenziale: per questo è fondamentale connetterne le lotte a livello transnazionale per trasformare la «disperazione» in potere collettivo.
→ Leggi anche l’intervista ad Angelo Avelli di Deliverance – Milano
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Come hai iniziato a lavorare per UberEats? Quanto venivi pagato?
Rex: Ho lavorato per UberEats per più di un anno, ma noi eravamo assunti da un’azienda di intermediazione che si chiamava FRC (Flash Road City). La prima volta abbiamo incontrato Leonardo [il capo di FRC] in Piazza Statuto: diceva di avere bisogno di persone per portare il cibo dai ristoranti ai clienti. Ci aveva proposto di pagarci 3 euro a consegna ma gli abbiamo detto che era troppo poco, allora ha detto che ci avrebbe pagati 3,50 euro e così abbiamo iniziato a lavorare per lui, perché non avevamo alternativa. Non sapevamo che avremmo lavorato per UberEats, lo abbiamo scoperto quando ci ha registrati sulla app. Però non venivamo pagati quello che diceva la app. Non avevamo diritto a niente oltre i 3,50 euro a consegna. Quando ci lamentavamo del lavoro minacciavano di bloccarci la app. Non potevamo neanche tenerci le mance che i clienti pagavano attraverso la app: UberEats si è tenuta più di 20.000 euro di mance. Anche se la app di UberEats diceva che dovevamo essere pagati per esempio 800 o 1000 euro per un mese, Leonardo ci diceva che quei soldi non erano per noi e venivamo pagati 300 o 400 euro. La app non paga tutte le consegne uguali, ci sono dei bonus e dei premi se le consegne sono molto lunghe, se piove o se nevica, ma anche se facevo una consegna da 12 euro, me ne pagavano solo 3,50. Non abbiamo mai ricevuto i bonus della app: ogni due settimane calcolavano il numero di consegne fatte e li moltiplicavano per 3,50 euro, ma spesso ci pagava solo metà anche di quello che ci doveva e quasi sempre in ritardo.
Come avete scoperto che il vostro contratto era falso?
Rex: Quando lo abbiamo incontrato la prima volta Leonardo ci aveva dato un foglio intestato Flash Road City che sembrava un contratto. Noi gli abbiamo chiesto se con quel foglio potevamo rinnovare il permesso di soggiorno e ha detto di sì, ma non era vero. Abbiamo scoperto che il contratto era falso perché molti di noi dovevano rinnovare il permesso di soggiorno con il contratto, ma quando andavano in questura gli dicevano che quello non era un vero contratto e che non era valido. Noi a quel punto provavamo a chiedere spiegazioni a Leonardo ma non ci rispondeva al telefono e non rispondeva neanche alle chiamate della questura. Molti di noi hanno perso i loro documenti così (non io perché ho l’asilo politico) e per questo non hanno potuto partecipare al processo. Eravamo moltissimi a lavorare per UberEats, ma quelli che non hanno potuto rinnovare il permesso se ne sono andati, perché vivere in città senza documenti è molto difficile, quindi probabilmente sono andati a cercare lavoro in campagna e non sappiamo più dove sono.
Come descriveresti le condizioni di lavoro imposte da UberEats ai migranti?
Rex: L’unica parola che mi viene in mente per spiegare come lavoravamo è «schiavitù», perché anche quando lavoravamo non venivamo pagati, ma noi dovevamo comunque pagare l’affitto e le bollette. Molti di noi erano arrabbiati per questa situazione ma non potevano lamentarsi o andarsene perché avevano bisogno di un lavoro per rinnovare il permesso di soggiorno. Ma alla fine non hanno potuto rinnovarlo comunque. Ci trattavano così perché siamo migranti, non c’era nessun italiano che lavorava per FRC. Come migranti sappiamo che siamo costretti a lavorare per sopravvivere e per rinnovare i documenti, e i padroni come Leonardo si approfittano della disperazione di dover lavorare per sopravvivere. Ci siamo anche dovuti pagare da soli i materiali per lavorare, per comprarci le borse, e dovevamo pagarci le riparazioni se facevamo un incidente. Mentre lavoravo per UberEats ho fatto due incidenti e dopo uno di questi non ho potuto lavorare per due mesi, ma se non lavori ti bloccano la app. Uno di noi è morto in un incidente e non c’è stato nessun aiuto alla sua famiglia, aveva una moglie e tre figli. Lavoravamo tutto il giorno dalla mattina presto alla sera tardi, a volte anche fino all’1 o alle 2 di notte, e non ricevevamo niente. Leonardo si preoccupava solo dei suoi soldi, ci ha usati perché pensava che fossimo disperati, non gli interessava in che condizioni ci faceva lavorare, anche se avevamo fatto un incidente diceva che ci dovevamo presentare al lavoro altrimenti ci bloccava l’account della app.
Che cosa ti aspetti dal processo?
Rex: La mia priorità nel processo è avere giustizia e delle compensazioni, perché siamo stati usati e perché questo non deve succedere ad altre persone, perché sicuramente moltissime altre persone vengono sfruttate in questo modo, fanno incidenti, e non lo sappiamo neanche. UberEats non può negare che aveva un accordo con FRC, perché noi possiamo dimostrare che eravamo registrati sulla app.