di FRANCESCA DELLA SANTA
Mona Hatoum è un’artista libanese di famiglia palestinese che dal 1975 vive a Londra, dove è stata costretta a fermarsi per lo scoppio della guerra civile nel suo paese d’origine. Un vissuto di fuga che diventa una delle prospettive da cui partire per la sua ricerca artistica. Intreccia il passato di una terra negata e il vissuto di una donna migrante in un dialogo costante: dalla traccia personale alla necessità di uno sguardo politico che ne strutturi l’ossatura imponendo il problema della realtà. Il tema dell’identità, da cui le è impossibile non partire, viene problematizzato in una tensione che complica la relazione fra appartenenza e abbandono, ritorno e fuga, in un conflitto non risolto né risolvibile. Pur lavorando in Inghilterra e in Europa da anni, dentro la sua opera riemerge continuamente il ricordo, più che dei luoghi in cui non è potuta tornare, del perché questo gesto le è stato impedito. Con una produzione artistica che dagli anni Settanta a oggi continua a riaggiornarsi, Mona Hatoum inizialmente fa del suo corpo e dell’esperienza visiva il veicolo di denuncia della sua esperienza di donna e migrante ricercando ostinatamente un alfabeto politico per discuterne le fondamenta (Performance-Still, 1985).
Dagli anni Novanta il suo sguardo ineludibile passa dal proprio corpo al corpo fisico di stanze che diventano contenitori del vissuto. La casa come fulcro di uno spazio in cui la rielaborazione possibile deve continuamente fare i conti con la contraddizione costante non riuscendo a decidere fra il rifiuto e l’accoglimento. In una foresta simbolica, gli oggetti di un appartamento diventano per lei ‒ e per noi ‒ trappole agghiaccianti: un letto su cui è impossibile sdraiarsi e una grattugia-seduta che ci nega la possibilità di un qualsiasi ristoro, gli elettrodomestici e le vettovaglie della cucina i macchinari di un esperimento scientifico e industriale (Homebound, 2000).
«Eri molto carino con me, ma la nostra casa non è stata altro che un luogo di ricreazione» (Henrik Ibsen, Casa di bambola, atto III): la ribellione di Nora echeggia in noi come monito inespresso, mentre guardiamo la stanza attraversata da 240 volt di corrente elettrica con cui Mona Hatoum analizza e descrive metodicamente la grammatica del quotidiano. I temi della violenza domestica si intrecciano a quelli dell’esilio e li approfondiscono quando l’artista chiama Home la casa-prigione avvolta nel filo spinato, in un’opera in cui molte si riscoprono affini, mentre gli oggetti casalinghi vibrano per le scariche elettriche e la paurosa solitudine e abnegazione nel ruolo femminile ci investono.
La sua arte parla dell’oppressione e della violenza: le sbarre e la prigionia ritornano ossessivamente e costantemente. Nelle gabbie che si trasformano in ombre, che si allungano e oscillano spettrali annegando lo spazio dominato da una luce bianca che implacabile ci immerge nella struttura inafferrabile di un condominio/prigione (Light Sentence, 1992). Nel reticolato di un mondo dove i confini sono costruiti con incandescenti luci al neon (Hot Spot III, 2009). Mona Hatoum, metafisica, dai titoli ossimorici fino alla materia leggera e impalpabile (l’ombra, l’elettricità, il calore), denuncia la pesantezza dell’esistere e di una condizione che trasforma la storia personale in dialogo con chi osserva. Così la malinconia del ricordo diventa materia, mentre racconta un presente che non esiste, teso nella nostalgia olfattiva di cui si impregna la topografia composta da mattonelle di sapone di oliva evocatrici di una patria negata (Present Tense, 1996-2011).
La sofferenza di provenire da una Palestina per cui l’unica possibilità di affermazione, anche geografica, è attualmente la lotta la spinge a ragionare sul tema del confine, dello Stato e della violenza che striscia trasformando il disegno delle cartine nella mappa del potere che si staglia in sovraimpressione. Un’arte che, ineluttabile, non propone fuoriuscite, ma una visione asciutta e schietta degli assetti di potere esistenti, siano essi quelli di un sistema politico globale o quelli di un’affermazione familiare e culturale. Senza alcuna speranza, il conflitto gracchia e cerca l’urlo strisciante con cui vorremmo liberare l’apparente ed estenuante immobilismo.
La desolazione con cui ci avvolge Mona Hatoum pare lasciarci privi di una qualsiasi possibilità di rivolta. La ribellione è annichilita dalla lucida e ossessiva precisione con cui qualsiasi via di fuga sembra negarsi. Il suo lavoro si afferma fra la poesia e la violenza, privandoci di una possibile rassicurazione.
Nelle sue stanze si staglia il rumore bianco, caratterizzato dall’assenza di sfumature nel tempo, assenza di variazioni, una costante e martellante presenza che percorre lo spettro della frequenza; di primo acchito se ne è disturbati e distratti, ma ben presto finisce per diventare lo sfondo della vita che prosegue incessante e incurante di quel buzz che la attraversa. Proprio perché rinuncia a tutto e si spoglia di qualsiasi abbellente utopia, in quella rappresentazione possiamo intuire la potente volontà per cui a quell’arte non può bastare la realtà e alla fredda descrizione non può non seguire la necessità di tagliare quelle reti, staccare quella spina e distruggere quelle ombre, interrompere quel buzz ansiolitico. Una spinta di insubordinazione che si innesca dopo che l’ondata di freddo ha attraversato il nostro corpo.