di TRANSNATIONAL SOCIAL STRIKE PLATFORM
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La pandemia di Covid-19 ha mostrato, più di ogni altra cosa, la profonda interconnessione e la reciproca dipendenza di diversi settori, aree di vita, paesi e regioni all’interno del sistema capitalistico globale. È diventato dolorosamente evidente come l’isolamento o le misure di distanziamento sociale introdotte in un luogo del mondo possano interrompere la vita economica o sociale a livello globale. In questo contesto globale, i Paesi post-comunisti dell’Europa centrale e orientale e quelli ai confini dell’Europa ‒ spesso definiti una «periferia» europea che «rifornisce» i Paesi europei più ricchi di «forza lavoro a basso costo» ‒ condividono una particolare storia comune di drastiche riforme neoliberali negli ultimi decenni che hanno posto le condizioni per le insopportabili conseguenze sociali ed economiche della pandemia che vediamo ora affermarsi. Queste situazioni politiche rendono drammaticamente evidente che le risposte all’attuale sistema capitalistico organizzato a livello globale dovrebbero avvenire non solo a livello locale o regionale, ma su un piano transnazionale. Inoltre, queste dinamiche hanno mostrato più che mai che se guardiamo all’Europa dal punto di vista dei suoi confini orientali, essa emerge chiaramente come un campo di battaglia. In questa prospettiva, la Transnational Social Strike Platform e il collettivo femminista bulgaro LevFem hanno avviato un’iniziativa politica comune insieme a molti altri collettivi dell’Europa centrale e orientale, con l’obiettivo di comprendere meglio e sostenere collettivamente le lotte in corso e quelle emergenti nella (ri)produzione sociale nella regione, e oltre.
Fin dall’inizio della pandemia di Covid-19 nell’Europa centrale e orientale donne, operai, migranti ‒ spesso acclamati come lavoratori essenziali ‒ sono stati protagonisti di molte lotte che hanno contestato la riproduzione sociale neoliberale nel settore sanitario, nei campi, nelle loro case (spesso sovraffollate), nelle fabbriche e nei magazzini, nelle strade. Nei giorni scorsi, il popolo serbo è esploso in una forte protesta e ha preso d’assalto il Parlamento dopo che il Primo Ministro aveva imputato il nuovo aumento dei casi di coronavirus ai comportamenti dei singoli individui, imponendo nuove misure di quarantena. In Bulgaria, negli ultimi giorni, ci sono state diverse proteste anti-governative e anti-corruzione. Qualche settimana prima, le donne georgiane che si occupano di assistenza e svolgono lavori temporanei hanno protestato a Batumi e Tbilisi, chiedendo al governo di aprire le frontiere con la Turchia e l’UE, perché hanno bisogno di lavorare e di rinnovare il loro visto europeo. Alla fine di giugno sono emersi nuovi focolai in luoghi come la Germania e l’Italia, dove lo sfruttamento del lavoro migrante e dei profughi nelle aziende di produzione della carne, nei magazzini e nei campi si è aggravato a causa della crisi abitativa. Lavoratrici e lavoratori si sono rifiutati di essere complici della diffusione del virus e hanno contestato le misure di sicurezza negligenti dei loro capi (vedi la lettera di Fembunt).
Le proteste nei luoghi di lavoro sono esplose in molti luoghi durante la pandemia, e lavoratrici e lavoratori hanno contestato non solo le condizioni e le misure di sicurezza sul lavoro, ma l’intero insieme di condizioni sociali e di vita in via di deterioramento a causa della pandemia, compresi il benessere, la salute, il permesso di soggiorno, l’alloggio e la violenza patriarcale. È il caso delle donne e delle persone LGBTQI+ che sono scese in strada in Romania, sostenute dalla solidarietà di molti altri paesi, contro l’abolizione degli studi di genere, proprio quando in Ungheria diverse voci si sono sollevate contro la legge transfobica di Orbán che vieta di correggere gli indicatori di genere nel certificato di nascita e il rifiuto del suo governo di proteggere le donne dalla violenza domestica e dagli abusi sessuali. Allo stesso tempo, in Turchia le donne hanno contestato la legge sullo stupro e in Polonia sono scese in strada contro il tentativo del governo di approfittare della situazione critica per limitare ulteriormente la già esigua libertà di aborto. La svalutazione del lavoro di assistenza, soprattutto se svolto da donne, è stata oggetto di un’ondata di azioni di protesta in Bulgaria, dove infermiere e medici di diversi ospedali di tutto il paese si sono dimessi collettivamente all’inizio della pandemia. Essi si sono rifiutati di lavorare senza tutela della sicurezza e per un misero salario che li costringeva a fare due o anche tre turni di lavoro in luoghi diversi, rischiando di diffondere il contagio. Svalutati, precari, sottopagati: questa è la realtà del lavoro sanitario e assistenziale esposta dalla pandemia. In Spagna e in Austria, operatrici e operatori sanitari migranti hanno protestato contro le agenzie di collocamento che li costringevano a spostarsi in condizioni di insicurezza oltre confine per svolgere quelle attività sanitarie che sono essenziali per questi Paesi. I governi nazionali di tutta Europa hanno escluso le lavoratrici domestiche e dell’assistenza migranti dai sussidi di emergenza, mentre in Europa Orientale il welfare sta crollando dopo anni di sottofinanziamenti e dopo che infermiere, infermieri e personale medico sono andati via in cerca di un salario migliore da qualche altra parte dell’Europa occidentale.
Ciò che sta accadendo nelle regioni dell’Europa centrale e orientale e ai confini dell’Europa non può essere disgiunto da ciò che accade in Occidente. Le massicce proteste organizzate negli Stati Uniti da gruppi legati a Black Lives Matter ‒ che recentemente hanno chiesto uno sciopero nazionale contro lo sfruttamento e il razzismo istituzionale ‒ hanno dato origine a manifestazioni in molte città europee ed extraeuropee dove neri, migranti, giovani, donne contestano le molteplici forme di violenza razzista. Storicamente e attualmente, lavoratrici e lavoratori neri sono stati lasciati fuori dai sindacati e le leggi sindacali hanno accuratamente evitato di dare diritti di sindacalizzazione ai lavoratori dell’assistenza e ai lavoratori agricoli negli Stati Uniti, che erano prevalentemente neri e che ora sono per lo più persone di colore ed europei dell’Est. Queste lotte sono legate alle manifestazioni e mobilitazioni dei migranti per un permesso di soggiorno europeo incondizionato e illimitato.
Come potenziare tutte queste lotte per superare le divisioni e la frammentazione? Come praticare il transnazionale come campo di battaglia, ribaltando la concorrenza neoliberale tra paesi e regioni? Le lotte, le proteste, gli scioperi che in questi mesi hanno attraversato le regioni orientali sono risuonate a livello europeo e globale, dimostrando che la riproduzione sociale ‒ intesa non solo come lavoro riproduttivo ma come riproduzione di gerarchie razziste, divisione sessuale del lavoro e dei ruoli di genere, precarizzazione e sfruttamento ‒ è il nucleo delle lotte di oggi. Anche grazie allo sciopero globale delle donne, diversi soggetti hanno iniziato a contestare la riproduzione sociale neoliberale: tutte le lotte che si stanno delineando intorno alla crisi del Covid-19 dimostrano che donne, migranti, operai non sono più disposti ad accettare di pagare il prezzo più alto di questa crisi, e non torneranno alla normalità perché la normalità era il problema.
Considerando la rinnovata e indiscussa centralità della riproduzione sociale nelle lotte di oggi, negli ultimi due mesi la Transnational Social Strike Platform e il collettivo femminista bulgaro LevFem, insieme a diversi collettivi dell’Europa centrale e orientale, la Balkan Route, la Turchia, la Georgia, hanno aperto uno spazio di discussione nella prospettiva di un’iniziativa politica comune che parta dall’Europa centrale e orientale per coinvolgere donne, lavoratrici e attiviste dell’Est e non solo.
Per allargare queste discussioni e sentire il contributo proveniente da più voci, abbiamo organizzato un webinar, al quale hanno partecipato relatrici provenienti da Bulgaria, Georgia, Romania, Slovenia, Spagna, Turchia. L’obiettivo principale del webinar è stato quello di discutere su come perseguire un processo di connessione tra diverse condizioni, in Oriente e oltre, consolidando ed espandendo la rivolta quotidiana di donne, infermiere, assistenti, soggetti LGBTQI*, migranti, rifugiati, Rom. In gioco c’era la sfida di colmare le divisioni tra centro e periferia, est e ovest, di praticare l’Europa come terreno minimo di un’iniziativa che non si limita ai suoi confini istituzionali. Al webinar le relatrici hanno riflettuto sulle molteplici risposte alla pandemia ‒ sia da parte dei governi locali sia da parte delle donne, dei lavoratori, dei migranti in difficoltà. Sono emerse diverse somiglianze tra contesti diversi, ma anche ineludibili specificità.
In Turchia, ad esempio, le donne hanno svolto la maggior parte del lavoro riproduttivo, retribuito e non, che la pandemia ha aumentato di 50 minuti per gli uomini e di due ore per le donne. Il governo non ha concesso alcun salario minimo, nessun sussidio per la disoccupazione che ha colpito duramente soprattutto i settori tessile, alimentare e del commercio al dettaglio, dove lavorano soprattutto migranti e rifugiati senza documenti ‒ che spesso vivono nei campi ai confini della Siria – e donne. In Bulgaria la gente è stata lasciata sola, con l’unica possibilità di accettare il credito sociale che il governo ha concesso. Indifferente alla crisi sociale e sanitaria, il governo ha revocato le misure sanitarie in modo caotico e molto rapido, provocando così una seconda ondata di casi mortali. Il sistema sanitario è sotto forte pressione, e lo è stato per molti anni, con le infermiere che protestavano contro la carenza di personale, lo sfruttamento, i bassi salari che le costringevano a lavorare in diversi ospedali, rischiando di diffondere il virus più facilmente. Molte persone, soprattutto donne, operatori e operatrici sanitari, lavoratori agricoli, che sono tornati nel Paese dopo aver perso lavori mal pagati e difficili, sono stati accusati di essere nemici e vettori pubblici di contagio. In Georgia la pandemia ha aumentato il carico di lavoro di assistenti sociali, infermieri, personale sanitario, spingendo il già lacerato sistema assistenziale e sanitario ‒ il 40% di tutte le cliniche è di proprietà della Banca di Georgia; medici e infermiere non vengono pagati da mesi ‒ al quasi collasso. In Slovenia l’individualizzazione, la svalutazione e la privatizzazione del welfare hanno colpito soprattutto le donne, che spesso lavorano anche nelle fabbriche tessili, sono sottopagate e lavorano troppo. Lungo la rotta balcanica la violenta militarizzazione delle frontiere e l’esacerbazione delle condizioni nei centri di detenzione si sono sovrapposte all’inaugurazione di una narrazione pubblica di infermiere e medici come nuovi soldati della madrepatria. In Romania, un milione di lavoratrici e lavoratori sono tornati dagli altri paesi europei e, dopo aver perso il lavoro, vivono oggi in condizioni di povertà, senza rete di sicurezza, in case sovraffollate dove le donne svolgono lunghi orari di lavoro domestico e ‒ soprattutto nel caso dei Rom ‒ sotto il costante rischio di sfratto e di indebitamento. Il governo ha firmato accordi per facilitare il ritorno dei lavoratori stagionali in Germania, confermando che la Romania è quanto mai dipendente dalle interconnessioni globali.
Ciò che è emerso da questa discussione è l’urgenza di utilizzare questo spazio per intensificare le lotte esistenti, in direzione dell’allargamento di questo processo collettivo. La sfida è di migliorare ulteriormente la comunicazione politica tra donne, migranti e operai e di collegare queste diverse lotte, pur riconoscendo le specificità e le differenze; di coinvolgere i sindacati che sono disposti a impegnarsi al di là delle singole controversie e dei contesti nazionali o locali, tenendo presenti i limiti della sindacalizzazione in settori altamente informalizzati come il lavoro domestico, assistenziale e agricolo; radicalizzare, politicizzare ed espandere il processo che parte dall’Est ma che va oltre; esercitare il nostro potere di organizzazione transnazionale con l’obiettivo di sovvertire la riproduzione sociale neoliberale, il razzismo, la violenza, lo sfruttamento, l’oppressione patriarcale; reclamare e appropriarci ancora una volta dell’arma dello sciopero come pratica capace di trasformare questo insopportabile presente.
Nei prossimi mesi coordineremo altre discussioni pubbliche e a settembre organizzeremo un’assemblea pubblica online, aperta a tutti coloro che vogliano partecipare a questa iniziativa politica transnazionale. Stay tuned!