Intervista a FLAVIA MATEI (D.R.E.P.T. pentru ingrijire – Vienna)
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Pubblichiamo l’intervista a Flavia Matei, attivista romena che vive a Vienna e da oltre tre anni fa parte di D.R.E.P.T. pentru ingrijire, un gruppo composto da operatrici sanitarie e attiviste che sostengono le migranti impiegate nell’assistenza domiciliare 24/7. L’inizio della crisi pandemica e la conseguente chiusura dei confini dei paesi dell’Est Europa da cui proviene la maggioranza delle lavoratrici domestiche ha determinato una repentina crisi nel reperimento di forza-lavoro migrante, cosa che ha destato preoccupazione non solo per il sistema socio-sanitario austriaco, ma anche per le agenzie che ne gestiscono i contratti di assunzione, allarmate dall’idea di rinunciare ai profitti ricavati dalle commissioni che trattengono dai salari delle badanti. Così come per il settore agricolo, il fabbisogno di manodopera ha fatto correre a organizzare voli charter pur di assicurare il lavoro di cura salariato delle donne migranti, salvo poi scaricare completamente su di loro i costi e i rischi della pandemia. Appena arrivate, queste donne sono state infatti costrette a settimane di quarantena non retribuita e i loro documenti sono stati sequestrati dalle autorità per impedire che violassero le restrizioni (una pratica del tutto illegale e tipicamente usata nelle dinamiche della tratta). Il riconoscimento della centralità del lavoro di queste donne, applaudito e acclamato pubblicamente come «essenziale», è coinciso con l’inasprito le condizioni del loro sfruttamento dentro la pandemia, con il raddoppio dei turni e nessuna garanzia di salvaguardia della loro salute. L’invocazione della «cura» come attitudine e vocazione tipicamente materna e femminile è stata usata come un ricatto per estorcere il lavoro di queste donne a condizioni salariali e di sicurezza sempre misere, insieme a un razzismo istituzionale che continuamente contribuisce a svalorizzare il loro lavoro. Per questo la loro identificazione con la cura e il razzismo sono diventati bersaglio delle proteste delle badanti, che hanno rifiutato di essere ‘moralizzate’ da chi non le considera altro che carne da sfruttare. L’esperienza raccontata da Flavia mostra che anche in condizioni di estrema difficoltà, mentre la pandemia rinsalda il nesso tra patriarcato e capitalismo, si stanno dando lotte e nuove possibilità di comunicazione politica che è necessario estendere e amplificare per indicare un orizzonte oltre la crisi pandemica. La chiamata femminista per un primo maggio transnazionale indica esattamente questa prospettiva: lo sciopero femminista vive in queste lotte.
Transnational Social Strike Platform: In tutto il mondo la pandemia sta colpendo prima di tutto i soggetti più sfruttati e oppressi, a partire dalle donne e dalle lavoratrici e lavoratori migranti. Come sono state colpite le loro vite materiali e le loro condizioni lavorative?
Flavia Matei: Nel campo del lavoro di cura, il mercato non è affatto sospeso e si può piuttosto affermare il contrario: questo particolare mercato neoliberale si è decisamente espanso. Questo lavoro a basso costo, svolto da migranti e specialmente da donne migranti, ha addirittura subito una maggiore mercificazione. Gli Stati dell’Europa occidentale stanno trattando con quelli dell’Est per «importare» questo lavoro e nei loro negoziati utilizzano esattamente tale linguaggio, come se non stessero parlando di persone. I governi europei stanno negoziando soltanto sui numeri, delle centinaia di lavoratrici domestiche di cui l’Austria ha bisogno per evitare il collasso del sistema assistenziale, delle migliaia di lavoratori agricoli stagionali richiesti dalla Germania affinché i raccolti non marciscano nei campi e così via. Durante la pandemia in corso possiamo vedere come queste persone siano state degradate, ancora più di prima, al concetto di merce e, nonostante i rischi e le difficoltà crescenti che si trovano a fronteggiare in questo periodo, le loro condizioni di lavoro non hanno fatto che peggiorare. Le misure di sicurezza raccomandate a tutta la popolazione, come lo stare in casa, evitare gli spostamenti non necessari, gli assembramenti e rispettare l’isolamento non valgono per le lavoratrici e i lavoratori migranti. Il mercato li considera sacrificabili: non gli vengono fornite mascherine né tamponi, non ricevono nessuna misura di protezione extra per poter lavorare meglio, non vengono pagati di più per correre in soccorso del «sistema». Ad esempio, le lavoratrici domestiche devono tuttora pagare percentuali elevate alle agenzie di collocamento, lavorare per salari miseri e attraversare in aereo oltre tre Stati, esponendosi al Coronavirus senza che gli sia riconosciuta nessuna agevolazione fiscale o altro.
In Austria, in questa situazione specifica, stanno emergendo nuove vie, nuovi terreni di lotta tra le lavoratrici domestiche?
Il nostro gruppo non è nato durante la pandemia, eravamo già più o meno in contatto tra di noi. C’era già un gruppo organizzativo, al quale partecipo con la mia esperienza da attivista e la mia conoscenza politica e, poiché molte delle donne che vi prendono parte non parlano tedesco, compenso questo divario traducendo per loro e spiegando come funzionano il sistema austriaco e gli aspetti legali che devono tenere in considerazione. Ciò che è cambiato durante la pandemia è che, ovviamente, questo campo lavorativo sta attirando molta attenzione, perché il 95-96% del lavoro di cura nell’assistenza domiciliare 24/7 in Austria è svolto da donne immigrate. Per questo motivo quando i confini sono stati chiusi e la libertà di movimento ridotta al minimo, l’intero sistema socio-sanitario ha cominciato a cadere a pezzi. Abbiamo assistito a un grande interessamento da parte dei media, agli applausi dei politici e si sono udite molte belle parole di riconoscimento per il loro lavoro e il loro contributo al sistema ecc., ma non abbiamo visto alcuna sovvenzione, aumento salariale, neppure la minima cosa. Per esempio, le donne che già lavoravano in Austria quando è cominciata la crisi non hanno più potuto lasciarla, non hanno potuto cambiare i loro turni, così ora si trovano a lavorare per otto settimane, quando normalmente ne lavorano quattro. Sono completamente esauste emotivamente, fisicamente e psicologicamente. E non c’è stato nessun aiuto di sorta da parte dello Stato, come la concessione di un giorno di riposo settimanale, per riprendersi un poco. C’è una grande domanda di volontari in altri settori del sistema sociale, ma nessuna per questo. Per fare un altro esempio: è stato varato un sostegno finanziario statale, una linea di finanziamento per le lavoratrici bloccate in Romania che non potendo tornare al lavoro non guadagneranno nulla in questo periodo e per quelle che sono qui e lavoreranno più a lungo. I media hanno trasmesso e pubblicato reportage per testimoniare gli interventi dello Stato in favore delle lavoratrici domestiche. Quello che in realtà emerge è che questi finanziamenti risultano inaccessibili alle lavoratrici, in quanto i moduli di domanda sono sempre in tedesco e ciò rappresenta una prima barriera. Il secondo ostacolo è dato dalla richiesta del codice fiscale, che molte non possiedono in quanto il loro reddito annuale si attesta sotto gli 11.000 euro e non sono perciò tenute a fare alcuna dichiarazione fiscale. Dal momento che ne hanno bisogno, l’unico modo per ottenerlo è seguire una procedura burocratica, anch’essa in tedesco (lo stesso vale per le agenzie fiscali) complicata anche per chi lo parla, come me.
Perché lo hanno richiesto proprio ora?
Davvero non saprei, posso solo ipotizzare: forse vogliono avere un registro più completo del numero di lavoratrici domestiche effettivamente attive. Il fatto, però, è che molte non hanno fatto domanda di finanziamento perché se ottenessero il codice fiscale sarebbero costrette a fornire la dichiarazione, perfino con un reddito inferiore agli 11.000 euro. Come ho già detto, è semplicemente impossibile per loro perché non conoscono la lingua né la procedura, è molto complicata, e ogni anno dovrebbero pagare un consulente fiscale: ovviamente non vogliono farlo. La linea di finanziamento prevede inoltre che il beneficiario possieda un conto corrente austriaco e ciò rappresenta l’ennesima barriera: non essendo ammessi conti romeni, le donne attualmente bloccate in Romania dovrebbero aprire un conto corrente on-line con una banca austriaca. Davvero assurdo. Per chi si trova in Romania, la situazione è questa. D’altra parte, alle lavoratrici che hanno continuato a lavorare in Austria non è andata meglio. Anche qui la situazione è disastrosa: un Land se n’è venuto fuori dicendo «offriamo 1.000 euro lordi (forfettari) a tutte le lavoratrici domestiche che hanno continuato a lavorare», come bonus in aggiunta al loro salario, per dimostrare il ‘riconoscimento’ nei loro confronti e per convincerle a non fare ritorno in Romania, dal momento che il sistema assistenziale è in crisi per la carenza di lavoratrici; dopodiché un altro Länder ha rilanciato, tenendo un consiglio nel quale si sono espressi all’unanimità, abbassando lo stesso importo di 500 euro, così, anche il primo Land lo ha diminuito. In un primo momento, le donne erano entusiaste perché 1.000 euro sarebbero stati una somma ragionevole, anche se inferiore a quello che guadagnano normalmente, circa 1.300/1.400 euro. Sarebbe stato accettabile ma poi li hanno dimezzati; erano amareggiate ma dicevano che era meglio di niente. La scorsa settimana, mentre traducevamo i moduli dal tedesco al romeno, poiché stiamo provando a fare del nostro meglio per permettergli di accedere a questi fondi, abbiamo altresì scoperto che riceveranno soltanto 500 euro lordi, che significa addirittura meno. Alla fine dei conti gli verranno riconosciuti poco più di 300 euro, nient’altro che briciole. Con quella somma, le donne migranti non potranno nemmeno pagarsi l’assicurazione sanitaria. È davvero umiliante per loro e quella che voleva essere una misura per dimostrare il riconoscimento per il loro lavoro si è rivelata l’opposto: si sentono molto umiliate e svalorizzate, come se tutto questo non sia altro che un modo per farle tacere.
Che effetti sta avendo questa situazione su coloro che si trovavano in Romania quando le frontiere sono state chiuse?
Per le donne bloccate in Romania, la situazione è davvero insostenibile. Non hanno altre opportunità lavorative, non stanno guadagnando nulla e l’esistenza loro e delle loro famiglie è messa a repentaglio, tanto più che non possono neppure accedere ai fondi che, ipoteticamente, dovrebbero aiutarle. La Romania non sta facendo nulla per sostenerle; anzi, sta portando alla disperazione molte famiglie, molte persone – uomini e donne – stanno facendo pressioni perché si imbarchino sui voli charter a qualsiasi condizione, con o senza protocolli di sicurezza, così da poter finalmente guadagnare qualcosa per sé e le loro famiglie. Inoltre, molti di loro hanno contratto debiti con le banche trovandosi in enorme difficoltà dal punto di vista economico.
Durante la pandemia, com’è stato utilizzato il concetto di «cura», in termini di responsabilità nei confronti della nazione e della collettività? Com’è stato interpretato dalle lavoratrici domestiche?
Ho notato che questo discorso, questa ‘responsabilità morale’ connessa al lavoro di cura, è stato inizialmente utilizzato dalle agenzie di collocamento. Il che è logico, appena hanno chiuso le frontiere sono state le prime a entrare nel panico e hanno cercato in tal modo di salvaguardare il loro capitale. Hanno fatto molte pressioni affinché le donne non lasciassero i loro posti di lavoro perché in principio, quando hanno chiuso i confini, c’era ancora una zona grigia, una lacuna legislativa che le lavoratrici potevano sfruttare per ritornare a casa. L’Ungheria non aveva ancora decretato in modo chiaro il blocco degli spostamenti, le compagnie di trasporto non avevano cancellato tutte le corse, perciò c’erano alcune possibilità per poter lasciare il territorio. Le agenzie di collocamento hanno reagito rapidamente, facendo appello alla responsabilità morale ed emotiva, dicendo «che razza di persone siete, per abbandonare i vostri assistiti in queste circostanze? Non capite che nessuno può sostituirvi, cosa ne sarà di tutte queste povere persone»? Si sono richiamate molto a questo ruolo materno, questo senso del dovere femminile verso la cura degli anziani e dei malati: un messaggio che è stato ripetuto molte volte alle lavoratrici domestiche è stato «dov’è la vostra umanità?». Una retorica davvero disgustosa e uno dei primi messaggi che il nostro gruppo ha cercato di contrastare, spiegando e chiarendo che il lavoro domestico è lavoro. Non abbiamo nessuna responsabilità morale nei confronti delle famiglie austriache, esse non sono che datori di lavori e nient’altro. È stato piuttosto difficile perché le agenzie hanno un ruolo autoritario molto forte, così il loro discorso ha avuto effetto. Più il tempo passava, però, più le lavoratrici si rendevano conto che non era stato mosso un dito per aiutarle: c’erano queste aspettative e queste richieste che dovevano continuamente essere accontentate, senza tuttavia ricevere nulla in cambio. Allora, la collera ha cominciato a montare e le lavoratrici hanno rovesciato l’intero discorso, cominciando a chiedere «dov’è la vostra umanità? Come mi state sostenendo, come mi state aiutando? Vi presentate solo per chiedere il conto delle commissioni altrimenti non chiamate neppure per chiedermi se ho bisogno di mascherine, guanti, qualsiasi cosa per evitare di infettarmi». A un certo punto le agenzie hanno ceduto e sono state costrette a fare un passo indietro. È una delle piccole conquiste che abbiamo ottenuto in questo settore.
Secondo te questa pandemia sta permettendo una maggiore intensificazione delle forme di razzismo istituzionale?
Potrei parlare per ore di questo argomento perché ogni settimana scoppia un nuovo scandalo. Sono stata un’attivista per molti, molti anni e devo ammettere che non ho mai operato così intensamente e così sotto pressione come in questo periodo: la struttura, le condizioni cambiano rapidamente da una settimana all’altra, c’è una crisi ogni settimana. Per esempio, tre settimane fa l’Austria ha organizzato un volo con 230 lavoratrici migranti, che dovevano stare in quarantena per due settimane (senza guadagnare niente) prima di poter effettivamente cominciare a lavorare: abbiamo appena scoperto che la scorsa settimana, appena sono arrivate nel Paese, i loro documenti personali sono stati sequestrati. Non si sono rese conto della procedura insolita, hanno pensato che l’hotel dovesse custodirli come cauzione per la stanza, per l’alloggio. Non hanno realizzato che fosse illegale e lo abbiamo scoperto in maniera del tutto accidentale quando, dopo dieci giorni dalla consegna, non gli erano stati ancora restituiti. Così abbiamo fatto molte pressioni, chiamando i giornalisti e chiedendo spiegazioni ufficiali dal Ministero del Lavoro, perché non sapevamo neppure chi avesse preso i documenti d’identità. Le donne ci avevano detto che era stata l’agenzia di collocamento ma per noi non aveva senso e ci sembrava una pratica del tutto illecita. Dopo un mucchio di chiamate e di ricerche, abbiamo scoperto che le autorità municipali della città in cui erano alloggiate durante la quarantena avevano delegato alle agenzie di collocamento il compito di ritirare e trattenere i loro documenti per assicurarsi che rispettassero l’isolamento. Abbiamo fatto molto rumore sulla stampa per denunciare l’illegalità di queste disposizioni strumentali allo sfruttamento, trattandosi a tutti gli effetti di una prova di traffico di esseri umani, fino a quando i documenti non sono stati restituiti. Perciò le autorità si sono addirittura contraddette poiché se si fosse realmente trattato di una misura legale, perché non trattenerli fino alla fine della quarantena?
Dove è accaduto?
È successo a Schwechat, mentre le autorità locali in questione sono di Bruck an der Leitha. Questo è solo uno dei casi più recenti ma se ne sono verificati ogni singola settimana.
La pandemia come sta incidendo sull’organizzazione e la comunicazione politica?
Devo dire che sta funzionando molto meglio. All’inizio, quando ho cominciato a operare con il gruppo, era davvero difficile raggiungere le lavoratrici perché aleggiava sempre la paura che le agenzie di collocamento, a cui cerchiamo di mettere i bastoni fra le ruote, potessero scoprire che fossero in contatto con noi. Così c’era molto sospetto, molta riluttanza, zero iniziativa da parte loro e così via. Ma adesso che hanno bisogno di informazioni si sono rese conto che le agenzie non stanno dalla loro parte e ora c’è molto coraggio, stiamo ricevendo centinaia di messaggi ogni giorno, in cui ci domandano come poter accedere ai fondi, quale ufficio romeno contattare per capire come tornare a casa, ecc. C’è molta interazione e abbiamo un sacco di lavoro da fare e sento che il nostro gruppo, che per tre anni ha cercato di creare questa organizzazione comunitaria, non ha mai avuto così tanto successo. Adesso è chiaro da dove provengono le informazioni corrette e chi cerca, invece, di manipolare le donne trattandole come mera forza lavoro. Aver ottenuto questa reazione è per noi fonte di grande motivazione, ci dimostra che è davvero possibile rompere l’isolamento e l’invisibilità che caratterizza il lavoro domestico in quanto tale.