di BESTE BAYRAM
A pochi giorni dalla notizia dell’invasione della Siria del Nord da parte dell’esercito turco, pubblichiamo l’articolo scritto da Beste Bayram, militante femminista turca che racconta delle mobilitazioni femministe che negli ultimi mesi hanno scosso le piazze di Istanbul per contestare l’intensificazione della violenza sulle donne e le politiche patriarcali imposte dal governo Erdogan. Il racconto è particolarmente significativo per due motivi: da un lato perché mostra chiaramente come uno dei pilastri del neoliberalismo autoritario turco sia l’attacco sistematico alla libertà delle donne, dall’altro perché riporta una serie di misure legislative che anche l’Italia ha recentemente accolto, con l’effetto di legittimare, qui come in Turchia, la subordinazione delle donne e la violenza crescente violenza patriarcale contro di loro. L’aumento dei femminicidi, l’attacco alla libertà di abortire, le politiche familistiche che tentano di piegare le donne al loro destino di madri, gli ostacoli posti al divorzio, l’attacco alle case delle donne e ai centri contro la violenza di cui parla questo contributo richiamano in maniera lampante quanto sta avvenendo in Italia ormai da tempo. L’attacco al diritto all’aborto sferrato dalla Lega, l’ingiunzione a procreare proveniente dal pacchetto della ministra Bonetti volto a sostenere economicamente le famiglie – non le donne – che fanno figli, la quasi impossibilità di ottenere un assegno divorzile dovuta alle infinite condizionalità poste dalla legge proposta dal PD prima della clamorosa battaglia ideologica e reazionaria di Pillon e la sostanziale inapplicabilità della 194 a causa dell’elevatissimo tasso di obiettori di coscienza sono da leggersi come un chiaro tentativo di reimporre le gerarchie sessuate e l’ordine sociale che le donne hanno messo ampiamente in discussione. In tutto il mondo il movimento dello sciopero femminista sta portando sempre più donne a contestare radicalmente – come proprio in questi giorni sta avvenendo in Ecuador – tanto le politiche neoliberali di precarizzazione e tagli alle spese sociali, quanto i tentativi di regolamentazione della loro vita attraverso leggi che ne circoscrivono la libertà. La lotta delle donne turche contro la violenza patriarcale legittimata dal governo Erdogan assume oggi ancora più importanza davanti all’offensiva militare che il presidente turco, con il lasciapassare di Trump, sta lanciando nella Siria nord-orientale, minacciando non solo le forme di autonomia e di governo politico che i curdi stanno sperimentando nella Rojava, ma anche la libertà delle donne e degli uomini turchi in generale. Di fronte a questi drammatici eventi, hanno preso avvio le discussioni per organizzare lo sciopero femminista globale dell’8 marzo anche in Turchia, mentre procede speditamente la preparazione delle mobilitazioni del 25 novembre, che vedrà le turche scendere in piazza insieme a milioni di donne in decine di Paesi contro la violenza maschile e patriarcale. Questa giornata potrà dare voce alla rabbia di chi, in Turchia, in Italia e in ogni parte del mondo, lotta quotidianamente contro la violenza politica e sociale patriarcale.
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In Turchia negli ultimi anni i diritti conquistati dalle donne sono sotto attacco. Il governo attuale sta cercando di demolire i diritti delle donne e, quando non riesce a farlo, introduce nuovi divieti o semplicemente fanno sì che esistano solo sulla carta. Nel 2012, ad esempio, il governo ha cercato di vietare l’aborto, ma ha fallito a causa della resistenza delle donne. Così ha iniziato a diffondere lo slogan «l’aborto è omicidio» e ha limitato il numero di ospedali che praticano l’aborto, rendendo impossibile esercitare questo diritto. D’altra parte, vediamo che anche se sono presenti dei meccanismi di protezione giuridica, le politiche si concentrano più sulla protezione della famiglia che della donna; le sanzioni cercano di evitare i divorzi invece di prevenire l’omicidio, impedendo la diminuzione dei femminicidi. Ecco perché la violenza maschile in Turchia non si ferma. Inoltre, non esistono statistiche sulle donne uccise. Gli ultimi dati dichiarati dal Ministro della Giustizia risalgono al 2009 e, in base a questi dati, almeno 3 donne vengono uccise ogni giorno. Sta anche aumentando la repressione contro le persone LGBTI+ e negli ultimi anni sono stati vietati i pride. Pertanto, la resistenza delle donne in Turchia contro il patriarcato non si ferma. Le donne continuano a rivendicare i loro diritti.
Il 23 agosto, la piattaforma Kadınlar Birlikte Güçlü (Donne Forti Insieme) ha organizzato una manifestazione per ricordare tre donne (#EmineNuyan, #TubaErkol, #EmineBulut) uccise dai loro ex mariti. Lo slogan principale di questa protesta era: «Noi donne vogliamo vivere! Vogliamo una vita senza violenza, senza molestie, senza minacce di morte, senza repressione. Vogliamo una vita uguale e libera»! In questa protesta, le donne hanno mostrato come il sistema istituzionale protegge il colpevole e colpevolizza le donne. Nel report, affermano che la legge 6284 e la Convenzione di Istanbul devono essere applicate il prima possibile e devono essere creati dei meccanismi di protezione.
In Turchia, dopo il colpo di Stato del 2016, medici, funzionari, professori, avvocati e politici d’opposizione sono stati licenziati attraverso la dichiarazione di stato di emergenza e un decreto-legge. Moltissime persone – studenti, giornalisti, registi e attivisti per i diritti umani – sono stati messi in carcere per aver partecipato a delle manifestazioni o aver fatto discorsi pubblici. I 148 accademici che avevano firmato un manifesto di pace che diceva «Non saremo parte di questo crimine» (riferendosi alle violazioni dei diritti umani perpetrati nel 2015 dal governo in Kurdistan) sono stati processati e multati. Centinaia di civili sono stati uccisi e fra loro ci sono donne e bambini. Le associazioni femminili sono state bandite. Nei comuni delle province curde il governo turco ha nominato degli amministratori fiduciari affinché sostituissero i «co-sindaci » dell’HDP (Halkların Demokratik Partisi). Quest’ultimo è il partito con più donne deputate al Congresso, che si spendono per i diritti delle donne e partecipano ai movimenti femministi. Sin dall’inizio nei comuni in mano all’HDP i co-sindaci (sempre un uomo e una donna) hanno denunciato i crimini perpetrati dagli amministratori fiduciari durante lo stato d’eccezione in queste città. Tutto ciò ha avuto pesanti conseguenze per il governo dell’AKP alle elezioni del 24 giugno 2019. Ancora una volta, i candidati HDP hanno vinto le elezioni nel territorio curdo. Tre mesi dopo, nei comuni curdi di Van, Diyarbakir e Mardin sono stati destituiti i sindaci di HDP e nominati degli amministratori fiduciari. Il 24 agosto, la polizia ha attaccato le donne della piattaforma Kadınlar Birlikte Güçlü che protestavano contro la destituzione dei tre sindaci: non è stato loro permesso di leggere la propria dichiarazione e 23 di loro sono state arrestate con metodi violenti, per poi essere rilasciate la notte stessa. Il loro rapporto è stato in seguito pubblicato sui social network e lo slogan principale di questa protesta è stato: «No agli amministratori fiduciari! No agli attacchi ai nostri diritti»!
Il primo cambiamento apportato dagli amministratori fiduciari nei municipi curdi è stato la chiusura delle varie unità per le donne: il dipartimento di politica delle donne, le linee di assistenza telefonica per le donne, le case delle donne, i consulenti comunali e le scuole materne. Inoltre, hanno annullato l’8 marzo come giorno festivo pagato. Gli spazi chiusi dagli amministratori hanno poi aperto le loro porte per i corsi coranici, gli uffici matrimoniali e dei parchi per picnic.
Il 25 agosto la piattaforma Kadinlar Birlikte Guclu ha organizzato una tweetstorm contro la comunità religiosa che chiede l’annullamento della Convenzione di Istanbul. Attraverso una piattaforma di «padri divorziati» stanno cercando di creare sostegno pubblico per l’annullamento della legge 6284 contro la violenza di genere, firmata nel 2012. Il dibattito si è intensificato dopo che Erdogan ha affermato, nel suo discorso del 1 giugno, che la Convenzione di Istanbul non era una priorità per la Turchia. Dopo soli due mesi, in agosto, 49 donne sono state uccise dai loro ex partner: per questo motivo crediamo che l’annullamento della Convenzione di Istanbul sia irricevibile. Sotto attacco è anche il diritto agli alimenti. Le piattaforme dei padri divorziati chiedono una modifica a proprio vantaggio della legge che disciplina questo aspetto. Di conseguenza, negli ultimi mesi è stata creata una piattaforma chiamata «Giù le mani dall’assegno di mantenimento», che ha lo scopo di sostenere le donne contro la violazione dei diritti sugli assegni di mantenimento. Un’altra recente azione statale ha visto il Ministero dell’Istruzione della Turchia cambiare la regolamentazione del piano di attività sociali nelle istituzioni educative: nel nuovo regolamento, pubblicato nella Gazzetta ufficiale dello Stato, il termine «parità di genere» è stato eliminato. Questo è un altro esempio dell’attacco nei confronti delle donne da parte del governo.
Noi donne siamo consapevoli che il governo turco, con le sue azioni e discorsi, sta favorendo l’aumento dei femminicidi invece di contrastarli. Pertanto, affermiamo ancora una volta con fermezza che i femminicidi sono omicidi politici. Ora, con la chiamata della piattaforma Kadınlar Birlikte Güçlü è stato creato un modulo per discutere lo sciopero dell’8 marzo in Turchia. Questa inchiesta è molto importante perché include le idee di voci eterogenee per pianificare un possibile sciopero futuro in Turchia. Il 28 settembre un gruppo di donne ha invaso le strade di Istanbul con lo slogan «Fermate i femminicidi ora!» per protestare contro gli omicidi delle donne: durante la protesta, 100 donne hanno letto i racconti delle vite di 100 donne uccise. Inoltre, hanno lanciato una campagna per trovarsi ogni giorno alle 20:00h fino al #25N con pentole e mestoli per rivendicare rumorosamente la fine dei femminicidi e della violenza patriarcale e per ricordare tutte le donne che non ci sono più.