di MALAK AL-SHEHRI E NASIR M. (pubblicato su Viewpoint Magazine il 6 agosto 2019)
Pubblichiamo la traduzione di alcune parti del lungo articolo di Malak al-Shehri e Nasir M., attiviste femministe saudite, apparso nel numero speciale di «Viewpoint Magazine», New Dispatches from the Feminist International. L’articolo ricostruisce attentamente la crescita del movimento femminista in Arabia Saudita negli ultimi anni, confermando la portata globale dell’insorgenza delle donne. La lotta si è in particolare diretta contro il sistema giuridico della tutela, che agisce su tutte le donne saudite, mentre le donne migranti sono soggette al il sistema kafala, che lega il contratto di soggiorno al lavoro e impone su di loro la tutela del padrone intensificando lo sfruttamento. Queste forme di controllo patriarcale si alimentano del razzismo che, mentre serve a giustificare la subordinazione sistematica attraverso la violenza sessuale nei confronti delle donne migranti, intensifica il potere di controllo patriarcale dei tutori sulle donne saudite. I social media hanno svolto un ruolo fondamentale perché questo movimento divenisse di massa, creando le condizioni perché anche le molte donne isolate dal sistema della tutela maschile potessero accedere a una vasta comunicazione politica. Dopo aver cercato di ostacolare questa comunicazione, lo Stato saudita ha duramente colpito con la repressione le esponenti più in vista del movimento, molte delle quali sono state arrestate e torturate. L’intensificazione della violenza è stata d’altra parte necessaria per cercare di soffocare il movimento e legittimare contemporaneamente il processo di riforme neoliberali che ha seguito l’ascesa al trono del principe ereditario Mohammad bin Salman. Nonostante le difficoltà, il movimento femminista in Arabia saudita è riuscito non solo a sopravvivere, ma anche a ottenere lo smantellamento del sistema di tutele formali e importanti modifiche di diritto civile e sul lavoro. Questo è un passaggio che apre nuovi percorsi e nuovi spazi di lotta, nella consapevolezza che «il movimento non può semplicemente fermarsi qui».
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Nel luglio 2016, numerose attiviste saudite per i diritti delle donne hanno lanciato una campagna per sostenere la fine del sistema della tutela maschile. Questo sistema in Arabia Saudita descrive un insieme di leggi che mettono le donne nella posizione di minori a vita, facendo determinare tutte le loro scelte di vita da un parente maschio che può essere il padre, il marito, il fratello, lo zio o persino il figlio. Non era il primo appello di questo tipo a essere lanciato, ma stavolta gli effetti sono stati diversi.
Il lancio dell’appello è stato coordinato con l’uscita del rapporto di Human Rights Watch, Boxed In: Women and Saudi Arabia Saudita’s Male Guardianship System, con lo slogan «Insieme ci solleviamo per mettere fine alla tutela maschile sulle donne» (#معًا_لإنهاء_ولاية_الرجل_على_المرأة). Nessuno si aspettava quel che questa chiamata avrebbe rapidamente scatenato: il primo movimento femminista di massa dell’Arabia Saudita. Il movimento, che ha rapidamente investito il paese, ha sostituito lo slogan che le attiviste avevano precedentemente scelto per la loro campagna con uno molto più radicale: «Le donne saudite pretendono la sovversione della tutela» (#سعوديات_نطالب_بإسقاط_الولاية). Per tenere il suo slancio e mantenerlo di tendenza su Twitter, l’hashtag sarebbe stato seguito dal numero di giorni dall’inizio del nuovo movimento. Al momento dell’inizio della stesura di questo articolo siamo a 1.085 giorni.
Per due anni è sembrato che il movimento potesse solo aumentare il proprio slancio. In un processo collettivo di autocoscienza di massa per sviluppare una comprensione pienamente articolata delle diverse posizioni sociali delle donne, esso sembrava poter diventare solo più radicale. Migliaia di donne si esprimevano – a volte pubblicamente, ma più spesso in forma anonima – sulle loro lotte personali all’interno della famiglia, della comunità e contro il sistema giuridico.
Gli arresti delle attiviste più in vista, tra cui una delle autrici di questo pezzo, per aver messo pubblicamente in discussione, tra le altre questioni, il buon costume legale e sociale hanno suscitato massicce campagne di solidarietà sui social media che hanno portato al loro rilascio. Tuttavia, la prima grande vittoria del movimento è stata preceduta dalla sua prima grande battuta d’arresto. Il 15 maggio 2018, quasi un mese prima che il famigerato divieto di guida per le donne venisse revocato, le attiviste più note del movimento sono state radunate e fermate dalla neonata Presidenza della Sicurezza di Stato. Nei mesi successivi, molte altre sono state arrestate e ancora più numerose sono state quelle colpite dal divieto di viaggiare. […]
Prima della Nuova era
Dal punto di vista giuridico, il controllo e la regolamentazione della vita delle donne inizia molto presto: le ragazze e le donne in tutte le fasi dell’istruzione (elementare, media, secondaria e universitaria) non possono lasciare il campus scolastico prima dell’arrivo del loro tutore maschio previamente autorizzato a prelevarle. Le ragazze devono aspettare all’interno del campus, dal momento che il custode della scuola, un uomo, chiama i nomi dei loro padri attraverso un megafono in ordine di arrivo.
La realtà pratica di quest’ordine non è solo un inconveniente quotidiano, ma può essere letteralmente una prassi omicida. Il caso più tristemente noto è l’incendio del 2002 in una scuola femminile alla Mecca, in cui dodici ragazze sono morte quando la polizia religiosa non ha permesso loro di lasciare la scuola a capo scoperto. L’ultimo caso noto si è verificato il 2 luglio di quest’anno, quando una ragazza del college è svenuta ad Ha’il, e ai primi soccorritori non è stato permesso di intervenire perché erano uomini; è morta senza ricevere le cure necessarie.
Inoltre, le donne non sono legalmente autorizzate ad andare all’università, trovare lavoro, vivere fuori casa, aprire un conto corrente bancario, ottenere una carta d’identità, ottenere un passaporto, viaggiare all’estero o addirittura lasciare la prigione senza l’autorizzazione scritta del loro tutore maschio. Le donne ‘indesiderabili’ o ‘disobbedienti’, e le donne che sfuggono agli abusi e rifiutano di tornare a vivere sotto la tutela dell’uomo che le ha maltrattate o di un altro tutore, devono vivere in detenzione a tempo indeterminato sotto la custodia dello Stato nelle cosiddette ‘Case di assistenza’[1].
Ma è anche peggio di così: tutte le operazioni mediche relative agli organi riproduttivi delle donne, compreso il trattamento del cancro al collo dell’utero, devono essere approvate da un tutore maschio. […] Questa restrizione, nei suoi effetti quotidiani, si traduce nella discrezione dei tutori sulla vita delle loro donne. Questo finisce per differenziare la condizione specifica delle donne saudite in tutto il Regno, poiché le diverse norme sociali, le tendenze politiche dominanti, le diverse affiliazioni tribali (o la loro mancanza), insieme alla geografia fisica urbana e rurale pongono limiti differenziati in ambiti quali i codici di abbigliamento, l’accesso al mercato del lavoro e la mobilità. […]
Questi limiti, naturalmente, sono sempre inseriti in un processo fatto di battaglie individuali e collettive, tanto da parte del ‘tutore’ quanto da quella della ‘tutelata’, con nuovi spazi di lotta che si aprono contestualmente ad ampi cambiamenti sociali. Ad esempio, con l’aumento del costo della vita a partire dagli anni ’90, la famiglia monoreddito è diventata gradualmente una condizione insostenibile. Questo ha portato un numero crescente di donne, nubili e sposate, a entrare nel mercato del lavoro, prima nell’istruzione e nella sanità, poi nei lavori dirigenziali e in seguito come lavoratrici al dettaglio a basso salario, per poter sostenere le spese familiari. Il semplice fatto di avere una fonte di reddito indipendente non è stata causa diretta di liberazione. Per alcune, è stata la base per ulteriori restrizioni e limitazioni. […] Il risultato di questo cambiamento nel rapporto delle donne con il mercato del lavoro non è stato un miglioramento diretto, ma l’apertura di spazi per nuove lotte.
Sia nelle scuole femminili che in quelle maschili, viene esplicitamente insegnato che la posizione sociale delle donne è quella della vita domestica e della subordinazione. Alle ragazze durante i loro dodici anni di istruzione vengono impartite lezioni di ‘pulizie domestiche’, prima denominate lezioni di ‘femminilità’, e fino a poco tempo fa non potevano fare educazione fisica. Tanto ai ragazzi quanto alle ragazze viene insegnato nelle classi di educazione islamica che picchiare la moglie, «entro i limiti della giurisprudenza islamica», è una punizione adeguata per la sua disobbedienza (in cui ricade anche il rifiuto di fare sesso), e questa norma è rimasta in vigore anche dopo l’approvazione nel 2013 di una legge che criminalizza gli abusi domestici, dopo anni di campagne femministe.
Mentre il sistema della tutela maschile lascia ai tutori discrezionalità su come regolare la vita delle loro donne, per le donne migranti che vivono nel paese senza un parente maschio è il sistema kafala a svolgere questo ruolo: si tratta di un sistema di sponsorship del permesso di lavoro utilizzato in tutti i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), in base al quale tutti i lavoratori e le lavoratrici migranti «devono avere il loro ingresso e l’occupazione sponsorizzati da un cittadino [saudita]»[2]. In Arabia Saudita il sistema kafala nella sua forma attuale si è affermato dopo la riforma statale del mercato del lavoro a seguito dei boom petroliferi e di una serie di lotte sindacali e politiche. […]
L’uso della forza lavoro locale non era un’opzione praticabile, poiché «andava contro la logica dello stato sociale modernista che avrebbe dovuto tirare la popolazione locale fuori dalla terribile situazione economica in cui si trovava prima dei guadagni inattesi delle entrate petrolifere»[3]. Non lo era nemmeno l’importazione di lavoratori arabi, che avevano storicamente svolto un ruolo vitale nelle lotte sul lavoro e politiche nel Golfo e che erano sempre più visti come elementi potenzialmente sovversivi. L’importazione di manodopera non araba, privata dei diritti politici e del lavoro, fu la via intrapresa dagli Stati del Golfo.
Questa via ha gradualmente portato a un mercato del lavoro in cui i lavoratori migranti occupano la grande maggioranza dei posti di lavoro a basso salario nel settore privato, mentre i sauditi lavorano nel settore pubblico in espansione, nelle posizioni a salario più alto. Con questo sistema, lo Stato concede ai cittadini la possibilità di rilasciare permessi di lavoro, conferendo al kafeel (sponsor) un enorme controllo sulle vite dei lavoratori sponsorizzati, proprio per i limitati diritti di residenza e mobilità di questi ultimi. Messo in atto per la prima volta dalle autorità coloniali britanniche nel Golfo, il sistema di kafala consente pratiche vergognose, talmente diffuse da essere sistemiche, come la confisca dei passaporti e il lavoro senza retribuzione per mesi[4]. Queste pratiche sono ulteriormente aggravate per le donne migranti, specialmente le lavoratrici domestiche, il cui impiego al servizio dalla classe media saudita in espansione è in costante crescita.
Mentre la maggior parte degli uomini e delle donne migranti non impiegata nel lavoro domestico ha accesso a reti di solidarietà (con altri lavoratori e lavoratrici migranti) e alle ambasciate dei paesi di origine per ridurre e combattere queste pratiche, le lavoratrici domestiche tendono a essere isolate nelle case della famiglia del loro sponsor, laddove vivono. I lavoratori e le lavoratrici migranti, in generale, possono essere costretti a lavorare ore extra senza retribuzione, ma la giornata lavorativa delle lavoratrici domestiche non ha limiti; inizia e finisce nella piena discrezione della famiglia presso cui sono a servizio. Anche le loro mansioni sono illimitate, a prescindere da ciò che dice il contratto di lavoro. Ancora una volta, a differenza della maggior parte dei lavoratori migranti che possono – e lo fanno – scioperare contro i mesi di lavoro non retribuito, le lavoratrici domestiche migranti non possono opporre resistenza senza rischiare ulteriori abusi.
A differenza delle donne saudite, che in certe situazioni potrebbero contare su relazioni familiari e comunitarie estese per alleviare i loro problemi, le donne migranti hanno a malapena un qualche potere di negoziazione per proteggersi dagli abusi. Queste gravi condizioni spesso hanno solo soluzioni drastiche. Una è quella di fuggire dalla famiglia – a volte rischiando la propria vita per farlo – e vivere senza documenti in un paese che ha già opportunità limitate per le donne sul mercato del lavoro. Tuttavia, in troppi casi, l’unica via d’uscita è il suicidio.
Per essere chiare, mentre tutte le donne lavoratrici migranti sono teoricamente soggette allo stesso sistema, vi è una stratificazione molto netta nella sua applicazione concreta. Le donne migranti di classe agiata (prevalentemente) americane ed europee – che lavorano nei campi dell’istruzione superiore, medico o dell’industria petrolifera – tendono a vivere in campi di espatriati (cioè comunità chiuse) dove non si applicano nemmeno le leggi sotto le quali le donne saudite devono vivere. In questa nuova divisione del lavoro e riorganizzazione del mercato del lavoro, nuovi processi di razzializzazione vengono attuati. Il loro impatto più grave si vede nell’applicazione della pena di morte. Secondo un rapporto di Reprieve, dall’inizio del 2014 fino alla metà del 2017, il 36% delle 438 condanne a morte complessive sono state pronunciate contro stranieri/e, percentuale che sale al 40% se si esclude l’esecuzione di massa nel 2016 di 47 uomini con l’accusa di terrorismo. Solo nel 2017, il 23% dei condannati a morte per reati di droga erano di nazionalità pakistana, che rappresenta non più del 6% della popolazione.
Inoltre, una o due donne sono state giustiziate per stregoneria nel lasso di tempo di qualche anno. Se le esecuzioni per stregoneria sono rare, questa accusa è spesso più che altro un cliché razzista che permette di sorvegliare le lavoratrici domestiche asiatiche e africane. A differenza delle donne saudite, la castità delle donne migranti non saudite non viene presupposta e la loro sessualità non viene regolata. Le donne migranti asiatiche e africane impiegate in lavori a basso salario sono razzialmente rappresentate come sessualmente indesiderabili e promiscue, il che è comunemente usato per giustificare la violenza sessuale contro di loro. Un uomo saudita, dopo tutto, non avrebbe rapporti sessuali con una migrante asiatica o africana, a meno che non sia vittima della sua stregoneria o ‘manipolazione’.
D’altro canto, le rappresentazioni razziste della pericolosità degli uomini migranti asiatici e africani, visti come predatori sessuali della casta donna saudita, sono state usate sia come pretesto per controllare la loro presenza nel paese, sia per giustificare la negazione dei loro diritti economici o politici, sia per respingere le richieste di uguaglianza di genere. Se le donne saudite dovessero guidare o uscire di casa a loro piacimento, senza un tutore maschio, chi le proteggerebbe dai predatori sessuali che potrebbero violentarle o ‘manipolarle’ per approfittarne sessualmente? Simultaneamente, razzismo e misoginia si rafforzano a vicenda, proclamando lo status sub-umano di tutte le donne e di tutte le popolazioni razializzate – tutte poste sotto il controllo dell’uomo saudita. […]
Le donne saudite pretendono la sovversione del sistema di tutela maschile
Quando la campagna è stata lanciata per la prima volta, nessuno avrebbe pensato che si sarebbe trasformata in un movimento di massa. Ciò che ha contraddistinto questa campagna, o meglio, ciò che l’ha resa un movimento, è la sua differente composizione rispetto alle campagne precedenti, portate avanti da donne relativamente privilegiate. Quasi tutte o avevano abbastanza soldi per possedere un’auto propria, o avevano un tutore che permetteva loro di usare l’auto per contestare la legge. Questa volta invece si è trattato di un movimento composto principalmente da donne con pochissimi o nessun privilegio, per alcune delle quali, come ha osservato un’attivista femminista attualmente in carcere, «l’unico spazio di autonomia dalle loro famiglie era un account Twitter anonimo».
È stato un movimento in cui migliaia di donne hanno parlato tra loro, online, delle proprie lotte personali, creando circuiti femministi locali e reti di solidarietà molto più ampie in tutto il paese. Il movimento è stato decentralizzato, ma non senza leader. Le attiviste veterane come Azizah al-Yousef e Loujain al-Hathloul sono state capaci di dirigere perlomeno il discorso del movimento, solo in parte grazie alla loro posizione privilegiata.
Tuttavia, la loro è una leadership basata sul riconoscimento del fatto che hanno agito solo per conto delle donne senza privilegi. Come ha detto la stessa Loujain: «sono una donna che ha privilegi familiari e di classe, ma non dimenticherò la sofferenza delle ragazze che non hanno lo spazio di azione individuale che ho io. È mio dovere usare i miei privilegi affinché tutte le donne del mio paese ottengano i loro diritti». Il movimento ha anche prodotto un nuovo gruppo di leader, alcune con identità note, molte altre anonime. Questi circuiti e reti hanno lavorato per stabilire piattaforme di autocoscienza, discutendo e fornendo informazioni su temi quali la salute sessuale, un argomento di cui si parla difficilmente in modo aperto; l’opposizione a tutte le forme di body shaming; il matrimonio di minori (che è ancora legale nel paese); relazioni nocive, coniugali ed extraconiugali; abusi domestici; abusi medici, come l’eccessivo tasso di cesarei e la prassi dell’episiotomia [l’incisione della vagina per facilitare il parto] senza consenso informato; il razzismo, le apolidi saudite, l’abolizione del sistema basato sulla kafala come richiesta femminista centrale; la Palestina e perché è importante per noi in quanto femministe; la sessualità e le diverse espressioni di genere; l’impegno continuo per tradurre la letteratura femminista in arabo – e la lista continua.
Presto questi circoli e reti sono diventati una base di sostegno reciproco. Le saudite residenti all’estero possono inviare contraccettivi e pillole abortive nel paese, inaccessibili in particolare per le donne non sposate. L’occasione del #MeToo ha immediatamente preso piede, con denunce dei molestatori sessuali sui luoghi di lavoro, per strada, tra personalità pubbliche e persino tra gli uomini all’interno del movimento stesso. […] Gli attivisti non sono stati gli unici a essere colti di sorpresa. Lo Stato, che si è appoggiato sulla famiglia come apparato per tenere sotto controllo le donne, non aveva idea di come affrontare questo movimento.
La situazione è sfuggita di mano soprattutto quando diverse ragazze […] hanno tentato di fuggire dal paese, che era ed è tuttora forse l’unica via percorribile, anche se piuttosto pericolosa, per scappare da una famiglia violenta. Lo Stato, per conto delle famiglie violente, ha tentato di farle tornare a casa invalidando i loro passaporti e cercando di estradarle, a volte con successo. Ad ogni modo, ognuno dei casi ha causato uno scandalo internazionale, soprattutto da quando il nuovo giovane principe ereditario Mohammad bin Salman è salito al potere con promesse di liberalizzazione sociale e neoliberalizzazione economica, con quest’ultima che ha creato alte aspettative per il capitale internazionale. Effettivamente il principe ha attuato alcune riforme, ma, come da tradizione, non si sono avvicinate a quanto richiesto dal movimento: alle donne sarà permesso guidare, e l’approvazione del tutore maschio non sarà più necessaria per lavorare, andare a scuola e per le operazioni ginecologiche, tra le altre cose. Questa tanto attesa quanto limitata vittoria è stata, tuttavia, una vittoria amara.
Mentre tutte noi festeggiavamo, le attiviste più note del movimento sono rimaste in silenzio. È diventato subito chiaro che tutte avevano ricevuto chiamate dalla Sicurezza di Stato che intimava loro di astenersi da qualsiasi forma di festeggiamento o commento pubblico. Ciò per cui avevano combattuto a lungo doveva essere accreditato unicamente al principe ereditario. Eravamo pienamente consapevoli dei limiti di queste riforme. Ciò che esse hanno stabilito consiste principalmente nell’aumentare la discrezionalità del tutore. Una donna potrebbe teoricamente ottenere un lavoro, andare al college, guidare un’auto, richiedere (ma non ricevere) un passaporto, senza la sua approvazione, ma poiché in realtà deve ancora vivere sotto il suo tetto, questo non accade. Per essere più chiare, le riforme hanno apportato un grande cambiamento, che non può essere sottovalutato, ma solo per le donne in qualche modo economicamente privilegiate con guardiani già indulgenti[5]. Tuttavia, eravamo fiduciose, poiché questo passaggio apriva nuovi campi di lotta.
Sicuramente l’atmosfera politica era tesa, o meglio: il paese stava attraversando un livello di repressione politica storicamente senza precedenti, in termini di dimensioni e di durezza, soprattutto dopo l’ascesa al potere del nuovo principe ereditario. Dal 2015 si sono verificate numerose ondate di arresti politici di massa e persino di esecuzioni di massa. Lo Stato non si accontentava più di mettere a tacere le critiche – è stato posto in essere un nuovo processo di istinṭāq (per costringere a parlare): chi non fosse costantemente e adeguatamente lusinghiera nei confronti del principe ereditario e della sua Visione 2030 rischiava la persecuzione. Il Ministero dell’Interno ha lanciato un’app chiamata Kollona Amn (Siamo tutti della polizia), una piattaforma per la repressione politica e la sorveglianza quotidiana su larga scala, generata dagli utenti, che è ancora disponibile negli app store. Per dare un assaggio della loro missione, il loro ultimo tweet al momento della stesura di questo articolo recita: «Sii tu il primo poliziotto, e contribuisci alla difesa della tua patria… segnalando chi supporta e diffonde idee devianti sui social media».
La repressione del movimento femminista non era, tuttavia, un compito facile. Almeno dal 2011, lo Stato ha sviluppato la sua capacità di sorvegliare i social media. Twitter non è stato un problema di poco conto da regolamentare, soprattutto in una situazione in cui la maggior parte degli utenti non ha alcuna informazione di identificazione pubblica. Nel 2016, il governo saudita ha fondato il Centro di guerra ideologica sotto il Ministero della Difesa. La sua funzione, tuttavia, era fondamentalmente quella di catturare i social media attraverso un esercito elettronico di migliaia di account Twitter gestiti da persone reali. Lo Stato non solo è arrivato ad avere un controllo praticamente assoluto su cosa diventa di tendenza, ma ha lanciato una massiccia campagna di controllo della cronologia dei tweet degli utenti, per arrestarli su questa base. A metà del 2018, si è verificato lo scenario peggiore possibile. Molte e molti fra gli attivisti più in vista del movimento sono stati arrestati […]. Molte altre e molti altri sono stati convocati, interrogati e posti sotto il divieto di viaggiare.
Ciò che ha provocato gli arresti sembrava essere stata una richiesta formale presentata da molte donne per creare un rifugio per le vittime di abusi domestici, ma che si trattasse di un attacco al movimento nel suo complesso è indiscutibile. Nel giro di pochi giorni, i media controllati dallo Stato e il suo esercito elettronico le hanno etichettate come ‘traditrici’ e ‘agenti delle ambasciate’. Per mesi sono state tenute in isolamento, ma dopo che […] alcune notizie sono infine trapelate, abbiamo appreso degli orrori che hanno vissuto. La maggior parte di loro è stata sottoposta a torture fisiche e psicologiche di tutti i tipi. Alcune, per questo motivo, hanno tentato il suicidio. La situazione era terribile.
I mezzi di comunicazione statali attaccavano e cercavano costantemente di screditare il movimento, equiparando in maniera ridicola le femministe e le donne che sfuggono agli abusi domestici all’ISIS perché «entrambi danneggiano la patria»: l’ISIS con omicidi di massa, le prime danneggiando la sua reputazione. Avendo ricevuto un colpo così grave, con la maggior parte dei suoi nomi di spicco messi a tacere o scomparsi, sembrava che il movimento fosse in procinto di morire. Ogni tanto, tuttavia, una nuova ondata di attività si è verificata intorno a una questione specifica. Nel marzo 2019, dopo mesi in cui le attiviste saudite per i diritti umani in esilio hanno fatto campagne per il loro rilascio, Azizah al-Yousef, Eman al-Nafjan e Hatoon al-Fassi sono state temporaneamente rilasciate, in attesa di processo. Il figlio di Azizah, Salah, ha condiviso un selfie in cui si ritrae insieme alla madre, sorridente dopo il suo rilascio.
L’immagine è ampiamente circolata, diventando fonte di incoraggiamento e di nuova speranza, ma non troppo a lungo. Salah sarebbe stato tra la dozzina di attivisti arrestati il mese successivo. Questa volta erano per lo più uomini, insieme ad un paio di donne impegnate nella produzione intellettuale progressista in Arabia Saudita. […] In relazione alle cause alla base dei loro arresti, crediamo che sia stata la loro associazione al movimento femminista, dal momento che l’arresto degli uomini tende a non attirare lo sguardo internazionale, anche se due di loro sono cittadini americani; oppure il loro sostegno di lunga data della causa palestinese, che ha offerto la liberazione nazionale come spiegazione alternativa certamente progressista alla vecchia e fallita narrazione del conflitto religioso musulmano-ebraico dello Stato saudita. Il loro sostegno alla causa diviene problematico dal momento lo Stato insegue l’Accordo del secolo di Trump. Oppure, potrebbero essere entrambe le cose, poiché le due cause in Arabia Saudita il più delle volte sono intrecciate[6].
Alcune donne che hanno recentemente acquistato un certo status, tra cui alcune esponenti del Consiglio di Shura, l’organo legislativo senza poteri del Regno, hanno guidato l’esercito elettronico in una feroce campagna contro il femminismo e le femministe. Le basi per i loro attacchi sono cambiate periodicamente: hanno lanciato di tutto contro di noi per vedere che cosa avrebbe avuto effetto. All’inizio, usando vecchi cliché misogini, definivano il femminismo un movimento per donne malate di mente, aggiungendo che c’è una differenza tra i diritti delle donne e il femminismo, basandosi quest’ultimo sull’odio verso gli uomini. Alcune hanno affermato che le donne che pensano di essere discriminate hanno semplicemente ‘personalità deboli’ e dovrebbero prendersela solo con se stesse. Alla fine, hanno scelto di riposizionarsi come le vere femministe, a differenza di quelle che hanno iniziato a chiamare le traditrici e le ‘intersezionaliste’.
Quello che all’inizio sembrava uno sforzo disperato per deviare il movimento, più recentemente si è rivelato parte di un più ampio tentativo di costringere tutte coloro che sono andate via all’accondiscendenza. Lo stanno facendo trovando e ‘rivelando’ informazioni private e foto di donne di spicco che gestiscono importanti account anonimi femministi. Molte di queste donne gestiscono questi profili senza che i loro tutori ne siano a conoscenza e tale esposizione le mette in condizioni di rischio personale. Di conseguenza, diversi account Twitter con decine di migliaia di follower sono stati disattivati per paura di rappresaglie.
Una vittoria e un nuovo inizio
Al momento della stesura di questo articolo, non ci aspettavamo che la principale istanza del movimento sarebbe stata conquistata così presto: il 2 agosto 2019, 1.114 giorni dall’inizio del movimento, il fulcro delle leggi sulla tutela maschile è stato abolito. Questa vittoria è arrivata sotto forma di modifiche allo stato civile, ai documenti di viaggio e alle leggi sul lavoro: il ‘capofamiglia’ è stato ridefinito come padre e madre, e le ‘donne non sposate’ sono state rimosse dalla definizione di minori; le donne adulte possono ottenere il passaporto e viaggiare senza il permesso del tutore; le donne sposate non sono più obbligate a vivere con il marito; l’articolo contro la discriminazione sul lavoro è stato riscritto per vietare ogni forma di discriminazione basata sul sesso nel mercato del lavoro (e questo potrebbe aprire nuovi settori dell’economia alla partecipazione delle donne). […]
Abbiamo ancora molta strada da fare. Il nucleo centrale delle leggi sulla tutela maschile è stato abolito, ma il sistema non è stato completamente smantellato. I padri hanno ancora la tutela sul matrimonio; il matrimonio di minori è ancora legale; non è chiaro cosa accadrà alle ‘Case di assistenza’; il sistema kafala rimane in vigore; lo stupro coniugale e la violenza domestica continuano a essere legali. Inoltre, non sembra esserci alcuna intenzione di porre in essere meccanismi istituzionali per far rispettare anche le modifiche di legge apportate. In particolare, le amiche e compagne attiviste, insieme agli amici e compagni attivisti, continuano a restare in carcere o in attesa di processo. Il movimento non può semplicemente fermarsi qui.
Il movimento femminista è stato il risultato di una combinazione di lotte portate avanti da donne con privilegi, che hanno combattuto contro le complessive costrizioni dei sistemi giuridici, e lotte di massa personali o localizzate condotte da donne senza alcun privilegio, le cui vite sono state una lotta politica contro le molteplici manifestazioni di relazioni sociali oppressive e di sfruttamento. Poiché questo movimento si è fondato sulla necessità di cambiare il quotidiano, sappiamo che le riforme giuridiche, per quanto significative, non sono sufficienti.
Dal momento che questo è stato il primo movimento sociale del paese che ha consapevolmente spezzato le divisioni tribali, settarie e regionaliste che caratterizzano la maggior parte delle correnti politiche del paese, esso può essere definito il primo movimento sociale di massa di dimensioni nazionali in Arabia Saudita. Questo aspetto gli conferisce un potenziale largamente (ancora) inesplorato e lo costringe ad affrontare ostacoli che nessun altro movimento ha dovuto affrontare: la creazione di un’infrastruttura sociale a livello nazionale di coordinamento, organizzazione e mobilitazione. Il movimento, ci auguriamo, è solo nei suoi primi anni di vita.
[1] Le Case di assistenza (abbreviazione di Case di assistenza sociale) servono principalmente come carceri per donne ‘indisciplinate’, ‘indesiderabili’ o ‘moralmente dissolute’ sotto i 30 anni, che include servizi di ‘riabilitazione’ forzata. Le donne oltre i 30 anni vengono trasferite in quelle che vengono chiamate ‘Case di ospitalità’. Secondo i resoconti delle donne che se ne sono andate, l’abuso sistematico include la fustigazione settimanale di ‘routine’, la reclusione in isolamento e la coercizione a stare lunghe ore in piedi. Alle donne imprigionate viene negato l’accesso a dispositivi elettronici o a qualsiasi forma di intrattenimento. Ci sono stati diversi casi di donne imprigionate in fuga che hanno guadagnato l’attenzione nazionale e successivamente internazionale, soprattutto grazie al lavoro delle donne attive nel movimento. Alcune fra le prime vittorie del movimento si sono realizzate proprio nell’impedire il loro ritorno in carcere.
[2] Mohammed Dito, “Kafala: Foundations of Migrant Exclusion in GCC Labour Markets,” in Transit States: Labour, Migration and Citizenship in the Gulf, ed. Abdulhadi Khalaf et al. (London: Pluto Press, 2015), Kindle Edition, 1719.
[3] AlShihabi, “Histories of Migration,” 375.
[4] Molti lavoratori migranti restano bloccati in lavori che non vogliono, poiché il passaggio a un altro lavoro richiede un trasferimento di sponsorizzazione che deve essere approvato dal kafeel. Neanche il ritorno a casa è una possibilità, poiché «più di tre quarti dei lavoratori espatriati hanno accumulato debiti prima del viaggio e dell’assunzione» e questa condizione di schiavitù del debito «limita il potere di contrattazione dei lavoratori oltre i termini del contratto ufficiale di lavoro». Vedi Dito, “Kafala: Foundations of Migrant Exclusion in GCC Labour Markets.”
[5] Prima che il divieto fosse revocato, sono stati introdotti diversi nuovi requisiti per ottenere la patente di guida, che ora costa quasi quanto il reddito medio mensile di una famiglia.
[6] Quasi tutte le attiviste menzionate in questo articolo, ad esempio, sono conosciute per il loro impegno femminista e a favore della causa palestinese.