di TRANSNATIONAL SOCIAL STRIKE PLATFORM
→ English
Dal 28 al 30 giugno a Tbilisi (Georgia) si è tenuto il settimo meeting della Piattaforma dello Sciopero Sociale Transnazionale, organizzato grazie al supporto del sindacato indipendente ‘Solidarity Network’. Con questo meeting, per la prima volta, la Piattaforma è uscita dai confini dell’Unione Europea. A Tbilisi ci siamo scontrati con nuove domande e nuove sfide che la lotta transnazionale ci pone. Nei giorni del meeting, Tbilisi era attraversata da proteste contro il governo e contro le sue presunte posizioni filorusse. L’opposizione dei manifestanti alla Russia ricordava in qualche modo le recenti proteste in Ucraina, e l’abbondante presenza di bandiere europee, ma anche americane, lasciava chiaramente intendere quali fossero le alleanze internazionali che sostenevano. Concentrare l’attenzione sull’ostilità alla Russia non ha permesso alle proteste di affrontare direttamente i gravi problemi sociali e lavorativi che investono il paese. Eppure, questa situazione di tensione è indicativa di una decisiva trasformazione in atto. La posizione geopolitica della Georgia per quanto riguarda gli accordi commerciali e i progetti infrastrutturali, le deviazioni dei canali di esportazione e importazione delle risorse naturali, un nuovo regime dei permessi per i migranti e l’accordo sulle migrazioni con l’UE, tutto questo dice che, mentre la Georgia si fa sempre più vicina all’UE, il paese è investito da processi transnazionali che sembrano non lasciare altra possibilità ai movimenti di opposizione se non il conflitto sulla posizione più favorevole che il paese può ricoprire nello scacchiere internazionale. La retorica incentrata sullo sviluppo nazionale e sulla competizione geopolitica nasconde tuttavia una realtà di mobilità transnazionale e di sfruttamento.
In questa situazione confusa, ancora carica di una retorica antisovietica, l’UE finisce in qualche modo per rappresentare una promessa di libertà e le bandiere dell’UE vengono sventolate in quanto portatrici di cambiamento. Durante tutto il meeting – a cui hanno partecipato conducenti, bigliettaie e controllori della metropolitana, operatrici sociali, lavoratrici del welfare e infermiere – abbiamo affrontato il problema centrale degli effetti reali del processo di integrazione. Cosa significa avvicinarsi all’UE e qual è il costo dei recenti accordi con l’UE per chi vive in Georgia? Come cambia l’immagine che l’UE ha fuori dai suoi confini se partiamo dall’esperienza di chi nell’UE ci vive? A partire dagli scioperi e dalle lotte a cui abbiamo preso parte e che abbiamo sostenuto, come quelle dei lavoratori e delle lavoratrici Amazon, delle infermiere in Bulgaria, dei portuali in Svezia, dei e delle migranti in Italia, e dallo sciopero globale delle donne, abbiamo discusso insieme cosa sia realmente l’Europa ‘vista da dentro’ – dal punto di vista dei lavoratori e delle lavoratrici, precari e precarie, migranti e non-migranti. In che modo le trasformazioni transnazionali e geopolitiche stanno cambiando le condizioni della messa al lavoro? È possibile usare questa promessa di libertà in qualche modo suscitata dall’Europa come leva per conquistare un reale potere per lavoratori e lavoratrici? Com’è emerso durante il meeting, queste domande hanno un contesto e una storia specifica in Georgia, ma interpellano tutte e tutti coloro che si chiedono come si possa condurre una lotta transnazionale oltre l’alternativa tra europeismo e antieuropeismo.
Confrontando l’UE ‘vista da dentro’ con l’UE ‘vista da fuori’ siamo arrivati a due conclusioni, entrambe significative tanto per i vecchi, quanto per i nuovi membri della TSS Platform. La prima è stata espressa sinteticamente da uno dei lavoratori della metropolitana, membro di Ertoba2013 (‘Unità2013’), un sindacato indipendente di Tbilisi: «ci dicono che il nostro problema è che siamo sottosviluppati, ma questa accusa non prende in considerazione che cosa significhi davvero sviluppo». L’Europa non è un paradiso fatto di diritti dei lavoratori e di democrazia, come dicono i sostenitori dell’Association Agreement fra UE e Georgia, ma è basata su sfruttamento, repressione e razzismo istituzionale. Rendere la Georgia un ambiente business-friendly (favorevole agli affari) significa produrre le condizioni più propizie per ottenere manodopera a basso costo e massimizzare i profitti. Dalla discussione è emerso chiaramente che i paesi europei stanno tutti attraversando processi comuni: riforme del lavoro e del welfare – come la Loi Travail e le ordonnances di Macron in Francia, il Jobs Act in Italia, la ‘slave-law’ in Ungheria, il divieto di sciopero in Svezia, Hartz IV in Germania, Loi Peteers in Belgio – sono parte di un disegno comune finalizzato a intensificare il comando sul lavoro, smantellare ulteriormente i sistemi di welfare, ed estendere la precarizzazione del lavoro e delle condizioni di vita. È ormai chiaro, come ha dichiarato una delle donne che hanno organizzato la manifestazione dell’8 marzo a Tbilisi, che «la Georgia non è un’eccezione, e questo è sia una fortuna che una sfortuna». Una sfortuna, perché significa che l’UE non è la terra promessa che pretende di apparire; una fortuna, perché questo significa che è possibile superare l’isolamento, che c’è lo spazio per una connessione transnazionale delle lotte.
In secondo luogo, siamo giunti alla conclusione che il progetto dell’UE di trasformare la Georgia e altri paesi confinanti in luoghi in cui la forza-lavoro sia passiva e disponibile allo sfruttamento, tanto a livello nazionale quanto all’estero, è destinato a fallire a causa della forte presenza di nuove esperienze di organizzazione e di lotta di donne e uomini che non accettano di diventare ulteriori tasselli nella fabbrica neoliberale europea. L’incontro si è aperto con la presentazione dello sciopero dei lavoratori della metropolitana, fatta dal segretario di “Ertoba2013”. Grazie a uno sciopero della fame, che ha seriamente compromesso la loro salute impedendo loro di lavorare, i conducenti della metropolitana hanno aggirato con successo il divieto legale di scioperare. Così le loro richieste – retribuzione degli straordinari, indennità notturna e giorni aggiuntivi di vacanza – sono state tutte conquistate. Si è trattato del primo sciopero dei lavoratori della metropolitana nella regione transcaucasica, che ha avuto luogo nonostante l’impossibilità formale di scioperare: la sua efficacia ha convinto altri lavoratori dell’azienda a lottare e ha ottenuto un ampio sostegno dal pubblico, rinvigorendo la capacità di lotta del sindacato e la fiducia riposta in esso. Il racconto di questa esperienza di lotta ha sollevato una discussione su che cosa significhi aggirare le limitazioni della possibilità di scioperare. Negli scioperi e nelle proteste nei magazzini di Amazon in Polonia, la limitazione allo sciopero consiste non solo in una severa legislazione che regola il diritto di sciopero, che richiede un voto in tutti i magazzini polacchi per poter dichiarare legalmente di scioperare. Essa significa anche che Amazon assume tramite agenzie interinali molti lavoratori che non sono sindacalizzati e possono essere licenziati al primo segno di insubordinazione. Inoltre, a causa della struttura transnazionale dell’azienda, i lavoratori polacchi vengono utilizzati come una massa di ‘crumiri involontari’ quando i lavoratori tedeschi decidono di scioperare, perché, in caso di interruzione del lavoro in Germania, Amazon assicura che la distribuzione in tutto il mercato tedesco continui normalmente, con l’unica differenza che ciò avviene grazie al lavoro svolto oltre il confine. Proprio per questa ragione abbiamo sottolineato l’importanza degli incontri degli anni scorsi tra i lavoratori di Amazon provenienti da diversi paesi europei, che si sono rivelati più efficaci delle diverse reti sindacali internazionali esistenti, poiché hanno affrontato il problema non semplicemente nei termini di come costruire collegamenti tra strutture, ma di come iniziare ad avanzare rivendicazioni comuni e avere una prospettiva politica che vada al di là delle singole organizzazioni.
La fondazione del primo sindacato indipendente del paese è stata decisiva per la vittoria nello sciopero dei lavoratori della metropolitana. Nell’esperienza delle operatrici sociali e delle lavoratrici del welfare presenti al meeting, invece, il rapporto tra sciopero e organizzazione è stato invertito. Infatti, entrambe hanno fondato il proprio sindacato solo dopo aver deciso di scioperare. In un settore in cui le lavoratrici e i lavoratori sono dispersi e isolati, la comunicazione tra lavoratrici ha portato in primo luogo a uno sciopero come mezzo per mostrare la forza di un potere collettivo. Solo in un secondo momento è sorto il problema della creazione di un sindacato come strumento di contrattazione. Una cosa importante emersa in questa discussione è stata il fatto che lo sciopero delle operatrici sociali e delle lavoratrici del welfare mirava non solo a migliorare le condizioni salariali e di lavoro, ma anche a contestare la terribile situazione degli scarsissimi – se non addirittura inesistenti – servizi sociali. Anziché essere un’espressione di ‘sottosviluppo’ o un’eccezione, le condizioni estreme del welfare georgiano sono più che altro una conseguenza di anni di riforme favorevoli al mercato che hanno aperto la strada a tagli alla spesa pubblica, alla finanziarizzazione del welfare e alla precarizzazione: ciò fornisce un chiaro esempio di cosa significa il welfare nelle società neoliberali ‘sviluppate’. Tanto lo smantellamento dei servizi di base quanto la loro individualizzazione indicano la direzione in cui sta andando tutta l’Europa.
Il bisogno di lottare contro le rigide condizioni di lavoro e, allo stesso tempo, contro le condizioni di vita dei beneficiari dei servizi, ha reso evidente come la sfida che abbiamo di fronte non sia semplicemente quella di lottare per ampliare il ‘diritto di sciopero’. Superare le limitazioni allo sciopero impone di trovare modi diversi di ottenere un sostegno sociale esterno ai luoghi di lavoro e di porre questioni politiche che non si fermino al singolo sciopero e che non si arrestino di fronte a qualche miglioramento concesso ad alcuni settori o categorie di lavoratori. La capacità di scioperare non è una capacità tecnica, ma investe la possibilità di imporre un potere collettivo. Quest’ultimo punto è emerso chiaramente dalla discussione sullo sciopero globale delle donne: in gioco vi è esattamente la possibilità di usare lo sciopero per rifiutare la violenza sessuale e la posizione che viene assegnata alle donne nella società e nella riproduzione sociale, a prescindere da limitazioni legali o appartenenze sindacali. L’esperienza dello sciopero delle donne ha permesso anche di sollevare problemi ineludibili per qualsiasi lotta contro lo sfruttamento: come possono scioperare le donne se lavorano isolate nelle case, tanto all’estero, come nel caso di centinaia di migliaia di donne georgiane migranti che lavorano in UE, quanto nel proprio paese? Come fare i conti con il doppio carico di lavoro delle donne? Come possiamo scioperare contro il fatto che i corpi delle donne sono inseriti in un mercato internazionale, come nel caso della maternità surrogata? Nell’affrontare questi problemi il movimento delle donne che sta crescendo in Georgia, come in molti altri paesi, sta segnando un deciso cambio di passo rispetto a un certo femminismo liberale che non è mai stato in grado di lottare allo stesso tempo contro la subordinazione delle donne e contro un più generale sistema di sfruttamento. A Tbilisi, come in ogni luogo del mondo, si sta radicando la convinzione che la prima lotta non può essere portata avanti senza la seconda e viceversa.
Il meeting in Georgia ci ha mostrato una volta di più che lo spazio transnazionale è quello in cui i processi e le lotte possono essere viste non come esplosioni di malcontento isolate e localizzate, sempre inserite in condizioni particolari, ma in quanto parte di un movimento transnazionale di lotta che sta costruendo un linguaggio e una visione comune. Per alimentare questo processo bisogna riconoscere che l’Europa si presenta come un terreno di scontro complesso. Osservandola dai suoi margini orientali, due cose emergono chiaramente: nessun passo indietro è possibile – non c’è alcun welfare-state da rimpiangere, nessun compromesso socialdemocratico da restaurare; e qualsiasi discorso unidirezionale su che cosa sia oggi l’Europa – una fortezza del neoliberismo da distruggere o una terra di diritti e opportunità da conquistare – è solo un modo per limitare il potenziale che le lotte presenti e future hanno in quanto parte di un movimento transnazionale. I margini dell’UE, luoghi di trasformazioni estreme e continua insubordinazione, sono un punto privilegiato per guardare alle sfide che un movimento di lotta transnazionale ha davanti e per discutere di come praticare l’Europa come campo di battaglia, senza rimanere bloccati nelle due alternative citate. Questo è ciò che abbiamo imparato in Georgia e questo è ciò che intendiamo continuare a discutere nei prossimi mesi, per continuare a produrre comunicazione politica transnazionale.