di CAMILLA DE AMBROGGI
L’8 marzo 2019 ha dato modo, per il terzo anno consecutivo, di mostrare la potenza globale e transnazionale del movimento femminista, che ha saputo reinventare e riadattare la pratica di lotta dello sciopero alle nuove sfide politiche che il capitale globale ci pone, andando oltre le linee di divisione di cui questo si serve per la sua riproduzione. La vera potenza del movimento femminista attuale si situa, infatti, nella sua capacità di stabilire connessioni transnazionali e nel porre al centro della propria lotta le differenze – materiali e ideologiche – che queste connessioni presuppongono, per creare e ricreare un’unità composita in grado di criticare e sovvertire la società globale del capitale. Facendo leva su queste differenze, il movimento femminista ha mostrato che non è possibile smantellare il sistema patriarcale partendo esclusivamente da contesti limitati geograficamente o da esperienze locali, ma che, al contrario, è indispensabile ripensarlo all’interno del sistema capitalistico contemporaneo che, per il suo sviluppo globale, sfrutta diversi sistemi oppressivi preesistenti, che operano sulla base di sesso e «razza» con declinazioni specifiche in ogni contesto locale. Solo partendo da questa struttura oppressiva globale è dunque possibile rivelare, e conseguentemente combattere, le connessioni tra capitalismo, patriarcato e razzismo, che agiscono in spazi e tempi definiti.
Per questa sua vocazione globale, la lotta femminista deve saper includere – e sta ampiamente dimostrando di esserne in grado – esperienze variegate di resistenza all’oppressione patriarcale. Un esempio è quello delle donne che fanno parte di comunità indigene sudamericane, dove l’apparato patriarcale «moderno», introdotto con il colonialismo europeo, si è saldato e mescolato con un sistema preesistente di oppressione, che relegava le donne a determinati ruoli nella società precoloniale. Da questo punto di vista, il cosiddetto feminismo popular latino-americano, il forte movimento che negli ultimi anni ha contribuito alla mobilitazione di massa contro la violenza maschile e allo sciopero globale femminista, è riuscito a portare il femminismo al di fuori del mondo accademico e a stabilire connessioni politiche tra soggetti troppo spesso isolati e indeboliti dalle politiche neoliberali, come appunto le donne indigene: così facendo, ha avuto l’immenso merito di trasformare la posizione marginale di invisibilità delle donne in un centro privilegiato, in grado di intraprendere una critica complessiva della società globale. Tuttavia, questa rapida espansione del feminismo popular può incorrere nel rischio di divenire mainstream e cadere in banalizzazioni e semplificazione della realtà. Infatti, sta prendendo piede in America Latina un’idea di feminismo comunitario o feminismo plurinacional, le cui linee guida sono state ampiamente discusse e delineate durante il 33° Encuentro de Mujeres svoltosi a Trelew (Argentina) a ottobre 2018. Il feminismo plurinacional valorizza la comunità indigena come sistema comunitario in grado di produrre relazioni sociali e soggettività alternative a quelle prodotte dalla logica del capitale. In questo contesto, le donne indigene giocherebbero un ruolo fondamentale perché, a fronte della posizione che occupano e del lavoro riproduttivo che attuano all’interno della comunità, sarebbero quelle più colpite dalle dinamiche contemporanee del capitalismo globale, come la privatizzazione delle terre comunitarie e il proliferare di industrie estrattive nei territori indigeni. Tuttavia, secondo la prospettiva del feminismo comunitario, questa posizione conferirebbe loro anche un forte potere sociale di opposizione e trasformativo, non grazie a una presunta «identità femminile» costruita a partire dalla naturalizzazione delle funzioni riproduttive, quanto piuttosto grazie al controllo che hanno sui mezzi di riproduzione, la cui «messa in comune» – come già affermava Silvia Federici nel 2010 in El feminismo y las políticas de lo común en una era de acumulación primitiva – permetterebbe la creazione di forme di organizzazione solidale e comunitaria, e di un’economia politica alternativa alla società capitalistica individualistica e patriarcale.
Questo feminismo comunitario si sta espandendo con grande forza nel continente latino-americano, raggiungendo anche le più isolate comunità indigene e producendo interessanti sviluppi e connessioni con i movimenti territoriali che si oppongono all’espropriazione e alla privatizzazione dei territori indigeni in favore della ristrutturazione neoliberale dell’economia latino-americana. Tuttavia, in questo tipo di concettualizzazione, il ruolo trasformativo conferito alle donne risulta totalmente sussunto in una logica comunitaria, che vincola inevitabilmente il «significato politico» delle donne alla posizione che occupano all’interno dei rapporti capitalistici e patriarcali di produzione e riproduzione, imprigionando il loro spazio d’azione all’interno della sfera riproduttiva domestica. Il bagaglio storico delle donne quali riproduttrici è così elevato a mezzo per contrastare la violenta dinamica transnazionale del capitalismo contemporaneo, che colpisce sia le donne sia la terra. Questa insistente valorizzazione e idealizzazione della comunità indigena nega e nasconde le dinamiche patriarcali presenti all’interno della comunità, che non possono essere né demolite né intaccate se vengono analizzate solo ed esclusivamente come conseguenza dell’imposizione del modo di produzione capitalistico in queste società; infatti, la struttura patriarcale contemporanea di molte comunità indigene deriva dall’incorporazione del patriarcato «moderno», imposto attraverso il colonialismo, all’interno dei sistemi di oppressione precoloniali, come quelli incaici, che escludevano la donna dallo spazio politico confinandola a ruoli esclusivamente riproduttivi all’interno della comunità.
Un chiaro esempio di come le politiche neoliberali contemporanee in America Latina si alimentano dell’espropriazione di terre e risorse naturali dei territori indigeni, evolvendosi anche sfruttando le dinamiche patriarcali «moderne» e «premoderne» presenti all’interno delle comunità indigene – intendendo con questi termini, rispettivamente, le dinamiche introdotte dal sistema coloniale e quelle precedenti alla sua instaurazione –, è dato dal territorio indigeno guaranì boliviano, nel sud-est del paese. La Bolivia è governata da ormai quasi 15 anni dal Movimiento al Socialismo (MAS), il movimento guidato da Evo Morales, che nei primi anni 2000 ha saputo abilmente catalizzare diverse istanze sociali e rivendicazioni indigene per proporre una rifondazione partecipativa e plurale della democrazia. Questo paese si definisce attualmente uno «Stato plurinazionale», riconoscendo i diversi gruppi indigeni presenti nel territorio come soggetti politici collettivi in grado di partecipare attivamente al processo di governance del paese. Con il passare degli anni però, la retorica socialista, decoloniale e indigenista impiegata dal MAS non ha saputo – e non ha voluto – porre le basi materiali per un effettivo cambiamento rivoluzionario del paese in favore delle classi subalterne. Attualmente, infatti, il governo del MAS sta promuovendo politiche neoliberali che puntano verso una ri-primarizzazione dell’economia boliviana in favore del mercato internazionale, spacciandole come necessarie per lo sviluppo e il progresso economico delle zone più remote del paese, come appunto le comunità indigene: in questo modo il MAS è riuscito nell’impossibile e paradossale intento di promuovere il capitalismo come il primo passo necessario per emancipare le popolazioni indigene e promuovere la decolonizzazione della nazione, liberando lo Stato boliviano dai sui residui coloniali. Attraverso la retorica del «capitalismo andino», il MAS ha magistralmente cooptato e corrotto i maggiori leader indigeni del paese, come quelli dell’Asamblea del Pueblo Guaranì (APG), la più importante organizzazione guaranì boliviana. Mentre in passato hanno spesso avuto una grande forza di opposizione politica, ora questi leader sono favorevoli alle politiche neoliberali del MAS e al conseguente ingresso di industrie e infrastrutture nei loro territori. In questo ampio contesto di sfruttamento e di oppressione sistemica le donne, all’interno delle comunità indigene, si trovano in una posizione ulteriormente subordinata perché, oltre a vedersi espropriare i loro territori e le loro case, sono spesso messe a tacere dai propri mariti o dai leader indigeni e la loro iniziativa politica collettiva è fortemente osteggiata da più parti. Nel settembre del 2018, ad esempio, è nata l’Organización de Mujeres Indígenas Guaraní de Bolivia (OMIGB), e l’attivista guaranì Lourdes Miranda* ne è stata eletta presidente. L’OMIGB è stata creata con l’intento di formare una coscienza femminista, per iniziare a smantellare le strutture patriarcali che all’interno della comunità indigena mantengono le donne in una posizione di subalternità; inoltre, dato il distanziamento dei leader delle comunità guaranì dalle rivendicazioni territoriali e anticapitalistiche di una parte della popolazione indigena, l’OMIGB si sta muovendo anche per frenare le politiche neoliberali del MAS e difendere i territori indigeni dall’espropriazione di risorse, portando alla luce le connessioni tra patriarcato e neoliberismo che agiscono in questo contesto e stringendo alleanze nazionali e internazionali con altre comunità e soggettività in linea con la sua lotta. Tuttavia, l’OMIGB ha già dovuto affrontare l’opposizione dei leader uomini dell’APG, che hanno tentato in tutti i modi di demolirla e che hanno più volte pubblicamente dichiarato che non è necessaria un’organizzazione di donne, e che questa crea soltanto divisioni all’interno della comunità. Inoltre, anche molte donne guaranì con ruoli attivi all’interno dell’APG, che all’inizio sembravano favorevoli alla crescita dell’OMIGB – come Tania Rodríguez, vicepresidente delle politiche di genere della APG – hanno in seguito voltato le spalle a Lourdes e alle altre donne dell’organizzazione, arrivando addirittura a boicottarne gli eventi. Allo stesso modo, molte ONG boliviane, che in passato hanno sempre finanziato, o per lo meno appoggiato, la creazione di organizzazioni indigene e femministe, se non perfino progettato corsi o workshop per «l’emancipazione» delle donne indigene, ora si rifiutano di appoggiare l’OMIGB. Questa posizione dipende anche dalle minacce che molti lavoratori delle ONG hanno ricevuto la scorsa primavera, quando sono stati convocati dai leader guaranì all’assemblea generale dell’APG, che hanno intimato loro di non appoggiare organizzazioni divisive per la comunità indigena, come appunto quelle delle donne, o sarebbero stati esclusi ed espulsi dai territori indigeni.
Da queste complesse dinamiche si può evincere che all’interno della comunità indigena si intrecciano diversi rapporti di potere e strutture oppressive, che contribuiscono a mantenere le donne in una posizione di subalternità: da un lato, l’esclusione delle donne dallo spazio politico operata dai leader indigeni soggiogati dall’idea di «capitalismo andino» del MAS diventa assolutamente funzionale all’evolversi di politiche neoliberali nei territori indigeni; dall’altro lato, l’opposizione che l’OMIGB sta avendo anche da parte di altre donne indigene e dalle ONG dimostra che sia «la messa in comune» dei mezzi di riproduzione femminile all’interno della comunità, sia l’empowerment promosso dalle ONG in favore delle donne indigene, non sono sufficienti a creare spazi di cooperazione e soggettività libere dal peso delle gerarchie e a smantellare le violente dinamiche patriarcali che agiscono nelle comunità indigene. Sia la forma comunitaria di vita politica sia la sua valorizzazione epistemologica operata dal feminismo comunitario o plurinacional, insomma, invisibilizzano e precludono necessariamente ad alcuni soggetti la possibilità di agire, in quanto concepiscono la comunità come un gruppo unitario e omogeneo in cui tutti gli interessi e i desideri delle persone che la costituiscono sono gli stessi, nascondendo così le relazioni di potere disuguali e le linee di divisione che operano all’interno della comunità stessa. Inoltre, poiché concepisce il patriarcato come completamente assorbito dal capitalismo, il feminismo comunitario presuppone che un’economia solidale creata a partire dal potere riproduttivo sociale delle donne smantellerà contemporaneamente i rapporti di potere sia patriarcali sia di sfruttamento; tuttavia, il capitalismo sfrutta le gerarchie sessuali che incontra nelle comunità indigene per svilupparsi ulteriormente, ed è quindi necessario analizzare tanto gli intrecci quanto le differenze tra queste due forze. È questo il compito che il movimento femminista transnazionale si deve assumere, evitando di sussumere la voce delle donne indigene all’interno di quella indifferenziata della comunità, sfuggendo a concettualizzazioni essenzialistiche che rievocano un passato ideale e immaginario, e piuttosto concentrandosi sulle strutture che non permettono alle donne indigene di far sentire la propria voce per smantellarle attraverso connessioni transnazionali di lotta.
* Lourdes Miranda sarà a Bologna Martedì 16 aprile alle 16 presso il Dipartimento di Storia Culture Civiltà per un incontro pubblico su La resistencia transnacional de las mujeres a la restructuraciòn neoliberal de la economìa boliviana – qui l’evento Facebook