Quasi mai si può leggere o sentire espressa in maniera chiara, con tanto di premesse e conclusioni. Si deve ricostruire come se fosse un puzzle, andando alla ricerca dei vari tasselli tra il «New York Times», il «Washington Post», le dichiarazioni dei dirigenti del partito democratico, i dirigenti che contano, e le fughe di notizie organizzate ad arte sul Russiagate e il sexgate. Di cosa si sta parlando? Della strategia di assalto a Trump in vista delle elezioni di medio termine del prossimo novembre, in cui si eleggeranno la Camera dei rappresentanti e un terzo del Senato.
Tre sono le premesse principali di questa strategia, che servono per delimitare il campo del gioco politico e costruire la narrazione sui media e sui social network. Prima premessa: Trump non ha la maggioranza del paese (ma si dovrebbe dire dei votanti), ha preso 3 milioni di voti meno di Hillary Clinton ma 100 mila voti in più sommando i risultati di quattro Stati chiave, sempre in bilico tra i due schieramenti, che gli hanno permesso di essere eletto. Seconda premessa: l’elezione di Trump non è stata la manifestazione di un profondo disagio sociale alimentato dalle politiche economiche e sociali del Partito democratico, ma è stato il populismo presidenziale post-elettorale a dare forma a questo disagio e ad amplificarlo. Terza premessa: servono facce nuove per riverniciare una politica che non può discostarsi molto da quella vecchia.
Una volta fatte le premesse seguono i primi passi. Non serve impegnarsi più di tanto sulle due coste e nell’area di Chicago, lì si vince facile e se nelle primarie passa qualche candidato di sinistra che guarda ai socialisti democratici o a Sanders non è un problema. Non serve nemmeno sprecare risorse politiche nel profondo sud e in gran parte del sud-ovest, lì si perde di sicuro. L’ago della bilancia sono i deputati e i senatori che saranno eletti negli Stati «campo di battaglia»: Florida, Ohio, Pennsylvania, Wisconsin. Quindi bisogna concentrare le forze in quegli Stati, scegliendo i candidati adatti per ogni singolo distretto elettorale. Non è questione di programmi o visioni politiche, bisogna affinare la tattica seguita più volte da Obama: una politica moderata incorporata in uno storytelling progressista. Trump ancora non è riuscito a consolidare un sistema di potere alternativo a quello precedente. La girandola di licenziamenti e dimissioni nel suo staff ristretto lo dimostra. La stessa questione dei dazi e delle minacciate guerre commerciali, sempre più usata a fini elettorali interni, indica l’ormai palese loop comunicativo in cui sono entrati gli spin-doctors digitali del tycoon newyorchese. Al populismo reazionario di Trump, diffuso urbi et orbi, si deve contrapporre un populismo locale soft, mettendo abiti liberali all’eccezionalismo americano. In fondo, come si decostruisce un populismo di destra centrato su una figura carismatica? Articolando localmente un populismo «democratico» su più figure politiche anche molto diverse da loro. La parola d’ordine è scomporre politicamente l’immagine di Trump più che attaccarla frontalmente. Per quello c’è sempre tempo, i motivi e le occasioni non mancano e non mancheranno. È l’arma di riserva nel caso in cui le elezioni di novembre dovessero andare male o che i sondaggi prima del voto dovessero assumere una piega negativa.
C’è un problema, però. Trump un punto importante lo ha segnato: la Corte Suprema pende sempre più a suo favore. E la sentenza di un paio di mesi fa sul contenzioso Janus contro Afscme è stato un duro colpo che può avere ricadute anche elettorali. Semplificando molto e andando al nocciolo della questione, la Corte Suprema ha dato ragione a Mark Janus, lavoratore pubblico non iscritto al sindacato Afscme, che non vuole pagare la quota sindacale dei non iscritti prevista dagli accordi tra sindacato e molte amministrazioni pubbliche. La causa è diventata il simbolo di molti ricorsi simili sostenuti e finanziati dalla rete SPN (State Policy Network), formata da 150 think-tank politici decisamente antisindacali, che ha investito un centinaio di milioni di dollari in spot televisivi, radiofonici, gruppi sui social media, spese processuali per colpire economicamente i sindacati soprattutto del settore pubblico. Sostenere l’obbligatorietà del contributo mensile (da 400 a 800 dollari all’anno) dei non iscritti a un sindacato, che tra l’altro non si può scegliere in quanto nelle singole amministrazioni per legge può esserci un sindacato soltanto, è una posizione indifendibile. Nei bilanci dei sindacati pubblici il peso delle quote dei non iscritti si aggira attorno al 20-30% delle entrate, per cui la sentenza della Corte Suprema può minare il loro funzionamento e incidere sugli investimenti in borsa nei fondi pensione che appartengono ai sindacati. Allora che si fa? Come si fa a non chiudere il flusso sindacale di centinaia di milioni di dollari che arriva al partito democratico? Si sposta il discorso politico sulla difesa a prescindere dei sindacati in quanto baluardi democratici contro il populismo trumpista, arruolando in questa battaglia anche Sanders, che ha presentato una proposta di legge al Senato per ristabilire la situazione precedente. Quindi, riassumendo, populismo democratico (con opportuni travestimenti) contro populismo reazionario presidenziale, centralità politica degli Stati in bilico, difesa dello status quo dei rapporti politico-sindacali. Messe così le cose, non è certo un’impressione che nella bassa cucina politica americana continui a mancare un ingrediente: quello di classe.