Secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ogni anno più di 40 milioni di donne abortiscono. Nella metà dei casi si tratta di aborti clandestini. Prima del viaggio, di fronte alla possibilità – che spesso è quasi una certezza ‒ di essere stuprate, migliaia di donne migranti ricorrono invece alla contraccezione preventiva per evitare di restare incinte. Sono pratiche diverse, ma sono entrambe espressione di un ostinato rifiuto di cedere il dominio sul proprio corpo, della pretesa di essere donne senza essere madri e di diventare madri senza essere costrette a occupare le posizioni e i ruoli prescritti dal patriarcato e dal mercato. Entrambe quelle scelte, praticate da milioni di donne anche a rischio della vita, esprimono una pratica della libertà che va ben al di là dell’esercizio o della rivendicazione di un diritto individuale alla salute e alla scelta sulla propria sessualità. È una libertà collettiva e politica che minaccia l’ordine della società degli uomini. Contro questa libertà si stanno perciò diffondendo in ogni parte del mondo politiche antiabortiste sempre più restrittive che costituiscono uno dei fronti dell’attuale guerra contro le donne. Come l’intensificazione e la visibilità della violenza maschile, così le politiche antiabortiste sono un tentativo di imporre e garantire la riproduzione dei rapporti di potere che le donne minacciano con la loro autonomia, la loro presa di parola e le loro lotte. Per questo la battaglia combattuta per difendere ed estendere la libertà di abortire deve essere considerata un momento dello sciopero globale femminista.
Il dibattito italiano sull’aborto e la legge 194 a quarant’anni dalla sua approvazione si colloca in questa cornice globale. La legge 194 ha alle spalle la lotta femminista. La libertà di abortire non è stata rivendicata semplicemente come un diritto individuale alla salute e alla scelta, ma è stata affermata come possibilità di mettere in questione l’ordine patriarcale a partire dall’affermazione di una sessualità svincolata dalla procreazione e dal monopolio maschile del desiderio. La legge 194, però, è anche il frutto di compromessi che hanno programmaticamente ridimensionato gli effetti e le pretese della politica femminista nel momento stesso in cui hanno ricodificato le sue rivendicazioni come un diritto esigibile individualmente e regolato socialmente. Come afferma l’articolo 1, che ne sancisce i principi, «lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio». Mentre la «tutela della vita umana» fa strada all’obiezione di coscienza ‒ che in molte parti d’Italia ormai rende del tutto impraticabile la possibilità di abortire ‒ l’affermazione del «valore sociale della maternità» considera l’interruzione volontaria della gravidanza come l’eccezione a una regola che va continuamente riaffermata. La maternità è valorizzata socialmente nel momento stesso in cui la posizione delle donne che abortiscono è svalutata simbolicamente e materialmente: le diverse «fattispecie» di aborto elencate e ammesse (in caso di problemi psichici, economici, familiari o relativi al concepimento – se per esempio questo avviene in caso di stupro – o dovuti a malattie del feto) definiscono la scelta di abortire come l’espressione di una condizione ‘patologica’ o di particolare vulnerabilità che viene immediatamente utilizzata per disciplinare e neutralizzare la libertà delle donne.
In questo quadro, il diritto all’obiezione di coscienza sancito dall’articolo 9 della legge, come la necessità di ottenere un’autorizzazione da parte dei medici consultati durante l’iter dopo i sette giorni obbligatori per favorire un «ripensamento», rivela l’intento di individuare dei «custodi» in grado di proteggere l’ordine sociale cui ogni singola donna contravviene nel momento in cui sceglie di interrompere una gravidanza non voluta. Così, mentre riconosce la possibilità di praticare l’interruzione di gravidanza come diritto individuale, la legge 194 conferisce alla società degli uomini il diritto di regolare le donne attraverso la funzione materna. A quarant’anni dalla sua approvazione, la 194 va letta perciò all’interno dell’organizzazione della società presente, che non corrisponde necessariamente a un ordine patriarcale ‘tradizionale’. Come ha chiarito fin troppo bene il «Piano nazionale per la fertilità» promosso in Italia nel 2016, l’ingiunzione a procreare disegna una società in cui le donne devono riconoscere nella maternità la migliore delle scelte, l’unica possibilità per realizzarsi pienamente come donne, quando non addirittura considerarla come lo specifico capitale umano femminile da investire in quello stesso mercato del lavoro che penalizza sistematicamente le donne in quanto madri reali o potenziali. Le restrizioni pratiche alle quali, da anni, la 194 è soggetta a causa della crescita esponenziale degli obiettori di coscienza non obbligano soltanto coloro che vogliono abortire ad affrontare un percorso faticoso, costoso e umiliante, ma identificano simbolicamente tutte le donne con la loro funzione materna facendo di quest’ultima l’unica scelta libera che esse possono legittimamente praticare, riaffermando in questo modo l’ordine sessuato della società, i suoi ruoli e le sue gerarchie.
Che siano giustificate in nome della religione o ricorrendo a ideologie nazionaliste, le campagne antiabortiste hanno una stretta relazione con l’accelerazione e intensificazione delle politiche neoliberali globali. Negli Stati Uniti ‒ dove l’aborto è stato ammesso nel 1973 con una sentenza che lo assimila alla più ampia fattispecie del diritto individuale alla privacy ‒ gli interventi legislativi per limitarne l’esercizio a livello statale sono cominciati negli anni ’90 e si sono moltiplicati dopo l’esplosione della crisi economica (oltre 200 in 38 Stati tra il 2011 e il 2014). Contemporaneamente, la regolazione della sessualità è sempre invocata dagli antiabortisti nordamericani per arginare il ‘male sociale’ delle madri single e dipendenti dai sussidi, per la maggioranza nere, colpevoli di praticare la maternità al di fuori della famiglia, contro le regole del mercato e contro il principio di responsabilità individuale che lo organizza. In Turchia, dove l’aborto è legale entro certi limiti, l’obiezione di coscienza è stata incoraggiata a partire dal 2008. Mentre dava libero sfogo alle sue politiche di tagli, privatizzazioni e precarizzazione, Erdoğan ha equiparato l’aborto all’omicidio, sostenendo una «politica della nuova generazione» funzionale al rinnovamento e alla potenza della nazione turca. In Spagna nel 2013 ‒ al culmine delle politiche di austerità ‒ è stato presentato in Parlamento un progetto di legge orientato a introdurre restrizioni decisive alla possibilità di abortire, affidando in tutti i casi la scelta non alle donne, ma alle autorità mediche e familiari. In Argentina, dove l’aborto è consentito solo in pochi casi eccezionali, il campione del neoliberalismo, Macri, ha fatto professione di fede «pro-vita» e ha portato a 170 dollari a scatola il costo delle pillole per l’ulcera usate dalle donne come metodo abortivo, con l’effetto di mettere ancora più a rischio la vita delle lavoratrici e delle donne povere che dovranno ricorrere a mezzi sempre meno sicuri per interrompere autonomamente la gravidanza.
Sono solo alcuni esempi di un patriarcalismo neoliberale che non agisce in modo omogeneo, ma combina livelli più o meno alti di coercizione e di regolazione politica della libertà delle donne ridefinendo ruoli e gerarchie sociali come complementi necessari della libertà di mercato. In questo modo, la libertà di vivere la propria sessualità e di scegliere se essere o non essere madri è ridotta a un affare puramente individuale e ricodificata nella logica del rischio privato d’impresa. A seconda del capitale umano di cui ciascuna dispone, alcune potranno permettersi di investire nella contraccezione e nell’aborto ‒ magari in cliniche private o all’estero ‒, oppure di pagare un’altra donna perché si occupi della cura dei figli in modo da conciliare la maternità con il lavoro o di non danneggiare la propria carriera, per quelle che possono aspirarvi. Altre, invece, potranno evitare la maternità solo a rischio della vita, oppure dovranno accettare che ‒ in assenza di qualsiasi tipo di risarcimento sociale ‒ diventare madri le impoverisca ulteriormente e le obblighi a livelli più intensi di sfruttamento, nelle case e sui luoghi di lavoro. Per questo, la libertà pretesa e praticata da milioni di donne precarie, povere e migranti che attraverso l’aborto rifiutano che la loro vita sia completamente svalutata dalla valorizzazione patriarcale e neoliberale della maternità ha innescato una risposta tanto globale quanto brutale. Per questo la svolta neoliberale non è fatta solo di deregolamentazioni e di liberalizzazioni, ma anche di un violento richiamo all’ordine patriarcale rivolto alle donne che quotidianamente lo mettono in questione. Per questo, infine, la libertà di abortire non può essere semplicemente rivendicata come diritto individuale, ma deve esprimersi come pretesa di sovvertire i ruoli e le gerarchie sessuati imposti e messi a valore da questa società.
Le migliaia di donne che in molte parti del mondo pagano l’aborto con la vita o con la galera mostrano nel modo più chiaro la differenza radicale tra l’autorizzazione ‒ per quanto limitata ‒ e la proibizione. Ciò significa che, pur essendo il frutto di un compromesso, la legge 194 è per le donne una condizione formale di esercizio della libertà che va difesa e soprattutto estesa. Per farlo bisogna però riconoscere che non si tratta di rivendicare un diritto individuale, che d’altra parte può essere garantito formalmente mentre è limitato praticamente in modi indiretti, come quelli messi in campo anche là dove la possibilità di abortire è riconosciuta dalla legge attraverso l’obiezione di coscienza, i tagli ai sostegni pubblici per l’accesso all’aborto, la chiusura delle strutture ospedaliere che lo praticano. Soprattutto, bisogna riconoscere che ogni legge sull’aborto è una disciplina della libertà che stabilisce e protegge le condizioni di riproduzione non della vita, ma della società nel suo complesso. Anche quando concede uno spazio, essa definisce e confina il campo delle scelte legittime consentite alle donne, stabilisce gerarchie, fissa posizioni e riproduce rapporti di potere. Sono questi rapporti che le donne hanno messo in questione con la loro sollevazione globale. In Spagna, nel 2014, le manifestazioni contro la riforma della legge sull’aborto sono state oceaniche e per questo hanno avuto successo. Il 3 ottobre del 2016, lo sciopero ha permesso alle donne polacche di bloccare la riforma parlamentare che restringeva ulteriormente la possibilità di abortire e la partita è ancora aperta, nella tensione costante tra iniziative legislative e manifestazioni di massa. In nome dello sciopero e praticandolo, il movimento irlandese Strike4Repeal sostiene l’abolizione dell’VIII emendamento costituzionale – che equipara i diritti del feto a quelli della madre rendendo di fatto l’aborto illegale ‒ che si deciderà con il referendum del prossimo 25 maggio. In Argentina, la lotta contro la violenza maschile e lo sciopero femminista hanno fatto strada alle immense marce che hanno obbligato Macri ad aprire il dibattito parlamentare per una legge sull’aborto libero, gratuito e garantito contro l’obiezione di coscienza. In Turchia, le stesse donne che hanno guidato le mobilitazioni contro il neoliberalismo autoritario di Erdoğan hanno bloccato le sue riforme antiabortiste. Ovunque sia combattuta, la battaglia per la libertà di abortire è parte integrante del movimento globale dello sciopero femminista, che la sostiene e la alimenta.
La libertà che le donne stanno rivendicando e praticando anche contro la legge ‒ la libertà di rifiutare la maternità come destino o di sceglierla fuori dalle obbligazioni imposte dal neoliberalismo patriarcale ‒ è una libertà sessuata irriducibile al linguaggio neutro dei diritti, che maschera e riproduce gerarchie, ed è una libertà collettiva che non può essere schiacciata nell’isolamento del privato neoliberale. Questa libertà va affermata come progetto politico di liberazione, in modo che le battaglie locali e nazionali sulla legge non si trasformino in blocchi dell’iniziativa e non si riducano alla richiesta di riconoscimento e alla regolazione delle istanze di una categoria separata, ma siano connesse dalla pretesa femminista e globale di interrompere l’ordine di una società che ci opprime.