È possibile costruire una scienza dello spazio? Una scienza che raggruppi più discipline come un’antropologia dello spazio, una psicologia e una psicoanalisi dello spazio, una storia dello spazio-tempo e una sociologia dello spazio e del tempo, un’economia politica dello spazio? Secondo Henri Lefebvre non solo è possibile. È necessario. Ancor di più dopo aver criticato le illusioni kantiane di uno spazio puro, dato a priori, ed esser approdato alla convinzione che l’impresa non sia più il luogo decisivo in cui si formano il plusvalore, i rapporti sociali di produzione e, più in generale, il modo di produzione come totalità. La riproduzione dei rapporti di produzione capitalistici, questa è la tesi, si realizza negli spazi della quotidianità, del tempo libero, della cultura, nelle estensioni delle vecchie città, nella proliferazione di nuove città, ovvero attraverso l’intero spazio.
La recente pubblicazione di Spazio e politica. Il diritto alla città II (ombre corte, 2018), una raccolta di scritti di Lefebvre tra il ’70 e il ’72, ha il merito di includerne un paio – Lo spazio e Le istituzioni della società post-tecnologica – che costituiscono dei veri e propri work-in-progress del fare teoria sullo spazio e, precisamente, sullo spazio urbano. In essi si esplicita gran parte dei metodi di analisi, dei presupposti teorici, dei riferimenti politici di Lefebvre. In altri termini, viene mostrato il background della sua teoria sullo spazio. Dopo aver pubblicato, negli anni precedenti, Il diritto alla città e La rivoluzione urbana, nei due saggi citati, si avverte in Lefebvre una sorta di inquietudine dovuta alla parzialità e alla provvisorietà dei risultati raggiunti. È l’inizio di un tortuoso percorso di sistematizzazione di una teoria che appare troppo debole se ancorata solo a un diritto, seppur non giuridico e di tipo particolare – come quelli contenuti nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo – come il diritto alla città.
Che cos’è quindi lo spazio urbano? La ricerca di Lefebvre procede per tentativi ed errori in cui, sottotraccia, prova a mantenere come bussola la famosa affermazione di Marx: «ogni scienza sarebbe superflua se la forma fenomenica e l’essenza delle cose coincidessero immediatamente». L’argomentazione si sviluppa facendo affidamento sulla validità di un metodo. Il metodo della «logica dialettica» messo a punto da Lefebvre in due distinti momenti: uno precedente e uno successivo agli scritti contenuti in Spazio e politica. Una prima volta alla fine degli anni ’40 con Logique formelle, logique dialectique e una parziale revisione nel 1982 con Douze thèses sur logique et dialectique. Un metodo che si fonda su cinque «grandi leggi» – la legge dell’interazione universale, del movimento universale, dell’unità dei contrari, della trasformazione della quantità in qualità, dello sviluppo a spirale – e nove «regole pratiche» che dovrebbero verificare e confermare sul campo le leggi generali. In questo modo, senza entrare negli ormai lunghi e complessi dibattiti sulle differenze più o meno profonde tra la dialettica di Marx e quella di Engels, Lefebvre si colloca decisamente con il secondo. La dialettica è un metodo con delle leggi e delle regole.
I limiti di questa impostazione, qui per quanto riguarda lo spazio urbano, emergono fin da subito tanto da costringere Lefebvre a semplificare di molto il suo metodo. Una semplificazione che opera con alcune mosse teoriche che privilegiano la «legge dell’unità dei contrari», utilizzando una «regola pratica» non prevista, quella di procedere per analogie e differenze rispetto all’elaborazione di Marx. Lo spazio non è un prodotto, un oggetto, una merce. Non è nemmeno uno strumento che semplicemente supporta la produzione e lo scambio. Non è comprensibile se ci si riferisce al solo processo di produzione di merci e al loro consumo. Per Lefebvre lo spazio sarebbe una sorta di «schema in senso dinamico, uno schema comune alle diverse attività, ai lavori divisi, alla quotidianità, alle arti, agli spazi realizzati dagli architetti e urbanisti. Sarebbe un rapporto e un supporto di inerenze nella dissociazione, di inclusione nella separazione». Uno spazio insieme astratto e concreto, omogeneo e disarticolato. In questo senso lo spazio diventa il luogo della riproduzione dei rapporti sociali di riproduzione. In tale spazio sono inclusi lo spazio urbano, quello del tempo libero, della pittura, della scultura, dell’architettura e del sapere. Quindi lo spazio è, in maniera distinta e combinata, un rapporto, un supporto e un luogo. Un’intuizione feconda che tuttavia Lefebvre non sviluppa, anzi la costringe nella camicia di forza di quella che, nei fatti, considera la principale «legge della dialettica»: l’unità dei contrari.
Per uscire da quello che si prefigura come uno stallo della sua teoria, Lefebvre propone un’analogia con il capitolo sulla formula trinitaria contenuto nel terzo libro del Capitale di Marx. I tre elementi della formula marxiana sono capitale, terra e lavoro, uniti nella società in atto e separati nella loro rappresentazione. Nella sua ipotesi Lefebvre assume lo spazio come congiunto-disgiunto che si collega direttamente allo «schema tripartito o alla formula trinitaria della società capitalista, secondo Marx». In che modo? Semplificando molto l’elaborazione di Marx su questo tema, riducendola a uno schema statico e non più dinamico. Dove Marx parla di terra-rendita, capitale-interesse, lavoro-salario come condizioni e rapporti che da un lato sono i presupposti e dall’altro i risultati del processo di produzione capitalistico, lo spazio congiunto-disgiunto di Lefebvre viene incasellato nella descrizione degli elementi che lo uniscono (ad esempio le relazioni di vicinato, l’ambiente circostante) e lo separano (la società, lo Stato). Se Marx, nei Grundrisse, vede nel modo di produzione capitalistico un ordito spazio-temporale che tende a superare ogni ostacolo spaziale attraverso «l’annullamento dello spazio per mezzo del tempo», in Lefebvre «lo spazio contiene il tempo» e «attraverso lo spazio viene prodotto e riprodotto un tempo sociale». Detto in sintesi, Marx si attesta su una temporalizzazione dello spazio come processo di produzione sociale, Lefebvre invece vede come invalicabile la spazializzazione del tempo che, anche e soprattutto alla luce del capitalismo contemporaneo, risulta difficile da cogliere se non del tutto smentita.
Ma come si produce questo spazio di Lefebvre non essendo dato a priori ed avendo una predominanza sul tempo? Siccome lo spazio non ha una logica interna e propria, esso rimanda a una logica formale che ne fa uno schema di cui la società si serve per tentare di costituirsi in un sistema coerente. Tuttavia, se ponendo l’accento sullo spazio come schema si esce dalle sabbie mobili di uno spazio inteso come semplice supporto o strumento del modo di produzione capitalistico, allo stesso tempo si rimane all’interno del perimetro di uno spazio come forma fenomenica che coincide con la propria essenza rendendo superflua ogni scienza. Lefebvre si rende conto di questo ulteriore intoppo e gioca il jolly delle contraddizioni dello spazio che derivano dal suo contenuto pratico e sociale e, in modo specifico, dal contenuto capitalistico. Uno spazio al tempo stesso schema e contenitore. Ancora una volta viene in soccorso la «grande legge» dell’unità dei contrari. E la produzione dello spazio viene messa in forma stabilendo un’analogia molto stretta con la molto discussa affermazione di Marx contenuta nella Prefazione del 1859 a Per la critica dell’economia politica: «A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti». Per Lefebvre il «dato punto di sviluppo delle forze produttive» si è già raggiunto, se non addirittura superato, e la contraddizione è a tutti gli effetti operante evitando di porsi il problema delle forze produttive che contengono in sé e sono strutturate dai rapporti di produzione capitalistici.
A tale riguardo risulta quanto meno semplicistico saltare a piè pari la questione con una frase incidentale che individua il conflitto tra forze produttive e rapporti di produzione nello spazio a «un livello molto più ampio di quello esistente ai tempi di Marx». Nella produzione dello spazio si manifesta una nuova e superiore contraddizione tra la «capacità tecnica di trattare globalmente lo spazio e la parcellizzazione dello spazio per la vendita e lo scambio. È questa la forma assunta attualmente dalla contraddizione tra forze produttive e rapporti di proprietà». Rapporti di proprietà appunto e non rapporti di produzione, dei quali i primi sono un’espressione giuridica. Un lapsus di Lefebvre? Non pare. Guardando allo sviluppo delle sue argomentazioni sullo spazio urbano i due termini sono spesso usati come sinonimi. L’impeto di Lefebvre, che traspare nei saggi in Spazio e politica, di formulare una teoria unitaria dello spazio lo porta spesso a fare affidamento a una sorta di materialismo dialettico “democratizzato”, depurato cioè dal determinismo più smaccato, senza tuttavia mai abbandonarlo. Nell’elaborazione di Lefebvre sono evidenti i segni del tempo e di uno specifico contenuto politico, ma ci sono anche intuizioni e suggestioni che, seppur messe ai lati del suo sistema teorico, sono ancora attuali. Dagli effetti che producono le tecnologie dell’informazione negli spazi urbani alle rappresentazioni nello spazio dei comportamenti sociali. È sulla natura e le caratteristiche dell’odierna produzione dello spazio che si dovrebbe spostare l’attenzione rispetto a Lefebvre. Non una contraddizione dello spazio tra forze produttive e rapporti di produzione che ha come possibile conseguenza lo scaturire di un diritto alla città, ma uno spazio urbano inteso come rapporto sociale che entra direttamente nella metropolizzazione dei territori e nella metropolizzazione della produzione sociale. Un tema, certo, da approfondire.