di ÉLISABETH LEBOVICI ‒ GIOVANNA ZAPPERI
Ammettiamolo: è stato uno choc anche per noi. La tribuna pubblicata sul giornale Le Monde l’8 gennaio scorso e intitolata Difendiamo la libertà di importunare, indispensabile alla libertà sessuale, firmata da un collettivo di cento donne, ci ha nauseate: ne riconosciamo perfettamente la retorica e le argomentazioni, cui si aggiunge il ridicolo di un testo che è anche una dichiarazione di eterosessualità normativa («non siamo lesbiche» è uno dei suoi sottintesi). Ancora più spiacevole il fatto di trovare tra le firmatarie i nomi di persone conosciute: artiste, curatrici, critiche d’arte, registe… Quello che ci interessa qui non è tanto la decostruzione delle argomentazioni della tribuna (altre lo hanno già fatto[1]) quanto la possibilità di interrogarci sul suo contenuto come il sintomo di un conflitto politico più ampio che coinvolge le élites francesi. Ciò che ci colpisce di più è il nesso tra l’antifemminismo virulento e gli ambienti culturali di cui la tribuna è l’espressione, ambienti che in Francia come altrove sembrano ancora particolarmente ancorati agli ideali borghesi del genio (maschile) e della sua libertà (sessuale). Questo aspetto ci sembra costitutivo delle argomentazioni reazionarie messe a punto dalle 100, proprio perché va di pari passo con la difesa di un ordine eteropatriarcale declinato in bianchezza e privilegio di classe. Sappiamo bene che il patriarcato ama dividere le donne, tuttavia ci sembra essenziale reagire come fecero nel dicembre 1975 Delphine Seyrig, Carole Roussopoulos, Nadia Ringaert e Ioana Wieder (Les insoumuses, o muse ribelli) dopo avere visto l’allora segretaria «alla condizione femminile» Françoise Giroud partecipare attivamente alla propria umiliazione durante una trasmissione televisiva in cui dialogava con una serie di misogini autoproclamati. Il video Miso et Maso vont en bateau [Miso e Maso vanno in barca] è la loro risposta: un’interruzione parodica e caustica del flusso televisuale in cui colei che rappresenta le donne all’interno dell’istituzione patriarcale oscilla tra la necessità di piacere («maso») e il desiderio di accedere al potere («miso»).
Eterosessualità normativa e identità nazionale.
Come molte femministe, abbiamo accolto con entusiasmo la spettacolare presa di parola femminile per denunciare le molestie sessuali. Stiamo vivendo un momento storico segnato da una ricomposizione delle lotte femministe attorno alla questione della violenza. Il #metoo va letto infatti nel quadro di una sollevazione più ampia portata avanti in particolare dal movimento «Ni una menos» e dalle manifestazioni delle donne contro l’elezione di Trump, che hanno permesso di nominare e rendere intelligibile il nesso tra sessualità e potere.
In Francia, l’affaire Strauss-Kahn aveva già risvegliato la questione, ma era stato anche l’occasione di un dibattito sulla «singolarità francese» in materia di rapporti tra i sessi. All’epoca, la storica Mona Ozouf aveva sostenuto ad esempio l’esistenza di un contro-potere femminile dovuto alla seduzione esercitata sugli uomini, una sorta di compensazione per le disuguaglianze politiche, sociali e culturali tra i sessi. Già nel 1989, nel celebrare il ruolo «civilizzatore» delle donne francesi, eredità dell’Ancien Régime, rinasceva la difesa di un «femminismo alla francese» da contrapporre dal modello americano, dove il femminismo sarebbe invece l’aspetto più estremista della democrazia. Nel 2011, la sociologa Irène Théry si erigeva contro il sospetto di una eccessiva tolleranza, in Francia, nei confronti degli abusi maschili. Secondo lei, questo femminismo alla francese era fatto di «una certa maniera di vivere e non solo di pensare, che rifiuta le impasses del politicamente corretto, vuole l’uguaglianza dei diritti e i piaceri asimettrici della seduzione, il rispetto assoluto del consenso e la sorpresa deliziosa dei baci rubati»[2].
Con la rinazionalizzazione di un femminismo «specificamente francese» – ma non francofono – ciò che riappare è l’ingiunzione alla seduzione. La seduzione come struttura culturale dell’identità nazionale? Joan W. Scott ha decostruito la mitologia dell’articolazione tra seduzione e cultura francese, che permette da una parte di naturalizzare l’identità nazionale, dall’altra di legittimare la violenza e la diseguaglianza tra i sessi. È così che la differenza «naturale» tra i sessi serve da fondamento allo stato nazione moderno[3]. Questa «teoria francese della seduzione» viene proposta come modello di organizzazione sociale: anche quando il principio di seduzione è trasformato in diritto di importunare – un diritto che naturalmente riguarda soltanto gli uomini – si tratta sempre di confondere il potere del sovrano con il potere maschile.
Come scrive Paul B. Preciado: «quello che caratterizza la posizione degli uomini nelle nostre società tecnopatriarcali ed eterocentriche è che la sovranità maschile è definita dall’uso legittimo di tecniche di violenza […]. Potremmo dire, leggendo Weber e Butler, che la mascolinità sta alla società come lo Stato sta alla nazione: è il detentore e l’utilizzatore legittimo della violenza»[4]. Questa violenza giustifica gli abusi di potere nelle relazioni gerarchiche tra donne e uomini senza minimamente interrogare le categorie di genere. Gli scritti di Gayle Rubin, Judith Butler, Monique Wittig hanno invece mostrato che interrogare il genere significa mettere in questione il binarismo e la gerarchia implicite nel contratto sociale eterosessuale definito dalla differenza sessuale che trasforma i binarismi in complementarità.
Questa eterosessualità compulsiva e normativa va di pari passo con la costruzione di un mito nazionale declinato attraverso i codici culturali della seduzione e della galanteria, dove il cedere si sostituisce al consentire. Come afferma la filosofa femminista Geneviève Fraisse, in questa configurazione derivata da testi del XVIII secolo, le donne «sono destinate a lasciarsi vincere»[5]. Una volta poste le basi di questa differenza sessuale «alla francese», diventa possibile negare la realtà dei rapporti di potere attraverso una rappresentazione delle relazioni tra i sessi in cui la sessualità maschile è «naturalmente» fondata sul desiderio (più o meno «offensivo» o «selvaggio», come scrivono le 100), mentre alle donne non resta che gestire, nel modo più strategico possibile, il loro corpo e la loro sessualità. Inutile precisare che, secondo questa logica, le donne che hanno accesso a un certo grado di potere e di privilegio avranno possibilità maggiori di negoziare la loro sessualità in proprio favore. La retorica dell’«eccezione francese» si fonda su questo tono aristocratico e la parola libertà è la sua garanzia.
Il soggetto neoliberale
È proprio attorno all’uso della nozione di libertà che una rappresentazione dei rapporti tra i sessi fortemente basata sul rifiuto dell’uguaglianza, in uno spirito Ancien Régime, si sovrappone alla concezione neoliberale della libertà. La rappresentazione della «seduzione alla francese» che emerge dalla tribuna si basa sul diniego di ciò che è all’origine della rivolta di cui il #metoo è l’espressione, ovvero l’abuso di potere nei rapporti di lavoro. Alla realtà delle molestie e delle avances non volute, da cui dipende così spesso la carriera delle donne – o soltanto la possibilità di avere un reddito – viene opposta la finzione di un soggetto sovrano che dispone liberamente del suo «capitale sessuale» in assenza di ogni forma di condizionamento sociale o di rapporto gerarchico. L’immagine delle relazioni tra i sessi che ne emerge è conforme alla rappresentazione di un mondo senza conflitti, o peggio di un mondo in cui il conflitto non può esistere visto che il successo, o magari la possibilità di «cavarsela», dipendono esclusivamente dalle capacità individuali. L’assenza di solidarietà che è stata rimproverata alla tribuna è l’effetto di questa rappresentazione in cui la libertà è ridotta a un fatto individuale che non riguarda mai i rapporti sociali.
Scrivevamo in apertura al testo che la tribuna di Le Monde è emblematica di un problema che riguarda le élites francesi e il loro rapporto con le rivendicazioni espresse da soggetti minoritari, ovvero da coloro che sono costretti e costrette ad estrarsi dall’universalismo repubblicano per potere parlare. Questa borghesia bianca difende il suo privilegio di classe per poi sovrapporlo a una certa idea della libertà sessuale che nega l’abuso di potere. Quando infatti ci viene spiegato che «una donna può, nello stesso giorno, dirigere un team di professionisti e godere nell’essere l’oggetto sessuale di un uomo, senza essere una “puttana” o una vile complice del patriarcato», non soltanto questa donna viene collocata in una determinata classe sociale, ma l’appartenenza di classe diventa il segno di una separazione tra il personale e il politico.
Ciò che emerge dalla tribuna è infatti una rappresentazione della libertà sessuale a uso e consumo dei dominanti che reinterpreta le lotte degli anni Settanta svuotandole del loro portato politico. Così l’idea di una «libertà interiore» e «inviolabile», rappresentata come una sostanza di cui dispongono alcuni soggetti, restituisce l’immagine di una libertà senza liberazione: completamente isolata dalle rivendicazioni collettive di emancipazione, in particolare sessuale, espresse dai movimenti femministi, omosessuali, anticoloniali, antipsichiatria, eccetera. Ciò che resta delle rivolte del dopo ‘68 è la rappresentazione caricaturale di una libertà sessuale declinata in norma sociale, per cui il mantenimento dell’ordine eteropatriarcale accompagna il tentativo di neutralizzare i conflitti che attraversano i rapporti di genere, di classe e di razza nella Francia contemporanea.
La libertà dell’artista
Non è un caso se le firmatarie della tribuna propongono un parallelo tra libertà sessuale e libertà dell’artista. La concezione elitaria dell’artista che viene qui difesa ha il suo ancoraggio paradigmatico nella figura dell’artista moderno, che peraltro è stata decostruita da più di 40 anni tanto nell’arte stessa quanto nella critica d’arte che si è avvalsa di strumenti derivati dal marxismo, dal femminismo, dalle teorie queer o dalla psicanalisi. Il discorso mitico dell’artista come soggetto universale e disinteressato si è rivelato essere un costrutto storico-culturale, mentre è stato messo in evidenza il ruolo dell’arte nella produzione e nella riproduzione dell’ideologia. La rappresentazione della libertà come un’essenza riflette l’idea dell’autonomia dell’artista che esprime la sua individualità creatrice indipendentemente dalle circostanze e dai rapporti sociali. Può sembrare sorprendente che questa concezione autoreferenziale dell’arte abbia ancora tanta presa in questi ambienti culturali, che sembrano ignorare di proposito i molteplici nessi tra l’arte e l’ideologia.
Una tale rappresentazione della libertà creatrice non è di certo neutrale sul piano del genere. Nel suo celebre Perché non ci sono state grandi artiste? [6] Linda Nochlin ha mostrato che il «grande artista» è indissociabile dalla maschilità e che il sistema del «grande artista-genio-libero-autonomo» è al centro dell’edificio di una storia dell’arte patriarcale, bianca e eterosessuale. La cultura, nelle sue forme istituzionali, è il risultato di una selezione sovradeterminata da fattori di genere, di classe, di razza, di sessualità… non è affatto universale, ma è segnata dal potere in quanto ci parla dei rapporti di forza che strutturano il mondo come lo conosciamo[7]. Il lavoro della critica è proprio quello di analizzare il modo in cui le opere d’arte sono attraversate da questa complessità: è anche quello che numerose artiste e artisti esplorano nel loro lavoro.
La tribuna per la libertà di importunare stigmatizza ciò che viene percepito come un ostacolo alla libertà dell’artista, ovviamente sempre al maschile – si tratta di: Polanski, Brisseau, Schiele, Balthus, Antonioni, Nicolas Poussin, Gauguin, John Ford, Sade… e di tutti quei «poveri» artisti che le femministe vorrebbero censurare e mandare al rogo. Rimarchiamo intanto che non si tratta né di Louise Bourgeois, né di Annette Messager, né di Suzanne Santoro, di Candice Lin o di Zanele Muholi. Alcune di queste artiste sono state davvero messe all’indice o censurate, quando il loro lavoro non è stato semplicemente distrutto, come nel caso di Muholi, alla quale nel 2012 sono stati rubati una ventina di hard disk contenenti anni di fotografie, documentazione, films, interviste. Chi tra le firmatarie, se ne è preoccupata?
Nessuna. Infatti qui il problema non è la censura, ma la necessità di preservare questa concezione dell’arte come fondamentalemente estranea ai rapporti sociali. Prendiamo l’esempio del quadro Thérèse rêvant (1938) del franco-polacco Balthasar Klossowski de Rola, detto Balthus, che rappresenta una giovane adolescente seduta con una gamba sollevata che lascia intravedere il pube e la biancheria intima, esposta al Metropolitan Museum di New York. È vero che una petizione lanciata da una donna che si definisce «femminista» ha chiesto non la distruzione dell’opera, ma la rimozione dalla sala d’esposizione oppure una sua contestualizzazione. Il problema sollevato da questo quadro non ha niente a che vedere con il giudizio estetico, né con la sua legittimità nella storia dell’arte, ma riguarda l’opera d’arte in quanto capace di produrre senso ed emozioni. È possibile osservare questo quadro, analizzarlo nel contesto storico della sua realizzazione e nelle sue risonanze con l’oggi, interrogare il modo in cui la tela tratta della sessualità maschile, mette in scena lo sguardo, il corpo femminile, il corpo di una bambina?
Nell’operare una deliberata confusione tra censura e critica, la tribuna delle 100 se la prende in realtà contro ogni tentativo di interrogare l’arte nelle sue molteplici risonanze sociali e politiche. Decostruire, analizzare, criticare significa censurare? In una recente intervista la storica Michèle Perrot ha chiarito quanto questa prospettiva sia nefasta: «se si tratta di rileggere le opere del passato con i nostri occhi di oggi, è quello che facciamo ogni giorno; la critica suscitata dalla riflessione sul genere ci ha portati a leggere diversamente la letteratura […] questo tipo di critica non è soltanto legittima, è anche necessaria: ci permette di capire in quale sistema viviamo, da quali rappresentazioni dipendiamo»[8]. L’esercizio della critica non può essere confuso con la censura (peraltro se le opere fossero censurate o bruciate, non sarebbe più possibile criticarle).
È possibile provare del piacere di fronte a un’opera d’arte pur mantenendo uno sguardo critico? Forse il lavoro della critica consiste proprio in questa capacità di rendere produttiva tale ambivalenza e immaginare nuove alleanze, ad esempio tra la cinefilia e la decostruzione femminista. Questo potrebbe essere il ruolo della critica, che non si apparenta affatto a una censura, ma che non si limita neanche al ruolo celebrativo che è diventata. È talmente più stimolante tentare di scoprire i retroscena impliciti delle certezze magistrali, che accontentarsi di uno spazio di autosoddisfazione passiva nel quale si riflette l’ideale borghese di una libertà declinata in privilegio.
La Francia, paese dei dritti dell’uomo… al quadrato
E se si trattasse, in un medesimo movimento critico, di un movimento di decolonizzazione delle arti, del museo[9], delle menti? Non si tratta infatti di confrontarsi con una medesima concezione della libertà? La libertà dell’artista, affermata come corollario di quanto le autrici della tribuna chiamano «libertà di importunare» non si è costruita proprio al prezzo di un paradosso storico? Nel momento in cui la Francia, in effetti, crede di potere portare la libertà al mondo, mette in atto dei regimi di esclusione rivolti in particolare alle donne e ai soggetti postcoloniali che vengono così tagliati fuori dal paese degli uomini liberi. L’etichetta di «paese dei diritti dell’uomo» [droits de l’Homme], con la quale la Francia ama tanto presentarsi, ci è stata fin troppo imposta: è tempo di prenderla alla lettera, e di ribaltarla.
[1] Vedi ad esempio il testo Les féministes peuvent-elles parler?scritto da Hourya Bentouhami, Isabelle Cambourakis, Aurélie Fillod-Chabaud, Amandine Gay, Mélanie Gourarier, Sarah Mazouz, Émilie Notéris, Médiapart, 11.1.2018.
[2] Sull’affare DSK vedi Eric Fassin, Au delà du consentement: pour une théorie féministe de la séduction, in «Raisons Politiques», 2/2012, n. 46, pp. 47-66.
[3] Joan Scott, Sex and Secularism, New York, Princeton University Press 2017, p. 18.
[4] Paul B. Preciado, Lettera di un trans contro il regime dei sessi, «Internazionale online», 25.2.2018.
[5] Geneviève Fraisse in «Bibliobs», 14.1.2018.
[6] Linda Nochlin, Perché non ci sono state grandi artiste? (1971), trad. J. Perna, Roma, Castelvecchi 2015.
[7] Griselda Pollock, Encounters in the Virtual Feminist Museum. Time, Space and the Archive, London, Routledge 2007, p. 12.
[8] Michèle Perrot intervistata da Nicolas Truong su «Le Monde», 11.1.2018.
[9] Cfr. http://www.internationaleonline.org/media/files/decolonisingmuseums_pdf-final.pdf