La tempesta dei migranti sembra essersi per ora acquietata. Gli spregiudicati accordi siglati dal ministro Minniti con il governo e le milizie libiche e il nuovo codice di condotta imposto alle Ong hanno drasticamente ridotto gli arrivi, sebbene non abbiano fermato del tutto le partenze. Nell’agosto di quest’anno si è registrato un calo dell’86% degli sbarchi rispetto all’agosto del 2016: dietro a questa percentuale ci sono donne e uomini migranti che, nei loro movimenti per arrivare in Europa, sono sottoposti a violenze ancora più intense e alla prospettiva di uno sfruttamento ancora più brutale. Per il governo italiano restano comunque numeri da sbandierare a un elettorato per niente rassicurato dalla presunta fine della crisi: i dati tanto celebrati dell’occupazione nascondono una precarietà e un impoverimento senza fine. I numeri d’altronde parlano chiaro: dopo che la chiusura della rotta balcanica ha deviato il movimento dei migranti e delle migranti verso il Mediterraneo, la fase è nuovamente cambiata. Fino a che fondi italiani ed europei continueranno ad arricchire capibanda libici e finché i migranti e le migranti non riusciranno con la forza del loro movimento a ridefinire nuove rotte, questa è la realtà di chi cerca la libertà e una vita almeno diversa, se non migliore. Non è un caso che le mosse di Minniti siano state accolte con grande soddisfazione in Europa. I principali governi e la stessa Commissione europea sostengono che la drastica riduzione degli arrivi è necessaria, in attesa di aprire canali governati per l’immigrazione economica. Quello che dal governo e dalle destre affascinate dal ministro dell’Interno viene celebrato come un blocco è destinato a diventare un insieme di procedure di selezione per decidere chi è una «risorsa» per le economie europee, chi può marcire nei campi allestiti sulle rotte migratorie e chi infine deve aspettare di essere aiutato a casa sua.
Per il momento, però, l’accoglienza è stata esternalizzata a chi la può gestire senza dover osservare le convenzioni sui diritti umani, che d’altronde sono vissute con fastidio anche in Italia. Al governo italiano e alle sue diramazioni territoriali rimane la gestione amministrativa di una forza lavoro migrante il cui numero è considerato evidentemente adeguato e produttivo. Per fare un esempio, rispetto a pochi mesi fa l’Hub di via Mattei a Bologna ha visto calare di oltre la metà il numero dei migranti ospitati, che oggi sono circa 400. Sono numeri tutto sommato governabili attraverso un’accoglienza sempre più istituzionalizzata che sta uscendo dalla fase dell’emergenza per entrare in quella dell’efficienza. Questo è il sogno di Minniti, che sta già diventando l’incubo dei migranti: il sogno di ridurre il loro numero per amministrarne l’accoglienza in funzione della coazione a un lavoro sempre più povero, quando non gratuito. Quella che i migranti si trovano di fronte è un’accoglienza gerarchica che li separa per nazionalità, per sesso e per età individualizzando e isolando drasticamente i loro percorsi, contro ogni possibilità di comunicazione e azione collettiva. È un’accoglienza paternalistica, che si affida agli operatori per segnalare alla commissione territoriale chi accetta e chi rifiuta quello che è a tutti gli effetti un ricatto: la disponibilità a un lavoro gratuito. È infine un’accoglienza discrezionale che viene però attuata in punto di diritto affinché i percorsi di regolarizzazione siano subordinati a un razzismo istituzionale che prevede sempre meno permessi di soggiorno – per altro concessi con infiniti ritardi – e sempre più dinieghi.
In breve, l’accoglienza diventa parte integrante della gestione amministrativa della vita di donne e di uomini che, quando non sono detenuti in attesa di espulsione, sono rigettati sul mercato come lavoro nero e informale, comunque deprezzato e ricattabile per il solo colore della pelle, anche quando sarà autorizzato da un permesso umanitario. L’accoglienza sta dunque ridisegnando il modo in cui il lavoro migrante viene impiegato in Italia superando di fatto una legge (la Bossi-Fini) che, dopo aver chiuso tutti i canali di accesso legale, si è rivelata inadeguata a governare la marea dei migranti che hanno continuato a muoversi, cercando di entrare nell’unico modo concesso dalle leggi italiane ed europee: come richiedenti asilo e rifugiati, ovvero nelle forme che la Bossi-Fini non contempla. La legge Bossi-Fini pretendeva di regolarizzare in qualche modo i migranti, attribuendo alle imprese il potere pressoché esclusivo sulla loro forza lavoro. Non c’è mai riuscita, perché i migranti hanno trovato mille modi per praticare una regolarità sottratta al comando del padrone.
La grande crisi e l’intensità dei movimenti migratori degli ultimi anni hanno cambiato radicalmente la situazione. La rigidità di una singola legge è stata così sostituita da un regime flessibile e discrezionale che non riguarda solo gli ultimi arrivati, ma retroagisce anche sui migranti che vivono in Italia da anni, mettendoli in competizione con rifugiati e richiedenti asilo che, in una condizione di precarietà giuridica perfino più grave della loro, saranno impiegati nell’agricoltura per la raccolta, nel lavoro domestico e di cura, nella logistica. Una competizione che coincide spesso con l’erezione di muri di incomunicabilità e presa di distanza soggettiva tra differenti generazioni di migranti. Insieme al salario e al lavoro, si rischia anche il permesso di soggiorno così faticosamente conquistato. Non è un caso che a pagare per primi i costi di questa nuova fase in cui l’accoglienza ha superato l’emergenza siano proprio gli operatori sociali migranti, ovvero gli operatori a cui spesso sono delegati i turni notturni e più pesanti nei centri di accoglienza, i più ricattabili e su cui ora pende la seria minaccia del licenziamento. A tutto questo si aggiunge l’attacco razzista che usa come vergognoso pretesto la violenza maschile sulle donne, che diventa l’ennesima occasione per isolare tutti i migranti e cancellare il fatto che lo stupro è perpetrato da uomini – al di là di ogni religione, cultura e status giuridico – anche con il beneplacito dello Stato italiano e delle istituzioni europee, come avviene quotidianamente nei campi profughi istituiti in Libia per fermare gli sbarchi.
Continuare a vedere Minniti soltanto come un agente di repressione è un errore. Le sue politiche – a partire dal decreto firmato assieme a Orlando ‒ inaugurano una modalità di governo caratterizzata da una moltiplicazione delle gerarchie, un intricato sistema di confini interni eretti contro i migranti. Mentre si intensifica questo governo della mobilità, il confine nazionale tende a perdere ulteriormente la centralità che ha ancora avuto in questi anni in quanto luogo di transito e di blocco. Quanto più i confini vengono esternalizzati e moltiplicati all’interno, tanto più il governo dell’accoglienza funzionerà a regime, senza lasciare quei vuoti che finora sono stati occupati da forme di accoglienza non istituzionale e dal basso. Dove non arriva l’accoglienza, ci pensano il razzismo istituzionale e la repressione diretta a riportare l’ordine, come è successo a Roma in Piazza Indipendenza. Passando da una gestione emergenziale a una efficientista e pianificata delle migrazioni, l’accoglienza buona o degna che sia rischia costantemente di essere solo il supplemento di quella istituzionalizzata o indegna.
Sebbene siano gli spazi della politica autonoma dei migranti che si vogliono ridurre, il loro protagonismo non è venuto meno, ma ha bisogno di nuovi spazi di agibilità politica. Occorre cioè trovare nuovi canali affinché i migranti tornino a muoversi, spezzando le gerarchie che apparentemente non lasciano scampo a movimenti imprevisti. Le politiche di Minniti, in piena sintonia con l’Europa, vorrebbero realizzare il sogno non di fermare i movimenti dei migranti, ma di tenerli sotto il più stretto controllo per renderli funzionali alle esigenze economiche. Contro tutto questo, occorre perciò mobilitarci per rompere l’isolamento e spezzare le gerarchie, per stabilire collegamenti politici tra condizioni drammaticamente differenti, per un permesso di soggiorno europeo senza condizioni su cui la rete di Sconfinamenti sta puntando da alcuni mesi. Un permesso che garantisca ai migranti non la possibilità di ottenere un’accoglienza coatta, ma la libertà di muoversi per decidere della propria vita e di rompere quella condizione di attesa e di controllo che marchia le loro vite precarie e sospese. Non possiamo fare appello a generici diritti umani, in nome dei quali l’Unione Europea ha prodotto gli accordi di Dublino, la relocation e i provvedimenti diretti a mettere a regime un’inclusione selettiva che colpisce migranti e precari. Non basta sovvertire narrazioni tossiche sui migranti, né rendere più accettabili le forme di un’accoglienza che condanna comunque alla subordinazione e alla precarietà. Non basta neppure fare appello ai sogni della società civile e invocare l’inclusione contro il razzismo, quando l’inclusione è garantita attraverso il razzismo istituzionale, lo sfruttamento e la quotidiana riduzione al silenzio delle migranti e dei migranti. Per fare a meno dei sogni occorre creare le condizioni politiche affinché i migranti non siano l’oggetto di una generica solidarietà coatta e benevola, ma agiscano in quanto soggetti politici che, partendo dalla propria libertà di muoversi fuori da ogni controllo coatto, incrociano le espressioni di rifiuto e di insubordinazione che attraversano tutta la società.