Questa recensione è stata pubblicata su «Il Manifesto» del 13 aprile 2017
Cos’hanno in comune un dormitorio per lavoratori interinali a Pardubice, un camion usato come palco per comizi sindacali fuori da una fabbrica di Manaus, un magazzino stipato a Shenzen? Niente, se non il fatto di essere scorci nascosti di continenti lontani, tanto differenti da sembrare collocati su pianeti diversi, ma in realtà posizionati su di una stessa catena transnazionale del valore. Foxconn, multinazionale di elettronica al centro di questa particolare catena, non è però che una delle imprese che hanno contribuito a ridisegnare le geografie globali della produzione analizzate in Le reti del valore. Migrazioni, produzione e governo della crisi, a cura di Sandro Chignola e Devi Sacchetto (DeriveApprodi, pp. 259, euro 18,00). Questa raccolta di quattordici testi sociologici, etnografici e teorico-politici, si pone, nelle parole introduttive dei curatori, il problema politico di «pensare una connessione tra gli spazi e i tempi (produttivi e politici, individuali e collettivi) che il capitale cerca costantemente, e con violenza, di separare e che la composizione complessiva del lavoro permette invece di unificare come nuova condizione comune». La raccolta dà allora voce alla condizione dei migranti nei luoghi più disparati, dal Sud Italia alla Russia, per mostrare la doppia natura del lavoro migrante come rapporto di dominio e dispositivo di soggettivazione, «soglia di ubbidienza» e «spazio di politicizzazione», secondo le formule di Maurizio Ricciardi.
Non si tratta dunque solamente di un’indagine volta a scandagliare il cuore nero dell’economia globale nei suoi effetti sulle classi subalterne, bensì di una ricerca collettiva tenuta insieme dal filo conduttore delle migrazioni e specificamente dei migranti come soggetto autonomo che incarna il «non più» della cittadinanza. Il lavoro migrante e i processi di soggettivazione che innesca permettono di gettare luce sulla trasformazione contemporanea delle relazioni produttive transnazionali, e, come suggerisce Gabriella Alberti nel suo saggio sul sindacalismo ibrido dei migranti, di «reinventare forme di mobilitazione e negoziazione perfino dentro i luoghi di lavoro frammentato». All’interno di questo scenario, l’Europa rappresenta uno spazio cruciale, in quanto «accomuna oggi attori istituzionali ed economici in ogni parte del globo» interessati a trarre profitto da una vera e propria «nuova logistica europea» (Giorgio Grappi) che ridefinisce la funzione dei confini esistenti. In questo contesto, la mobilità del lavoro e del capitale si danno – nelle parole di Devi Sacchetto e Rutvica Andrjiasevic – come «forza costitutiva nella strutturazione del mercato del lavoro», disarticolando il rapporto tra forme istituzionali, organizzazione economica e territorio.
Fuori da ogni nostalgico lavorismo, il volume mette in luce la rilevanza del lavoro industriale per comprendere i processi di soggettivazione attuali, rileggendolo però attraverso categorie nuove: razionalità logistica, mobilità, Stato globale, ma anche informalizzazione, etnicizzazione, de-delocalizzazione in un contesto mondiale trasformato in profondità dal neoliberalismo e dai processi di finanziarizzazione. Queste sono le parole che risuonano in tutti i saggi, a riprova dell’insufficienza della categoria di cognitariato come ombrello onnicomprensivo capace di cogliere la complessità di reti del valore segnate da gerarchie marcate, da dislivelli di potere enormi. Piuttosto, come emerge nel saggio conclusivo di Vando Borghi, la «città del lavoro» e «la città della conoscenza» convivono creando un campo di tensione, di conflitto, che sfugge ai tentativi di appropriazione. È un conflitto, questo, che difficilmente può esaurirsi nell’immaginario pacificato della società reticolare, orizzontale, che connette lavoro e conoscenza, ma deve scontare l’imporsi sulla scena di soggetti – precari, migranti, operai, donne e uomini – che mettono continuamente a nudo la violenza che si cela dietro la valorizzazione della cooperazione sociale. Da un lato, la trasformazione della conoscenza in «basi informative» (algoritmi, programmi informatici, indicatori di performance, parametri di valutazione) e, dall’altro, le dinamiche di impoverimento e marginalizzazione del lavoro vivo contribuiscono a intensificare un processo di individualizzazione che, da originario progetto di emancipazione, diventa un prerequisito che costringe ciascuno e ciascuna a trovare «soluzioni biografiche» a problemi collettivi e strutturali.
Contro questo nuovo spirito del capitalismo che usa i processi di individualizzazione per esercitare un dominio assoluto sul tempo, i migranti, figura chiave dell’intero volume, si pongono come forza dirompente capace di politicizzare la differenza data dalla presenza di una massa di individui messi al lavoro. Se guardati dal punto di vista eccentrico dei migranti, perfino gli stereotipi razziali e razzisti acquistano una valenza inaspettata. Ad esempio, letta contestualmente allo sviluppo dell’industria della moda, l’auto-segregazione dei migranti cinesi risulta non già una specificità etnica, ma il mezzo di «compressione della diversità della forza lavoro nel contesto globale della crescente diversità del lavoro». Come mostra Antonella Ceccagno, nella rete di laboratori terzisti cinesi della moda italiana le dinamiche di etnicizzazione della forza lavoro e di delocalizzazione «in loco» della riproduzione sociale diventano assi di produzione di profitto, precondizione per un «fluido funzionamento» del regime mobile del fast fashion.
Allo stesso modo, il furto di materie prime e di merce finita nelle grandi fabbriche tessili in Romania che producono per le grandi firme, lungi dal confermare lo stigma del romeno ladro, viene a simboleggiare la contestazione materiale del furto che la forza lavoro subisce quotidianamente. Come spiega Veronica Redini, rubare un capo di alta moda cucito e assemblato in Romania, ma comperato esclusivamente nelle boutique delle capitali dell’Europa occidentale, per rivenderlo o tenerlo per sé non è solo un risarcimento del proprio sfruttamento, ma è espressione di una conflittualità operaia che non trova nessuna mediazione sindacale e sfugge all’organizzazione politica collettiva; la cifra, cioè, di una rivolta silenziosa contro un ordine in cui il lavoro materiale, strutturalmente sottopagato, deve essere invisibilizzato e allontanato. Questa è l’altra metà del made in Italy, marchio di uno sfruttamento subìto soprattutto dalle donne migranti, che, mentre con i loro movimenti e la loro ricerca di libertà mettono in discussione le strutture patriarcali di potere, si ritrovano sempre più oppresse dal doppio carico di lavoro produttivo e riproduttivo. Tanto in Veneto quanto nei Paesi della Ex-Jugoslavia, nota Chiara Bonfiglioli, la crisi (ormai normalizzata) costringe infatti le migranti a tornare al lavoro domestico, andando ad alimentare «un welfare informale, tollerato e sussidiato dai poteri pubblici» (Francesca Alice Vianello).
La collezione dei saggi contenuti in Le reti del valore allude insomma non soltanto alla produzione reticolare del valore a livello mondiale, ma anche e specialmente alla cattura del valore da parte di reti intrecciate di sfruttamento, informalizzazione, segregazione funzionale, retoriche umanitarie e mobilità governata per mezzo della costante produzione di norme legislative e amministrative. Eppure, l’immagine delle reti non evoca solamente l’«irretimento» quotidiano a cui è soggetto il lavoro vivo. Fotografa anche una situazione che si evolve con rapidità e lungo traiettorie impreviste, lasciando spazio ai movimenti reali che non si lasciano catturare da queste reti, ma le sommergono con la potenza di una marea che non risparmia nessun angolo del globo.