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La silenziosa ascesa al potere di un dizionario del dominio

di MAURIZIO RICCIARDI

Una versione abbreviata di questa recensione è stata pubblicata su «Il Manifesto» del 5 aprile 2017.

All’ordine del giorno è la disgiunzione tra capitalismo e democrazia. Per una lunga stagione, la seconda è stata intesa come un correttivo delle devastazioni prodotte dal primo. Democrazia era il nome del primato della politica sull’economico e sul sociale, relegati al ruolo di aggettivi che dovevano indicarne il contenuto e la direzione. Parlare di post-democrazia significa registrare che oggi, nella sua fase neoliberale, il capitalismo procede selettivamente ma programmaticamente a disattivare le procedure democratiche. Il nesso tra democrazia e capitalismo è così costantemente riconfigurato in funzione della produzione di profitto, cancellando tutti quei meccanismi di reintegrazione e risarcimento previsti dalle democrazie postbelliche in Occidente.

Il Lessico postdemocratico, curato da Salvatore Cingari e Alessandro Simoncini (Perugia, Stranieri UP, disponibile a questo link) dà conto non solo della cesura tra capitalismo e democrazia, ma anche del modo in cui questa funziona come strumento interno alla crisi, utile per rimuovere il consenso sui valori un tempo costitutivi dello Stato democratico e soprattutto per adeguare in continuazione le amministrazioni locali all’esercizio del potere globale. Un lessico non ha la pretesa di fornire una teoria complessiva delle trasformazioni della democrazia. Esso presenta alcuni frammenti che ricoprono un ruolo strategico nella transizione in atto, per la quale la categoria gramsciana di interregno, già riproposta da Etienne Balibar, serve a delineare un processo complesso e senza una destinazione predefinita, nel quale dispositivi economici, istituzionali, repressivi e linguistici ridefiniscono in continuazione il discorso democratico e la sua legittimità. Giustamente viene riconosciuto il peso decisivo che all’interno di questo meccanismo hanno avuto e tuttora hanno i movimenti dei migranti. Se «lo sfruttamento del lavoro migrante sembra restare l’obiettivo condiviso al centro dell’intero dispositivo europeo», esso trova il suo correlato istituzionale nella tendenza a produrre una democrazia dell’esecutivo. Il capitale diviene il titolare manifesto del potere politico, la figura non rappresentabile che orienta costantemente politiche e decisioni. In questo lessico dell’«apocalissi della democrazia rappresentativa» non può mancare il lemma «crisi». Esso investe tanto l’economia quanto i territori con una semantica che non rimanda più a periodi circoscritti tra fasi di sviluppo economico. La parola crisi ormai «non dice più niente», perché designa una costituzionale condizione di squilibrio che stabilisce la cifra del rapporto sociale di capitale, mostrando lo scarto tra la capacità di produrre ricchezza e l’ordine della società. Mentre ha evidenziato le difficoltà del governo neoliberale della società, la crisi del 2008 ha anche mostrato la sua capacità di intensificare lo sfruttamento della forza lavoro e dei territori. La precarietà non impone la necessità di trovare una nuova e più appropriata misura per remunerare economicamente e socialmente il lavoro, ma rivela una situazione in cui «la produttività della cooperazione sociale non è misurabile in termini di produttività individuale». La «precarietà» è la figura che domina la transizione postdemocratica, nella quale la finanza è ormai la forma sociale del dominio del capitale, in grado di determinare non solo il rapporto tra rendita e profitto, ma anche il regime del salario, ovvero la dismisura tra coazione al lavoro e reddito percepito. Se la precarietà è un elemento fondante del capitalismo postdemocratico («biocapitalismo»), altrettanto vale per la richiesta di un reddito incondizionato o di esistenza che dovrebbe funzionare sia come «fattore di liberazione comune», sia come «elemento di regolazione istituzionale adatto alle tendenze attuali del nostro capitalismo».

In un lessico postdemocratico non può evidentemente mancare neppure la voce «governance», che negli ultimi decenni è servita a stabilire il primato non solo degli esecutivi, ma delle decisioni politiche prese al di fuori della cornice statale. È in suo nome che è avvenuto il passaggio «dalla democrazia della rappresentanza alla democrazia dell’efficienza». Questa economia politica della democrazia impone la legittimazione della diseguaglianza come paradossale valore democratico. Sotto il nome di «meritocrazia» le differenze di classe divengono una componente necessaria della nuova forma politica che mira a stabilire non solo gerarchie e deferenze, ma anche una sorta di antropologia postdemocratica fondata sull’autorità e sulle abilità di comando di coloro che vengono selezionati sulla base del merito, ovvero sulla loro capacità di interpretare e ampliare le richieste sistemiche.

Se questi sono almeno alcuni dei caratteri della post-democrazia, bisogna anche aggiungere che essa non è solo una riconfigurazione istituzionale, ma è caratterizzata dalla «continua tensione tra una produzione del comune e una privatizzazione, una recinzione dello stesso». Essa stabilisce in definitiva i tempi e i modi di un’appropriazione del prodotto sociale alla quale si dovrebbe rispondere con una politicizzazione di quei beni che «mettono in discussione la proprietà privata non meno di quella pubblica». Che questa politicizzazione possa avvenire attraverso le norme giuridiche è problematico, ma rivela il ruolo che il diritto continua a giocare anche nella destrutturazione della democrazia. Se il «grande processo di trasformazione dei beni comuni in capitale finanziario è la cifra della modernità, compreso il costituzionalismo liberale», esso si rispecchia nella riconfigurazione della cittadinanza in termini di sicurezza e nell’individualizzazione e privatizzazione dei rischi.

Il ritorno all’individuo su cui si fonda il discorso postdemocratico ha necessariamente bisogno di presupporre l’esistenza di un soggetto in grado di legittimare le scelte politiche anche quando si rivolgono contro la centralità politica del popolo democratico. L’onnipresenza del «populismo» nel discorso pubblico e scientifico contemporaneo sembra svolgere la funzione di assicurare e rassicurare sulla presenza di una comunità naturalizzata e sulla possibilità di attingere a «stili politici» anche antidemocratici. Mentre sembra puntare a «‘democratizzare’ la democrazia e a ridare voce al popolo», l’argomento populista stabilisce in realtà i presupposti per una decisione politica svincolata dalle procedure. Anche quando punta alla ricostruzione di un’identità politica esso finisce per stabilire uno specifico campo del potere che deve essere in qualche modo rappresentato secondo le modalità più classiche dell’unificazione politica.

Questa prima ricognizione del lessico postdemocratico lascia intravedere profonde trasformazioni che investono la democrazia come forma politica di un rapporto sociale di dominio. Allo stesso tempo, tuttavia, proprio l’uso contrapposto che viene fatto dell’argomento populista mostra che ci sono movimenti, tra i quali quello dei migranti è globalmente il più significativo, che ormai sfuggono irrimediabilmente tanto a una politica delle identità quanto a quella del più classico formalismo. Se la democrazia non riesce più a moderare il capitalismo è prima di tutto perché non riesce a rispondere a questi movimenti.

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