Alla vigilia del 60° anniversario dei Trattati di Roma, e pochi giorni dopo il secondo anniversario dell’inaugurazione della nuova Banca Centrale a Francoforte, che coincide con il primo anniversario dell’entrata in vigore dell’accordo tra UE e Turchia su migranti e profughi, vale la pena ripensare l’Europa come spazio centrale per l’iniziativa politica attuale. Una prima serie di domande riguarda l’occasione: può una scadenza istituzionale essere ancora il momento di contestazione dell’ordine neoliberale europeo? Può esserlo se pensata al di fuori del movimento dello sciopero che sta travolgendo il globo, scatenando reazioni di insubordinazione e processi di organizzazione in ogni punto da esso toccato? Possiamo tornare alla politics as usual, quella del controvertice dal basso che ha caratterizzato per anni i forum sociali?
Per rispondere a queste domande è utile tornare indietro al grande contro-evento autonomo, che più di ogni altro ha messo in questione la tradizione dei controvertici: la primavera di Blockupy. Il lungo processo di preparazione della spettacolare mobilitazione del 18 marzo 2015 contro la BCE ha posto le basi per la creazione di uno spazio di comunicazione politica europea in cui donne e uomini, precarie, migranti e operai, hanno fatto – e tuttora fanno– valere la loro rivendicazione di potere. Dopo quel giorno non si è voluto, o non si è saputo cogliere il potenziale di insubordinazione che si era espresso sul piano europeo. Troppo in fretta si è rinunciato alla pretesa di dettare chiaramente i termini della questione, ovvero su quali terreni può essere giocato lo scontro con l’ordine neoliberale europeo, nonostante quella giornata e i suoi antefatti avessero catalizzato un sentimento di rivolta né solamente contro l’UE come simbolo, né esclusivamente contro le sue istituzioni, bensì contro un governo europeo costituito dal regime dei confini, dal governo della mobilità, dalla precarizzazione e gerarchizzazione della forza lavoro, dall’impoverimento e dalla coazione al lavoro attraverso il workfare, l’unico modo per elemosinare residui di un welfare finanziarizzato.
Ciò che rimane di quella giornata e dell’intenso lavoro preparatorio è perciò qualcosa di più della richiesta astratta di democrazia e trasparenza, o della solidarietà bianca contro i confini e le espulsioni. Rimane la registrazione della rilevanza dello spazio europeo come terreno di scontro attraversato da fratture, differenze e gerarchie, uno spazio che non è racchiuso semplicemente dentro le frontiere dell’Unione ma che si allarga fino a quelle esterne inaugurate dagli accordi con la Turchia e con la Libia. Uno spazio, cioè, non solo istituzionale, ma attraversato da flussi e corridoi e punteggiato da ben protette zone economiche speciali. Queste aree, parzialmente o totalmente sottratte al controllo delle istituzioni europee e nazionali, ma da esse autorizzate e legittimate, sono tanto quelle colonizzate dalle grandi imprese multinazionali che controllano le catene transnazionali della produzione e dello sfruttamento, quanto quelle isole di illegalità su cui vivono i migranti e i rifugiati all’interno delle grandi città, degli hotspot, dei centri di accoglienza e detenzione. Qui, a Nord come a Sud, a Est come a Ovest, il lavoro migrante istituzionalmente sottopagato, quando non gratuito, è la moneta di scambio per ricevere un’accoglienza precaria e disumanizzante, che non dà nessuna garanzia contro la minaccia di espulsioni. Finanche la socialdemocratica e civile Svezia ha appena decretato che i rifugiati dovranno ricevere per legge un salario inferiore al minimo nazionale, dopo aver approvato nel 2016 una legge che sigilla le porte ai migranti in nome della sicurezza sociale. Questa è la natura del regime europeo del salario, il vero «spirito europeo» contro cui da qualche anno sta catalizzando esperimenti inediti di organizzazione la Piattaforma dello Sciopero Sociale Transnazionale, costruita da una moltitudine di soggetti, collettivi e sindacati di diversi paesi a partire dalla consapevolezza della necessità di un’iniziativa politica che si ponga sullo stesso piano dell’attacco.
Può qualunque mobilitazione europea d’ora in poi chiudere gli occhi davanti a questo scenario? Pecca forse d’ingenuità chi pensa che l’Europa avesse qualche originaria promessa da mantenere che solo un’azione di contestazione più o meno radicale potrebbe rivitalizzare, tornando ai famosi padri fondatori? Attestarsi alla richiesta di democrazia e trasparenza sconta il chiaro limite di trascurare la materialità della sincronizzazione dello sfruttamento orchestrata da istituzioni e governi europei, in accordo con il capitale globale, e implementata grazie alle varie e più o meno recenti riforme nazionali di lavoro, welfare e migrazioni. Lo scenario dell’Europa a due velocità, venduto come novità nel Libro Bianco 2017 della Commissione, non aggiunge niente di più a questo processo in atto, semmai prospetta il traguardo che tutti gli Stati devono prima o poi raggiungere, ad ogni costo.
Allo stesso tempo, un europeismo «radicale» è davvero la risposta al neo-sovranismo nazionalista e al populismo xenofobo? Se promuovere un federalismo dal basso può sembrare la giusta mossa per contrastare politiche di restrizione alla libertà di movimento e politicizzare l’opinione pubblica, e l’esempio dei 200.000 pro-refugees a Barcellona lo dimostra bene, difficilmente esso può darsi a prescindere dalla buona volontà di alcune istituzioni locali o senza il fondamentale contributo di magnanime associazioni caritatevoli, religiose o laiche che siano. Basare su questa benevolenza un’iniziativa di lotta sul piano europeo che si vuole autonoma è quanto meno problematico. Pretendere che il movimento di insubordinazione al neoliberalismo che sta attraversando il globo, con alla testa soggetti transnazionali quali i migranti e le donne, sia incanalabile in progetti locali di costruzione di spazi di alternativa circoscritti è altrettanto problematico. Di fronte a uno spazio europeo sempre più segmentato e gerarchizzato, la prospettiva del federalismo radicale tenta però quanto meno di rovesciare contro l’UE la complessità del suo spazio. La prospettiva neo-sovranista invece torna a difendere lo Stato e quindi anche i suoi confini; vive dell’illusione che in uno Stato rinazionalizzato si potrebbe condizionare o addirittura «prendere il potere». Nessuna simmetria quindi tra le due prospettive. Noi ci chiediamo però come essere all’altezza del compito che abbiamo davanti, ovvero rovesciare la sincronizzazione europea dello sfruttamento nel senso di una insubordinazione di massa transnazionale, senza passare per la determinazione istituzionale dell’uguaglianza. L’appello affinché una politica dal basso faccia del piano locale o municipale il suo terreno d’elezione, per poi volgersi all’Europa, rischia di riprodurre la contrapposizione tra locale e transnazionale, non scontando il fatto che spesso l’indipendenza decisionale delle amministrazioni locali risulta tale fino a prova contraria, cioè fino a che l‘ormai conclamata tendenza degli esecutivi ad accentrare il potere decisionale non si fa sentire. Davanti al crescente arbitrio degli Stati membri viene da chiedersi: da dove ripartire con la nostra azione politica? Qual è il nemico, se ormai è chiaro che la dimensione locale è una parte costitutiva dei processi che poi la sovradeterminano?
Sono forse i diktat delle istituzioni europee, tra cui la Commissione, che invano si sforza da mesi di imporre accordi di relocation, raccogliendo scarsissimi successi? Questa risposta è perlomeno insufficiente. L’arbitrio degli Stati, cioè la loro «sensibilità» a processi di valorizzazione e di espropriazione che hanno bisogno della scala locale, sta mettendo in discussione l’efficacia di un’azione istituzionale europea, delegittimando e sminuendo il tentativo dell’Unione di avanzare politiche collaborative sull’immigrazione, ma anche sulla precarietà e la mobilità. Dalle trattative per la Brexit, alla contestazione polacca della nomina di Tusk alla presidenza del Consiglio Europeo, sembra che la credibilità dell’Unione Europea sia forte solo quando si tratta di derogare da Schengen o di sospendere gli accordi di Dublino. Gli effetti tangibili sono, fra gli altri, l’aumento della discrezionalità per negare l’accesso al permesso di soggiorno e alla cittadinanza (dai motivi di sicurezza nazionale, alla dilazione della concessione finché non vengono meno i requisiti) e l’armonizzazione delle politiche del lavoro gratuito o quasi gratuito per i rifugiati. Malgrado la compressione dello spazio di manovra dell’UE, risulta dunque falsa l’alternativa tra Europa e Stato-nazione. Chi il 25 marzo contesterà l’Europa in nome dello Stato-nazione difenderà un simulacro inesistente, difenderà un centro di decisione che semplicemente non c’è più, se non in quei tristi desideri destinati a trasformarsi in incubi. Anche quando prendono il nome di populismo dal basso e pretendono di parlare a fantomatiche classi operaie bianche, quei desideri in realtà si rivolgono alle paure armate dei bottegai di ogni colore. Le decisioni politiche operano per porre costrizioni alla libertà di muoversi e di restare, usano i differenziali salariali e i differenti regimi di welfare come incentivi o disincentivi alla mobilità e come meccanismi di gerarchizzazione della forza lavoro.
Eppure, anche grazie alle residue possibilità aperte dalla libera circolazione dei lavoratori, lo spazio europeo offre l’opportunità di fare fronte comune contro il regime europeo del salario e il suo governo della mobilità. Su questo piano, le iniziative sul modello di «una giornata senza di noi» o le manifestazioni di solidarietà ai rifugiati si stanno moltiplicando – non ultima la giornata internazionale di azione del 18 marzo promossa da City Plaza Hotel di Atene –, mettendo insieme migranti e non, uomini e donne consapevoli che sulla pelle dei migranti, il cui movimento è inarrestabile, si gioca la partita della libertà di tutte e tutti. Lo sciopero dell’8 marzo ha allargato a dismisura questa fessura già aperta, producendo la prima vera sollevazione globale contro il neoliberalismo patriarcale, che non ha solo la faccia truce di Trump, di Erdogan, di Macri, di Juncker, di Orban, di Szydło, ma anche i volti più composti di chi giorno dopo giorno, pezzo dopo pezzo, opera per mettere a tacere la quotidiana insubordinazione di precarie, operai, migranti, studenti. Quella sollevazione ha tratto impeto dalla capacità di un soggetto parziale, le donne, di produrre uno schieramento chiamando in causa tutte e tutti coloro che si oppongono allo stato di cose presenti. Produrre momenti di comunicazione e iniziativa politica di donne e uomini, migranti, precarie e operai, che possano a loro volta condurre a ulteriori momenti di sollevazione, è il modo, anche dall’Europa, di porsi all’altezza del movimento globale dello sciopero. Se prescinde da questa prospettiva, nessun altro modo di intendere le istituzioni, nessun’altra forma di sovranità, nessun’altra opposizione dal basso a questo o quel singolo capo di Stato, nessuna coalizione tra pezzi internazionali di movimento può essere capace di rispondere all’esigenza di una politica che prende seriamente l’Europa come terreno di scontro. Per liberarsi dalla dipendenza simbolica e pratica dal calendario di questo o quel governo locale o sovranazionale, un movimento europeo deve impattare i nodi in cui viene esercitato il comando assoluto sulla vita e sul tempo.
La nostra infrastruttura politica delle lotte ha bisogno di parole d’ordine qualificate e terreni di azione ben determinati. Se bastasse un sentimento diffuso di inimicizia a quest’Europa per costruire una supposta alterità profonda, con il suo portato di neocolonialismo da Commonwealth 2.0, la Brexit non sarebbe altro che l’inizio di un trend positivo. Forse l’inasprimento del razzismo istituzionale britannico è l’effetto collaterale di un’altrimenti positiva ripresa di vigore della coscienza di classe? È di questo che parliamo assistendo al licenziamento di massa delle infermiere europee che rischia di far collassare la sanità inglese? Sembrerebbe piuttosto che il profluvio di idee sull’abolizione dell’Unione stia mancando il bersaglio di dare voce alla pretesa di libertà che il movimento globale dello sciopero ha avuto il coraggio di portare alla luce: liberazione dallo sfruttamento, nel lavoro produttivo e riproduttivo, e dalle condizioni politiche e sociali che lo producono e riproducono, siano queste nazionali o sovranazionali.
Sfuggire all’alternativa Europa sì, Europa no è allora il compito che abbiamo di fronte, cogliendo la sfida di portare la politica globale dei movimenti dentro l’Europa. Si potrebbe persino dire che quell’alternativa semplicemente non si pone. Siamo dentro l’Europa. Siamo cittadine e cittadini europei che rifiutano la cittadinanza europea, perché per noi non è abbastanza e non perché ne vogliamo una più ristretta e nazionale. Rivendichiamo un salario minimo europeo, un welfare europeo, e il permesso di soggiorno europeo senza condizioni perché non contestiamo il governo europeo in nome di altri governi, ma per aprire spazi di azione e insubordinazione ai movimenti in Europa. Per essere all’altezza dei tempi e dello spazio transnazionale su cui deve porsi, la nostra infrastruttura politica deve essere capace di ripensare il nesso tra forme organizzative e programma politico. Il movimento dello sciopero ci indica questa possibilità: solo quelle rivendicazioni che si pongono come obiettivo di catalizzare e allargare tale movimento potranno indicare terreni di reale convergenza. Il 25 marzo a Roma – ma lo stesso vale per il 26 e il 27 maggio a Taormina e per il G20 ad Amburgo ‒ non sarà una dimostrazione di forza in piazza, o una serie di dimostrazioni, a sostituirsi a un processo che travalica le scadenze contro-istituzionali. Il calendario dei movimenti europei non può restare cieco e sordo davanti al movimento globale dello sciopero. Saranno i movimenti capaci di attraversarlo e di farsi attraversare da questo movimento, o si attarderanno a combattere contro l’ultima Europa?