di DEVI SACCHETTO
Ieri è morto Italo Sbrogiò, operaio e comunista che, con molti altri come lui, ha fatto la storia di un ciclo potente di lotte operaie attorno al Petrolchimico di Porto Marghera. Ne affidiamo il ricordo alla prefazione di Devi Sacchetto all’ultimo libro di Italo, La fiaba di una città industriale. 1953-1993, 40 anni di lotte (Venezia, 2016).
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Il volume che avete tra le mani è l’ideale prosecuzione di Tuberi e pan seco (Venezia 1990), il precedente sforzo intellettuale di Italo Sbrogiò che illumina il passaggio dal lavoro precario delle campagne al lavoro industriale di una generazione cresciuta nell’area di Porto Marghera. In questo volume, invece, l’autore si concentra sull’esperienza operaia che si svolge all’interno degli 800 ettari del Petrolchimico, soffermandosi con dovizia di particolari non solo sul processo lavorativo ma soprattutto su come questa forza lavoro si forma come classe, prevalentemente maschile, per poi essere ricacciata nuovamente nel ruolo di lavoratore salariato.
Italo Sbrogiò, classe 1934, inizia a lavorare con regolarità alla Sacaim di Marghera, Venezia, il 1 aprile del 1950. Dal 21 marzo del 1952 al 22 giugno del 1955, sempre sotto Sacaim lavora in Sice-Edison e dal 23 giugno di quell’anno viene assunto direttamente dalla industria chimica stessa. Per circa quarant’anni, Italo lavora come dipendente al Petrolchimico di Porto Marghera, prima in Sice-Edison e poi in Montedison, fino al pensionamento nel settembre del 1989, occupandosi in seguito del controllo di qualità quale consulente per la stessa struttura produttiva.
La preziosa ricostruzione storica messa in campo dal punto di vista operaio, inizia quando le rovine della Seconda guerra mondiale sono un ricordo e termina quando lo smantellamento del Petrolchimico è in fase avanzata. L’espansione dell’industria chimica nell’area di Marghera, come altrove, appare negli anni Cinquanta una sorta di meraviglia della tecnica e delle magnifiche sorti progressiste di cui l’Italia ha un estremo bisogno. L’invisibilità della produzione chimica non impedisce però agli operai di comprendere, piuttosto in fretta, la nocività occultata. Si tratta di una forza lavoro che proviene in larga parte dalle aree rurali, abituata a piegare la schiena nelle campagne davanti al paròn e tutt’al più a ricavare un misero reddito da piccoli appezzamenti di terra. Entrati nella grande fabbrica, questi operai trovano un lavoro apparentemente meno faticoso, ma che li consuma attraverso la standardizzazione delle loro giornate e la gravosità di mansioni che si ripercuotono sulla loro salute.
Se i percorsi scolastici di questi operai sono stati brevi, d’altra parte essi costruiscono strumenti formidabili di auto-apprendimento dentro e fuori gli stabilimenti. La crescita progressiva di questa soggettività operaia è tanto più importante perché avviene in una regione, il Veneto, dove le forze di sinistra prima snobbano l’espansione industriale e poi ne sono magnetizzate, piegandosi anche alle necessità produttive. In una realtà industriale non dissimile da quanto accade in quegli anni a Torino, o in anni più recenti nelle gigantesche aree industriali cinesi, una forza lavoro eterogenea riesce a costruire un progetto politico articolato che tenta l’assalto al cielo. A Marghera si coagula infatti una forza operaia che non solo riesce a contenere l’avversario di classe ma che qualche volta riesce a piegarlo. È una storia quindi dura e fatta di nocività, ma è anche un processo di emancipazione di individui che non avevano alcuna legittimità nello spazio pubblico e che lo conquistano attraverso laceranti rotture, in particolare con il Partito comunista e con le organizzazioni sindacali.
La formazione di una classe è un lungo processo politico e sociale che si compie all’interno e all’esterno del luogo di lavoro. Essa non si costituisce solo come semplice conseguenza dello sviluppo industriale ma si innesta sulle differenze di classe e sulle speranze che la guerra partigiana prima e la costruzione di una Repubblica poi avevano fornito. Nel caso di Marghera questa formazione avviene anche grazie all’appoggio di intellettuali e studenti, costruendo un proprio gruppo politico, Potere operaio, che nella situazione di Marghera è l’organizzazione che incide di più e più a lungo.
Nelle lunghe e continue discussioni, anche accese, si salda un gruppo che deve fare i conti quotidianamente non solo con il padronato, ma anche con le organizzazioni sindacali che ritengono di disporre del monopolio della rappresentanza. Quello che è stato definito il compromesso di classe, a Marghera viene messo in discussione già a partire dai primi anni Sessanta quando l’iniziativa politica si esprime attraverso la rivendicazione di una dignità nel luogo di lavoro contro sia le pratiche di una struttura di comando che rimaneva in mano a molti ex-gerarchi fascisti sia a un sindacato che contratta su aspetti irrilevanti che non cambiano la dura condizione operaia. Gli anni Sessanta e gli anni Settanta sono quindi decenni di lotta intensi, ma anche di costruzione di pratiche politiche innovative che si allargano alla società e alle condizioni di vita, che affrontano le questioni ambientali e devono fare i conti fin dai primi anni Settanta con il pensiero femminista.
Sul finire degli anni 1970 la criminalizzazione di questo movimento operaio permette all’impresa di riprendere progressivamente le redini del comando all’interno degli stabilimenti, mentre non pochi di questi operai seguiranno la sorte di altri militanti, finendo per trascorrere svariati anni nelle carceri italiane. La condizione operaia ritorna così nell’oblio e l’orizzonte di pensiero politico faticosamente costruito viene marginalizzato. La questione operaia è dunque dispersa nei rivoli delle nuove tecnologie e tecniche organizzative che profetizzano un avvenire glorioso per gli individui all’interno dei megatrend della globalizzazione. Come Romano Alquati aveva notato è proprio nel periodo di ossessiva individualizzazione che si espande un individuo presunto, debole e vuoto, privo della forza e della libertà fornita dalle discussioni collettive. Italo, e con lui tutti coloro che non hanno abiurato, è l’erede di una lunga storia, quella del farsi classe, che si contrappone alla riduzione a mera forza lavoro salariata o non salariata. Una storia attuale, più che mai.
[quest’introduzione è stata pubblicata in contemporanea sul sito di Euronomade]