→ English
How can we live without our lives?
(John Steinbeck, 1939)
La vecchia classe operaia è morta, ma in qualche momento della sua agonia deve aver eletto il 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America. Impossibile concludere altrimenti dopo aver assistito alla sequela di commenti che indicano nella white working class la principale responsabile della resistibile ascesa di Donald Trump. Ancora più del suo orientamento elettorale, è questo eterno ritorno della classe operaia che lascia sbigottiti. Non era stata spazzata via da automazione e terziario cognitivo e condannata all’impotenza sociale? E invece eccola qui: viva, vegeta, votante e decisiva nel rovesciare quello che era stato il successo di Obama negli Stati della Rust Belt per consegnarli a Trump.
Conviene allora guardarla in faccia questa classe operaia maschia e bianca. Sono davvero questi i fascisti, i razzisti e i maschilisti in cui Trump si specchia compiaciuto? Sono almeno sessant’anni che gli intellettuali liberal americani ci mettono in guardia sulle tendenze autoritarie congenite alla classe operaia. Un modo come un altro per risolvere il loro problema teorico e insieme politico: gli operai, dicevano, erano diventati membri della classe media, ma alcuni di loro presentavano il fastidioso inconveniente di non comportarsi come tali. Quando non si davano alla lotta di classe, preferivano inseguire le manie «paranoidi», bigotte e razziste della destra «pseudoconservatrice» di McCarthy prima e Goldwater poi, la sua logica dell’«identità» bianca e cristiana contro quella dell’«interesse», virtù della ragione che per non meglio precisati motivi farebbe votare democratico.
Oggi ritornano problemi analoghi. Al pari di Hillary Clinton, non si sa che cosa farsene di questa classe operaia che avrebbe vissuto i fasti del fordismo, per assistere poi inerme a una deindustrializzazione che l’ha derubata e impoverita, abbattendo il mito dell’«operaio più pagato al mondo». Quello che lavorava in fabbrica, la detestava ossessivamente senza poterne fare a meno, ma poteva ancora sognare di farsi la Cadillac, come racconta Paul Romano in un testo che vale ancora la pena leggere. Fantasie di fuga, certo, con cui si cercava di ingannare l’inaccettabile realtà della catena di montaggio, ma che ci restituiscono un privato operaio in questi anni deriso o più semplicemente ignorato. Un «privato» rimosso, ma che è rispuntato da sotto quel tappeto dove era stato riposto, con la speranza di nasconderlo e di farci apprezzare in tutta la sua scintillante novità la nuova cooperazione sociale fondata sul sapere e le identità multiple. Per non rovinare questo scenario post-industriale e continuare a esorcizzare il problema del lavoro salariato, appena si è presentato alle urne per votare Trump quel privato operaio è stato etichettato come fascista per chiudere la questione. È però facile notare che le grandi maggioranze che hanno votato Clinton sulle due coste rivelano che anche le forme di vita e organizzative di un mondo alternativo a quello dei vecchi operai, per quanto sembrino autosufficienti, sono in realtà segnate dalla profonda spaccatura tra due mondi, cioè da una frattura interna alla stessa classe operaia, che non si risolve con la distinzione tra old e new working class. I movimenti di questi anni, come Occupy wall Street e Black Lives Matter, sono stati essenzialmente urbani e limitati ad alcune aree. Le loro rivolte sono state il segno di una doppia spaccatura: nei confronti dell’establishment, visto che a Portland, dove ora più veemente è la sommossa, Trump ha preso il 17%, ma anche nei confronti di un altro pezzo di mondo del lavoro e dello sfruttamento. La domanda è: può questo mondo nuovo vivere e vincere abbandonando al suo destino quello vecchio e carico di ruggine?
Intanto, grigio ma vitale, quel privato operaio è tornato a galla pretendendo di contare e di essere contato, di riprendersi almeno un pezzo contorto della sua esistenza che la globalizzazione sembra avergli strappato via, lasciandogli in cambio la minaccia della disoccupazione e lo spettro dell’indigenza. Disertando le urne oppure votando repubblicano senza per questo trasformarsi in fascisti, questi operai hanno allora dato credito a Trump e alle sue promesse di far pagare alle imprese i costi sociali della delocalizzazione, di ritornare a un protezionismo che difenda i posti di lavoro americani e di abbattere quell’Obamacare che per eterogenesi dei fini sta facendo lievitare le tariffe dell’assicurazione sanitaria, per la quale però la nuova amministrazione sta pensando a nuovi piani di privatizzazione. Anche Bernie Sanders ha però costruito la sua fuggevole fortuna tra i giovani delle metropoli e delle università sulla paura della crescita cinese e sulla promessa di farla finita con le esternalizzazioni. Trump di suo ha portato al massimo grado il nesso tra autoritarismo di destra e neoliberalismo già sperimentato nell’America di Bush e nella Polonia antiabortista e razzista dei nostri giorni. D’altra parte il neoliberalismo non è finito e per mantenere il suo dominio si appoggia come ha sempre fatto ai centri di autorità più tradizionali, sfruttando il fatto che il privato operaio si sente defraudato di ciò che gli spetta e della possibilità di ottenerlo. Ha quindi optato per una fiducia a termine a chi ha saputo vendergli il sogno di fare un’America great again, possibilmente in maniera direttamente proporzionale al proprio livello di reddito, che dal 1996 a oggi, nella fascia di mezza età, è crollato del 47%, tanto che non si capisce quali risparmi possa aver accumulato. È facile sorriderne e ancora più semplice disprezzarlo, ma il privato muove l’indisciplina operaia nel suo stadio embrionale, sprigiona la gioia violenta della sottrazione al comando del capitale, incarna la via di fuga sempre possibile da quel «carcere della libertà umana» che è il mondo.
Questo non significa che alle urne americane si sia presentato l’embrione di una rude razza pagana ansiosa di essere politicizzata per produrre la rottura rivoluzionaria. Non significa nemmeno che siamo di fronte all’invasione, desiderata o temuta, di orde di nuovi barbari. Il determinismo di classe è pessimo come quello politico. La «riscoperta» della vecchia classe operaia non autorizza nessuno a ignorare la restante composizione del voto. A partire dalle donne bianche, che hanno in maggioranza votato Trump malgrado la fama di molestatore e dichiarazioni che non fanno nulla per smentirla. In fondo, il patriarcato esiste a prescindere da lui e avrebbe continuato a farlo perfino con una donna alla Casa Bianca. Non sarà una biografia di successo a liberare le donne da un ordine gerarchico che le condanna alla subordinazione e ad accettare una logica della competizione in cui a trionfare è sempre l’individuo, che notoriamente è maschio. Hillary Clinton non ha chiesto alle donne americane di far valere la loro differenza, ma ha solo spacciato la sua ascesa sociale per una possibilità aperta a tutte. Specie per le componenti non bianche dell’elettorato femminile, questa promessa è apparsa semplicemente aleatoria. Non basta promettere parità del salario a chi il soffitto di cristallo che si vuole infrangere neanche lo intravede, perché deve stare a testa bassa per spazzare i pavimenti e quando la solleva rischia sempre di trovarsi di fronte lo spettro dell’irregolarità.
E allora, come ogni incubo che si rispetti, lo stesso problema torna un’altra volta: soggetti spossessati di un potere che vorrebbero avere per affermare un controllo sulla propria vita, che rivendicano autonomia, ma si ritrovano in mano una libertà tanto luccicante quanto irreggimentata, ovvero quella che il neoliberalismo è disposto a concedere. Perché allora votare Clinton invece di Trump, o viceversa? Se lo saranno chiesto i neri, i latinos e gli asiatici che non hanno certo votato in maggioranza per un uomo che promette muri e repressione, ma hanno in misura significativa disertato le urne dopo che il richiamo di Obama aveva fatto salire le loro percentuali di voto. D’altronde, di fronte a Black Lives Matter, ovvero a un movimento che ha contestato apertamente il razzismo istituzionale che corre lungo la linea del colore, i democratici non hanno saputo far altro che offrire canali di istituzionalizzazione. Difficile credere a promesse di riforma che provengono da chi è stata al fianco del marito nel sostenere con forza leggi che hanno criminalizzato e incarcerato un numero massiccio di afro-americani. E così i democratici sono finiti fuori strada: un po’ come quegli intellettuali liberal che per tutti gli anni Sessanta hanno predicato dialogo e integrazione per poi ritrovarsi le Black Panthers a occupare Columbia, ovvero l’università dove quegli stessi intellettuali insegnavano il dialogo e l’integrazione. A loro, fuor di metafora, non restò che piangere, ai democratici di oggi occorrerà registrare che i trend demografici potenzialmente favorevoli non si trasformano direttamente in flussi elettorali altrettanto favorevoli.
Problemi dei democratici, si dirà. Sì, ma solo apparentemente, perché in fondo tutta questa corsa collettiva a decifrare il voto statunitense ci dice che la rappresentanza sarà pure implosa, ma evidentemente i comportamenti elettorali continuano a interessarci perché rappresentano forze più o meno oscure che si agitano nella società e con le quali dobbiamo fare i conti. Non si tratta di celebrare la libertà di un giorno solo, ma in quel giorno si aprono e chiudono spazi che incidono sull’esistenza di precarie, operai e migranti. Sono sprazzi di esistenza quelli che si guadagnano o si perdono alle urne e i risultati elettorali non sono dunque indifferenti.
E allora, giustamente, organize! anche se il panico dell’organizzazione che ci assilla sembra andare oltre il panico per l’elezione di Trump. Le vie della soggettivazione di certo non passano per le urne, ma non coincidono nemmeno con altre vie sicure e conosciute. Non ci sarà organizzazione fino a quando non saremo stati in grado di affermare un discorso e una pratica collettiva capaci di restituire il potere a soggetti espropriati delle proprie vite, di fare del loro privato la condizione di possibilità di una lotta comune. Questo diventa ancora più importante oggi, quando le minoranze organizzate che costruiscono la loro faccia pubblica sul discorso razzista e sull’incitamento alla violenza contro i migranti troveranno nuova linfa. Solo in questo modo la categoria di populismo smetterà di essere l’ambigua etichetta per tutto ciò che non si riesce a organizzare. La classe operaia, che non è mai stata solo bianca, ci ha insegnato che votare con i piedi è spesso più efficace che votare con le mani. Lo sciopero di fabbrica è stata l’arma che le delocalizzazioni hanno spuntato, mostrando la faccia più visibile della potenza logistica e dell’estensione metropolitana del capitale. È in questa estensione del capitale che si incrociano le vite di lavoratori industriali impoveriti e precari dei servizi di nuova o vecchia generazione, donne che per canali più o meno informali garantiscono le condizioni generali della riproduzione sociale e migranti con o senza un permesso di soggiorno che ne assicura lo sfruttamento, afroamericani che insieme a latinos e asiatici lottano contro la violenza del razzismo istituzionale e per quei 15 dollari verso cui le big unions vicine ai democratici hanno ostentato indifferenza se non ostilità. È dentro a queste condizioni materiali che il razzismo, il sessismo ed eventualmente il fascismo prendono forma e incidono sulla carne viva di quelli come noi.
Organize! allora, ma partendo dalle condizioni materiali di esistenza e sapendo che non sta scritto da nessuna parte che la classe operaia debba essere per forza nazionale. Il neoprotezionismo trumpiano, se mai verrà attuato, non muterà la forma coatta della cooperazione, ma la rafforzerà per proteggere la produzione e il lavoro, non i lavoratori, che rimarranno merce da spremere per le esigenze dell’industria. Questo è facile da prevedere, come è facile prevedere che l’assenza di meccanismi di compensazione sarà il problema vero di questa bella novità. I salari che la riapertura di fabbriche e miniere dovrebbe garantire a fasce sociali impoverite saranno in primo luogo taglieggiati attraverso una mercatizzazione del welfare, che parte proprio dalla controriforma sanitaria. La Medicare promessa dai repubblicani non dà diritto a cure, ma a voucher indicizzati al potere sociale degli individui, il livello di reddito con cui le cure devono essere letteralmente comprate sul mercato, lasciando eventualmente alle donne e al loro lavoro riproduttivo il carico delle prestazioni che non potranno essere pagate. In secondo luogo, le aziende le cui merci prodotte all’estero verrebbero tassate al 35% finiranno per scaricare i costi o sui salari già da fame del lavoratore delocalizzato o sui prezzi del consumatore/lavoratore interno. A loro sarà «esternalizzata» la difesa del declinante primato produttivo americano. La potenza logistica del capitale è tale che le vite dei lavoratori/consumatori vengono assorbite dal mostro tentacolare della produzione capitalistica. Con o senza barriere doganali, sarà la produzione a stabilire i confini stretti in cui quei «privati» si agitano inquieti. Non sarà Trump a rinnovare i fasti della produzione nazionale e dei suoi confini.
Organize! allora, ma senza cedere alla rassicurante illusione del naturale. Non c’è niente che seguirà un percorso prestabilito, così come noi non siamo messi bene solo perché non abbiamo Trump. Tanto l’estensione metropolitana quanto la potenza logistica del capitale ci indicano che lo spazio della nostra azione organizzativa non può che essere simultaneamente sociale e transnazionale. Nel caso concreto ciò significa che non è possibile partire dal presupposto che esiste un pezzo di classe operaia che non fa problema perché vecchia e fascista. Proprio perché ha scoperchiato il vaso di Pandora della società americana, il voto dell’8 novembre deve portare a ripensare forme dell’organizzazione in grado di esprimere un rifiuto al comando e l’appropriazione di quel pezzo di potere conteso nella lotta. Noi che riconosciamo nell’Europa il terreno minimo della nostra iniziativa abbiamo chiamato questo processo organizzativo sciopero sociale transnazionale, pensando che la rottura che esso prevede può restituirci la gioia violenta della sottrazione a quel «mostro» di cui John Steinbeck diceva che «gli uomini l’hanno fatto ma non lo possono controllare». Può, soprattutto, socializzare una passione per l’insubordinazione che deve uscire dalla sua minorità individuale, identitaria e intellettuale per dispiegare la sua potenza di massa. Di questa potenza vediamo ogni tanto dei lampi in un cielo plumbeo, che rimangono tuttavia privi dell’infrastruttura per riconoscersi e diventare tempesta. Forse, lungo questa via, potrebbe perfino accadere che non sia il lavoro a dare senso all’esistenza. In fondo, l’operaio americano che sognava la Cadillac non stava cercando altro che emanciparsi dal lavoro salariato.