di CARLOTTA BENVEGNÙ e NICCOLÒ CUPPINI
Poche settimane fa ha fatto notizia il caso della compagnia Hanjin, l’ottava azienda logistica globale che con il suo crack ha messo in luce alcune delle profonde contraddizioni che strutturano l’economia attuale. Inoltre questo evento è parso una conferma di quanto in molti sostengono negli ultimi tempi, ossia che la logistica sia oggi un snodo cruciale e quindi uno dei punti di vista privilegiati per comprendere le trasformazioni del capitalismo globale contemporaneo.
Se si intende ricostruire i tracciati della logistica, ci si trova all’interno di un mondo in continua espansione dove si incontrano merci di ogni tipo, container, navi, treni e camion, si attraversano immensi non luoghi, porti e autostrade, si sale su aerei e si attraversano oceani, ci si imbatte in persone di ogni dove, che lavorano in magazzini in cui operano droni e gli operai sono tracciati con Gps, mentre in altri magazzini le condizioni di lavoro hanno un tasso tecnologico talmente basso che porta i lavoratori a usare il loro corpo come fosse una macchina. Ed è forse questo l’elemento che caratterizza maggiormente la logistica all’interno delle odierne catene di produzione: la capacità di connettere tra di loro figure e regimi di lavoro lontani e diversi grazie a tecnologie di comunicazione e trasporto in continua evoluzione.
La logistica è quell’insieme di pratiche, saperi, aziende, software, infrastrutture, mezzi e persone impiegato nel muovere le merci lungo tutto il pianeta, con una velocità sempre crescente. Il «sogno della logistica» è quello di un mondo dove la merce possa volare dal luogo di produzione a quello dell’acquisto/consumo alla stessa velocità istantanea con cui si muovono i flussi dei capitali finanziari. Tuttavia, come già aveva intuito Karl Marx, prima di poter volare come una farfalla il capitale deve essere crisalide per qualche tempo. Basta guardare uno dei tanti spot di presentazione delle maggiore multinazionali logistiche (come Ups, Tnt o Dhl, ad esempio) per capire che il peggiore incubo della logistica è quello delle interruzioni all’interno delle cosiddette supply chain, ossia delle filiere che consentono alle aziende di gestire un processo produttivo disarticolato su scala globale (dalle materie prime al prodotto finito).
Fino a pochi anni fa i manuali di management logistico riportavano come tra le maggiori cause di blocco dei flussi si potessero considerare le variabili atmosferiche, la rottura di macchinari e mezzi di trasporto o anche i conflitti bellici. Ultimamente si sta però imponendo un nuovo elemento a perturbare la fantasia di uno spazio liscio nel quale i flussi si possano muovere just in time: il lavoro. All’interno dell’ideologia logistica quest’ultimo tende a essere ridotto a elemento accessorio, come se fosse un residuo arcaico di un processo che potrebbe muoversi in maniera totalmente automatizzata. Il crescente utilizzo nel settore di software e indicatori KPI (Key Performance Indicator) che permettono di misurare e sincronizzare il lavoro in porti e magazzini è in questo senso emblematico. Tuttavia, scioperi e conflitti avvenuti in diversi nodi delle catene di distribuzione e a diverse latitudini hanno iniziato a imporre la variabile del lavoro come uno dei più minacciosi spettri che infestano i sogni della logistica. Nonostante sulla cronaca mainstream tendano a comparire solo notizie tragiche come quella del recente omicidio di Abd Elsalam a Piacenza, è da alcuni anni che l’astratto spazio globale dei flussi logistici è sempre più intarsiato da una serie di blocchi e scioperi prodotti dai lavoratori.
Storia della mobilitazione
Anche l’Italia è stata attraversata da questo fenomeno, che ha coinvolto soprattutto la grande regione del Po, tra le Alpi e gli Appennini. A partire dal 2011 e con una intensità crescente si sono organizzati – principalmente all’interno del sindacalismo di base guidato da Si Cobas e Adl Cobas – i lavoratori del settore logistico (un settore che va inserito all’interno di quel 20% della mano d’opera su scala globale impiegata nelle supply chain). La megalopoli padana è uno spazio che fa da cerniera tra il Mediterraneo e il continente europeo e, proprio in virtù di questa posizione strategica, negli ultimi trenta-quarant’anni il territorio si è sempre più ricoperto di una fitta trama di infrastrutture per l’organizzazione dello smistamento delle merci. Mentre a partire dalla metà degli anni Settanta molte delle grandi fabbriche che organizzavano gli spazi urbani sono state progressivamente delocalizzate, una nuova punteggiatura sparsa di magazzini, interporti, ferrovie e strade ha costruito un tessuto logistico che ricopre l’intera regione pulsando al ritmo della produzione e del consumo. Se si guarda alla logistica non a partire dalla rete globale che la struttura, ma piuttosto nell’infinita sequenza di luoghi che compongo le sue rotte, la regione padana può assumere un significato di portata più ampia proprio a partire dalle lotte che hanno attraversato il settore logistico. Proviamo dunque a tracciare un sintetico quadro di come è venuto costituendosi negli ultimi anni questo processo.
Il movimento del settore della logistica inizia a muovere i suoi primi passi a partire dal 2008, ma è in particolare nel 2011 che si assiste a dure vertenze come quelle nell’hinterland milanese presso i magazzini dell’Esselunga a Pioltello e quelli di Il Gigante a Basiano. Gli scioperi in queste due occasioni vedono l’intervento delle forze dell’ordine, producendo una visibilità pubblica che aiuta la diffusione di un modello di lotta sindacale piuttosto inedito. Gli operai organizzati nel sindacalismo di base ricorrono infatti al blocco dei magazzini durante gli scioperi, non praticando dunque una semplice astensione dal lavoro. È a partire da tale elemento di radicalità che in questo settore, uno dei pochi che crea occupazione durante la crisi, si sviluppa una rapidissima sindacalizzazione. Nel 2012 è Piacenza a divenire epicentro dei conflitti nella logistica, presso TNT, GLS e soprattutto con la vertenza Ikea, che dà una nuova visibilità e spinta al processo organizzativo che tracima in tutta l’Emilia Romagna. Nel 2013 a Bologna si determina una lunga lotta presso la Granarolo, che nuovamente arriva alle cronache nazionali, dando un ulteriore slancio che giunge fino al Piemonte, dove nel 2014 uno dei momenti di lotta più alti si verifica presso il Caat di Torino.
Più in generale in questi anni si assiste al proliferare di vertenze che coinvolgono gli Interporti di molte città (in particolare a Padova e Bologna) e i magazzini logistici sparsi lungo tutto il territorio della megalopoli padana. Una mappa di questi conflitti rende bene l’idea di come la logistica sia un mondo estremamente eterogeneo, in cui anche le controparti degli scioperi mutano notevolmente da contesto a contesto. Si passa infatti da manager di grandi multinazionali a piccole ditte locali, all’interno di un fenomeno che trova tuttavia una sua omogeneità a partire proprio dalle condizioni di lavoro.
Va inoltre considerato che durante lo stesso periodo conflitti analoghi hanno attraversato il settore su scala globale, mettendo in luce come la cosiddetta «rivoluzione logistica» abbia determinato ovunque la stessa situazione di crescente precarietà, indebolimento dei sindacali tradizionali e un processo di razzializzazione della forza-lavoro. Gli episodi più significativi vanno dallo sciopero degli scaricatori portuali a Los Angeles nel dicembre 2012 alle vertenze nei magazzini di Amazon in Germania, passando per il blocco del 20 ottobre 2013 del principale terminal per container europeo, Maasvlakte 2 a Rotterdam e a un nuovo sciopero a gennaio 2016, fino agli scioperi a Hong Kong e Vancouver nel maggio 2013 e nel più grosso terminal mondiale del carbone a Newcastle (Australia).
Organizzazione della logistica e conflitti
Tornando al nord Italia, è possibile sostenere che all’interno di questo mondo frastagliato e sfaccettato si possono individuare alcune variabili costanti che lo accomunano. Innanzitutto, a differenza di altri contesti globali, il settore logistico è qui caratterizzato da uno scarso investimento in tecnologia e automazione, soprattutto grazie alla possibilità di ricorrere a una mano d’opera a basso costo e a un sistema che la garantisce. Per quanto riguarda il primo aspetto, la logistica è un settore a forte prevalenza di lavoro migrante fortemente sfruttato. Rispetto al secondo punto invece ciò che ha consentito per anni di mantenere condizioni di lavoro pesantissime (puntando sull’abbattimento dei costi del lavoro piuttosto che sugli investimenti tecnologici) è stato l’ampio ricorso a un sistema di subappalti a cascata che sfrutta il peculiare sistema cooperativo italiano. Un sistema piramidale di assunzione in cui la ditta committente scompare all’interno di una nebulosa di appalti e sub-contratti che relegano il lavoratore a una posizione senza nessun diritto né garanzia. Tutto ciò è stato reso possibile anche grazie all’essenza corporativa e alla sostanziale «arretratezza» del sindacalismo confederale, storicamente legato al mondo delle cooperative e poco interessato a investire su di un settore che ancora sembra considerare come marginale.
I facchini della logistica svolgono una mansione lavorativa apparentemente «classica»/fordista, collocati tuttavia su una delle frontiere più avanzate dello sviluppo capitalistico. Un settore in cui le conoscenze lavorative si trasmettono soprattutto per via informale, e dove dietro l’apparente sicurezza di molti contratti a tempo indeterminato si cela in realtà la più ampia precarietà garantita proprio dalle cooperative. Queste ricorrono a un altissimo turnover, di frequente si sciolgono finiti gli appalti e spesso senza pagare contributi e salari arretrati. È contro queste condizioni di lavoro, spesso aggravate da pesanti e pervasive forme di razzismo, che si sono strutturate le lotte nella logistica. Ma per comprendere la loro emersione devono essere presi in considerazione anche altri fattori.
La ricattabilità della condizione migrante si è rovesciata, a partire da una rivendicazione di «dignità», in un potente strumento di lotta. Il sindacalismo di base è infatti riuscito a incrinare le divisioni etniche/nazionali e usare strategicamente le reti comunitarie, garantendo una circolazione delle lotte sia attraverso i social network sia per mezzo delle reti informali delle comunità migranti che connettono il lavoro all’interno dei magazzini del Nord Italia. Non è d’altra parte casuale che gli anni di irruzione delle lotte siano quel 2011-2012 in cui tutto il mondo del Maghreb e del Mashreq è scosso da processi insurrezionali che hanno una specifica risonanza anche sulla composizione migrante. In secondo luogo, questa mano d’opera è tendenzialmente portatrice di competenze e aspettative più alte di quelle che vorrebbero le rappresentazioni sociali, anche quelle datoriali. Inoltre se mondo cooperativo, sindacati confederali e varie istituzioni territoriali organizzavano un’integrazione sistemica di questa forza lavoro sul livello più basso della catena, è anche contro questa specifica condizione che si sono organizzate le lotte nella logistica, riempiendo un «vuoto di rappresentanza» di una condizione di vita che in potenza oltrepassa i cancelli dei magazzini.
In definitiva questa generazione di lavoratori definisce uno dei pochi (forse l’unico finora?) settori in cui l’elemento della «crisi» è stato rovesciato: invece che accettazione di una diminuzione delle condizioni di vita, la leva della “crisi” nella logistica è stata giocata come passaggio di lotta e riscatto nel rifiutare una ulteriore degradazione delle condizioni di lavoro. Gli anni seguenti il 2011 hanno visto un crescendo di forme organizzative (in termini di adesioni sindacali, estensione territoriale e numerica delle vertenze), scandito da numerosi scioperi generali del settore e da una partecipazione alle lotte rinforzata anche dall’intervento di realtà territoriali come centri sociali e collettivi giovanili.
Contesto attuale
La lunga traiettoria di lotte che ha attraversato i magazzini della logistica nella megalopoli padana durante questi ultimi anni ha permesso non solo l’emergere di nuove soggettività conflittuali e organizzate all’interno di un contesto generale di crisi e di recessione della contrattazione collettiva, ma anche l’ottenimento di migliori condizioni di lavoro in molti magazzini. Inoltre il raggiungimento di alcuni obiettivi concreti ha trovato espressione in particolare in un accordo firmato nel 2015 tra i sindacati di base Si Cobas e Adl Cobas e alcune tra le maggiori aziende del settore della logistica. L’accordo sostituisce quelli precedenti e migliora in molti punti quello dei sindacati confederali, poiché prevede l’obbligo per le aziende subentranti nel caso di un cambio di appalto ad assumere i lavoratori già occupati a parità di condizioni e il passaggio automatico di livello in base all’anzianità (portando così all’erosione del potere discrezionale esercitato all’interno dei magazzini da dirigenti e «capetti» delle cooperative). Inoltre i punti riguardanti malattia e infortuni hanno rimesso al centro la questione dell’usura dei corpi – in un settore in cui le aziende avevano da sempre puntato sull’abbassamento dei costi del lavoro più che sugli investimenti produttivi, rendendo il lavoro estremamente usurante e pericoloso. La firma di tale accordo può essere letta pertanto come un punto di svolta prima di tutto per il sindacalismo di base che, grazie alla determinazione dei lavoratori e nonostante formalmente escluso dalla contrattazione collettiva nazionale, è riuscito per la prima volta a concludere un accordo direttamente con le principali aziende del settore. Ma anche come passo in avanti nella prospettiva più generale di superamento del sistema di subappalto alle cooperative, di fatto escluse da questa trattativa.
Benché indubbiamente la firma di questo accordo abbia marcato un passaggio fondamentale e un salto di qualità, d’altra parte ogni contratto collettivo di lavoro ha le sue contraddizioni: da un lato registro delle conquiste ottenute, dall’altro contenitore entro cui il processo di valorizzazione può continuare. In primo luogo, l’applicazione di tali accordi resta legata ai rapporti di forza interni che i sindacati sono riusciti a costruire caso per caso nei singoli magazzini, producendo differenze importanti tra le diverse situazioni specifiche. Ad esempio laddove il livello di sindacalizzazione ha permesso di rovesciare i rapporti di forza a favore dei lavoratori, il sistema delle cooperative può anche essere usato da quest’ultimi in maniera strategica sfruttando – questa volta a loro vantaggio – la flessibilità inerente al sistema cooperativo per organizzare turni e ferie (fatto particolarmente importante per la composizione migrante); in altri casi, invece, questo resta ancora uno strumento di ricatto in mano ai datori di lavoro.
Inoltre, nei contesti dove le lotte hanno espresso i punti più avanzati, alcuni tra i più «lungimiranti» dei padroni della logistica sembrano aver capito il potenziale che rappresenta la «cooperazione» creatasi grazie alle lotte, che hanno abbattuto le barriere etniche e nazionali prima usate come strumento di divisione tra i lavoratori. In questo contesto, alcune multinazionali sembrano ormai cominciare a vedere il subappalto alle cooperative italiane come un peso non più necessario. Questo da un lato perché grazie alle mobilitazioni nei magazzini il costo del lavoro è salito al punto da non giustificarne più l’intermediazione, diventata d’intralcio alla «buona gestione» del lavoro. Dall’altro perché in Italia, dopo anni di crisi e riforme del lavoro, quest’ultimo si è abbassato in maniera significativa rispetto ad altri paesi europei, rendendo l’internalizzazione un’opzione possibile/conveniente. Pertanto, alcune tra le maggiori aziende logistiche, hanno iniziato ultimamente a considerare la possibilità di riprendere in mano la gestione diretta dei magazzini. Allo stesso tempo però il calcolo pare cambiare anche in termini di automatizzazione: ciò che è stato perso in termini di costi deve essere recuperato grazie a investimenti tecnologici che permettano di aumentare la produttività del lavoro.
Possibili scenari
A partire da questo contesto, e a quasi dieci anni dall’inizio della conflittualità espressa da questa nuova composizione di classe, ci sembra possibile ipotizzare alcune tendenze. Indubbiamente, il punto di forza delle lotte nella logistica è stato l’aver sfruttato la posizione strategica dei lavoratori all’interno delle catene di distribuzione, provocando con scioperi e blocchi gravi danni economici alle aziende. Allo stesso tempo la «non-delocalizzabilità» della funzione esercitata dalla logistica (ossia: le merci in qualche modo devono comunque arrivare ai consumatori) ha permesso di sfuggirne al ricatto. Ciononostante, se è vero che non è possibile immaginare la regione della valle del Po senza la fitta rete di distribuzione che permette la circolazione delle merci al suo interno, una caratteristica costante della logistica è la sua rapida e strutturale mobilità. I magazzini si spostano a gran velocità nei territori, anche grazie al fatto che quasi mai le aziende possiedono gli immobili in cui operano. Tra i criteri che determinano la scelta «dell’ubicazione» vi sono la posizione strategica rispetto a flussi di merci e bacini di consumo ma anche la vicinanza a – un certo tipo di – bacini di manodopera.
In effetti, se da un lato la crisi sta portando sempre più lavoratori non migranti dentro ai magazzini della logistica, d’altro canto questo pare anche il risultato di strategie delle aziende che mirano a cooptare nuove forme/composizioni di lavoro considerate come potenzialmente meno conflittuali rispetto a quelle precedenti. Mentre in altri contesti già da anni la logistica viene presentata come fiore all’occhiello e avanguardia economica, in Italia sinora era un settore opaco e quasi invisibile, che solo le lotte hanno portato alla luce. Tuttavia pare che anche qui si stia innestando una narrazione intorno alla logistica come nuova opportunità di sviluppo per i territori e quale fonte di posti di lavoro cool. Allora, si può forse leggere in questa transizione un tentativo di «attrarre» una manodopera differente, istituendo nuove gerarchie e nuove forme di soggettivazione subordinata. Gli scioperi nei magazzini di H&M di quest’estate possono forse essere letti come possibile anticipazione di tale tendenza. Il punto infatti è che il décalage, lo scarto tra questo immaginario logistico e le effettive condizioni di lavoro nel settore, può essere una molla per futuri processi di una conflittuale soggettivazione di classe. Anche in questo caso, i sogni di un mondo liscio e senza interruzioni per la pacifica circolazione di merci e capitali si trova a fare i conti con lo spettro del lavoro.