martedì , 26 Novembre 2024

Lo sfruttamento come modo di produzione

Rigo_lavoro agricolodi ENRICA RIGO

Pubblichiamo l’introduzione di Enrica Rigo al «Quaderno de l’Altro diritto», da lei curato, dal titolo Leggi, migranti e caporali. Prospettive critiche di ricerca sullo sfruttamento del lavoro in agricoltura (Pisa, Pacini, 2015). Il volume raccoglie analisi sociologiche e giuridiche (vedi l’indice nella finestra qui sotto) sullo sfruttamento del lavoro agricolo nelle campagne non solo meridionali. Fare riferimento alla categoria oggi quanto mai politicamente pregnante di sfruttamento rende evidente il carattere desueto di tutta una serie di luoghi comuni legati al lavoro agricolo. Esso mostra inoltre che l’approccio repressivo e quello umanitario sono spesso due facce della stessa medaglia. In primo luogo emerge che il lavoro agricolo non è lo stadio arretrato di una condizione lavorativa contrassegnata da un contingente eccesso di subordinazione che altrove è stata completamente superata. Lo sfruttamento non è una «patologia del contratto o della relazione egualitaria tra le parti». Non è tanto la mancata osservanza delle leggi a segnalarne la presenza in agricoltura, quanto il «carattere sistemico» che deriva dalla contemporanea e solidale presenza di specifiche normative, di figure sociali e di istituzioni. L’evoluzione e la presenza del caporalato non caratterizzano perciò l’azione di una figura parassitaria estranea alla costituzione delle imprese presenti in agricoltura. All’incrocio tra leggi e sfruttamento dei lavoratori ciò che viene evidenziata è l’attualità e l’efficacia di un’organizzazione del lavoro che opera per trasmettere il comando capitalistico a una forza lavoro ormai prevalentemente migrante. Poiché il lavoro migrante è la vera e propria antitesi di un mercato regolato per l’uso prevedibile e profittevole della forza lavoro, il caporalato si presenta di conseguenza come strumento di violenta e talvolta feroce «cattura» di una forza lavoro certamente priva di tutele giuridiche, ma mobile e sempre alla ricerca di un miglior salario. 

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Il termine sfruttamento è recepito dal diritto in un ampio numero di contesti. Come notato da alcuni studi dedicati al tema (Marks, 2008; 2010), sono soprattutto gli strumenti del diritto internazionale a ricorrervi, per esempio in espressioni legate all’utilizzo delle risorse naturali o delle opere intellettuali. Il rimando è generalmente a un’accezione avalutativa dello sfruttamento che, al più, riferisce di un problema di sostenibilità (presente nel caso dello sfruttamento delle risorse naturali), ma che non necessariamente evidenzia un vantaggio ingiusto (si pensi allo sfruttamento dell’immagine o dei brevetti). Nella sua accezione negativa, il termine sfruttamento è invece solitamente collegato a comportamenti delittuosi. Nel codice penale lo si incontra, quale elemento della fattispecie base o dell’ipotesi aggravata, tra i reati contro la libertà personale, nel capo intitolato ai delitti contro la personalità individuale, e dunque puniti molto severamente come nel caso della «Riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù» (art. 600 c.p.), della «Pornografia minorile» (art. 600 ter c.p.), della «Tratta di persone» (art. 601 c.p.) e dell’«Acquisto e alienazione di schiavi» (art. 602 c.p.), tra i quali ha fatto recentemente ingresso l’«Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro» (art. 603 bis c.p.).

Per affermare che dalla pluralità di situazioni e condotte ora menzionate non sia possibile ricavare una nozione unitaria di sfruttamento sarebbe sufficiente constatare che nei dizionari e nelle enciclopedie giuridiche non è presente una voce dedicata allo sfruttamento in quanto tale (neppure nel contesto delle discipline penalistiche). Ciò non toglie che, qualora si passi a considerare l’ambito specifico dello sfruttamento lavorativo nel sistema capitalistico, questa nozione cambi di segno, non essendo assimilabile ad alcuna delle altre e assumendo, al contempo, il carattere di un elemento costitutivo dello stesso rapporto di lavoro. Come si legge, infatti, alla voce Lavoro subordinato dell’Enciclopedia giuridica Treccani:

              «Nell’assetto politico-giuridico della società contemporanea, fondato sui principi di libertà e uguaglianza dei suoi soggetti, la sostanziale diversità di forze tra capitale e lavoro genera […] fenomeni di oppressione e sfruttamento delle categorie lavoratrici. Infatti la possibilità di chi investe mezzi finanziari nell’espletamento di attività imprenditoriali di conseguire un maggior utile deriva anche dalle dimensioni dei costi, tra i quali le spese dirette e indirette per l’utilizzazione della forza lavoro sono caratterizzate dalla elasticità e/o comprimibilità» (Scognamiglio 1990, p. 3).

Nella misura in cui si riconosca la possibilità di realizzare un utile congruo quale contropartita del rischio di impresa (e dunque la reciproca relazione tra i due fattori come giustificazione dell’assetto-politico e giuridico del libero mercato), sembra difficile rinunciare alla nozione di sfruttamento intesa nell’accezione minima di ricavare un guadagno o un vantaggio dall’utilizzo di una certa cosa. Con la differenza specifica che il lavoro non può essere considerato né una merce come le altre, né tanto meno una risorsa, materiale o immateriale che sia[1].

Si tratta di una considerazione logicamente antecedente alla stessa obiezione sulla possibilità di ricondurre il rapporto di lavoro allo schema contrattuale di uno scambio a prestazioni corrispettive, che pure ha impegnato a lungo la giuslavoristica e che, certo, è fatta propria in queste note[2]. Anche chi ravvisa nello schema contrattuale la qualificazione adeguata a ricomprendere il rapporto di lavoro deve, infatti, fare i conti con il vincolo di subordinazione[3] quale forma e struttura caratteristica di utilizzazione del lavoro, nonché con la determinazione del suo valore. D’altro canto, è la stessa impostazione contrattualistica che assegna all’autonomia contrattuale – quale fonte sia del momento generativo sia dello schema regolativo del rapporto giuridico – un ruolo imprescindibile per l’equità tra le parti e gli interessi in gioco[4].

Indice_RigoSe lo sfruttamento – inteso come l’utilizzazione delle energie psicofisiche del prestatore che vengono messe al servizio del datore di lavoro al fine di ricavarne un utile congruo – è dunque un elemento inscindibile dal, e costitutivo del, rapporto di lavoro, non si può che constatare come il linguaggio comune operi invece uno slittamento concettuale che tende a ricondurlo in un ambito più ristretto; vale a dire, quello di un disequilibrio nello scambio di prestazioni corrispettive tra lavoro e salario, o di una serie di comportamenti patologici che limitano la libertà di autodeterminazione di una delle parti (ovvero, del soggetto debole incarnato nella vittima dello sfruttamento). Tra i pochi giuristi che in anni recenti hanno affrontato la questione dello sfruttamento, Susan Marks ha sottolineato come, nella prospettiva del diritto internazionale, esso venga appunto incorporato come una sorta di patologia del contratto o della relazione egualitaria tra le parti. La stessa insistenza della retorica anti-trafficking sul consenso o meno della vittima riproduce inevitabilmente questo schema (Marks 2010, p. 145), così come è reso del resto evidente dallo slogan «You’re not for sale» adottato da una campagna del Consiglio d’Europa contro la tratta di esseri umani[5]. Secondo Marks, questo atteggiamento produce il risultato di assumere implicitamente lo sfruttamento, nella sua dimensione non patologica, come un naturale e necessario elemento delle relazioni in campo, enfatizzandone le degenerazioni come un’ingiustizia «falsamente contingente» (ivi, p. 146). Per dirla in altri termini, l’abitudine a rappresentare il vantaggio ingiusto ricavato da relazioni di sfruttamento come un degenerazione arbitraria e iniqua non fa che nascondere quello che è invece il loro carattere sistemico.

I contributi raccolti in questo Quaderno prendono le mosse da alcune recenti ricerche sul lavoro in agricoltura e sull’impatto degli strumenti normativi di contrasto al fenomeno dello sfruttamento, in particolare, a seguito dell’introduzione nell’ordinamento nel 2011 del reato di «Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro» di cui all’articolo 603 bis c.p., nonché del recepimento da parte dell’Italia della Direttiva 2009/52/CE che introduce «norme minime relative a sanzioni e a provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare» (da ora in avanti, Direttiva Sanzioni). In entrambi i casi, si tratta di strumenti che hanno avuto scarsissima applicazione; si pensi, a solo titolo di esempio, che in due anni i permessi di soggiorno rilasciati alle vittime di grave sfruttamento lavorativo che denunciano la propria condizione, così come previsto dall’art. 22 del t.u. immigrazione novellato a seguito del recepimento della Direttiva Sanzioni, sono stati poco più di una decina (Pittaluga e Momi; Oliveri, in questo volume); così come pochissimi sono stati i processi per il reato previsto dall’art. 603 bis c.p.. In un paese dove il tema dello sfruttamento sul lavoro occupa le cronache mediatiche (soprattutto estive) quasi quotidianamente, ci sarebbe da stupirsi.

Piuttosto che indulgere in un adagio scontato secondo cui «le leggi ci sono ma non vengono applicate», vale però la pena riflettere sulla evidente discrepanza tra la realtà materiale e sociale dei fenomeni e le norme che pretendono di regolarli; in primo luogo, al fine di sgombrare il campo dagli equivoci che si generano quando si parla di sfruttamento lavorativo. Da questo punto di vista, la scelta di prendere le mosse dalle prospettive di ricerca, in luogo che dalla ricostruzione e dall’analisi della normativa, è una scelta di metodo che prende sul serio la constatazione per cui il diritto non si limita a regolare i rapporti in campo, ma ne produce i soggetti. È allora inevitabile rilevare come, mentre la Direttiva Sanzioni si rivolge ai soli migranti privi di un’autorizzazione a risiedere sul territorio, la composizione del lavoro agricolo si sia negli anni profondamente modificata. Pur nella persistenza di un fenomeno che la sociologia del lavoro ha indicato come una «ghettizzazione modulata» nel mercato del lavoro della manodopera immigrata (Sacchetto 2013, p. 65), quest’ultima non risponde a una qualificazione giuridica univoca, né le distinzioni al suo interno possono essere semplicisticamente ricondotte alla bipartizione tra migranti regolari e irregolari. Le ricerche raccolte nel Quaderno mettono in evidenza una estrema stratificazione delle posizioni giuridiche del lavoro migrante in agricoltura, con una netta preponderanza numerica dei cittadini comunitari e una componente crescente degli statuti di protezione, come nel caso dei titolari di permesso di soggiorno per richiesta di asilo o per protezione umanitaria e sussidiaria, che un tempo venivano tipicamente associati con le migrazioni di carattere forzato e non economico. Le conseguenze, anche sul piano della stessa individuazione e qualificazione dei fenomeni di sfruttamento lavorativo, sono rilevanti.

Si pensi, per esempio, che la Direttiva Sanzioni, la quale proibisce l’assunzione di lavoratori privi di un titolo a soggiornare sul territorio, definisce le «condizioni lavorative di particolare sfruttamento» come quelle in cui vi è «una palese sproporzione rispetto alle condizioni di impiego dei lavoratori assunti legalmente, che incide, ad esempio, sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori ed è contraria alla dignità umana» (art. 2, co. 1 i) Direttiva 2009/52/CE). Se il criterio per individuare le situazioni di sfruttamento resta il raffronto con i lavoratori assunti legalmente, è chiaro come esso si riveli del tutto inutile in una situazione, come quella evidenziata, in cui la quota parte dei lavoratori assunta illegalmente è minima rispetto a una fortissima incidenza di quello che invece è stato definito come lavoro grigio (Nigro 2011), ma non per questo immune dall’essere sfruttato. Anche a voler sorvolare su una definizione di sfruttamento che, facendo propria una nozione equitativa dello scambio tra lavoro e salario, circoscrive lo sfruttamento alle distorsioni del (libero) mercato del lavoro, l’esempio riportato non può che dar ragione a chi ha sostenuto che, per comprendere le trasformazioni in atto, non si possa oggi prescindere dal prendere in considerazione congiuntamente il diritto del lavoro e la regolamentazione giuridica delle migrazioni (Freedland e Costello 2014). Salvo constatare poi che, quando si presta attenzione allo specifico settore dell’agricoltura, proprio il diritto del lavoro è un grande assente (diffusamente, McBritton in questo volume).

Non è probabilmente un caso che, salvo rare eccezioni, nell’ultimo decennio e oltre, la scarsa produzione giuridica sul lavoro in agricoltura si sia concentrata sul sistema delle quote e sullo strumento del decreto flussi per gli ingressi dei lavoratori stagionali. La sostanziale sostituzione della manodopera italiana con quella migrante sembra aver portato a un crescente disinteresse dei giuristi per il tema del lavoro agricolo, considerato come questione legata prioritariamente alle migrazioni; il che, in Italia, si traduce immediatamente in una questione di «ordine pubblico». Per dare ragione di quest’ultima affermazione, basti pensare al carattere «emergenziale» con cui ogni anno viene affrontato il problema degli alloggi per i lavoratori di settori e aree caratterizzate da una forte concentrazione stagionale della manodopera, come la piana della Capitanata in Puglia durante la raccolta del pomodoro o la piana di Rosarno durante la stagione degli agrumi. Situazioni che, pur ripetendosi di anno in anno, invece di essere risolte con gli strumenti delle politiche sociali e del lavoro, mobilitano un esteso apparato umanitario che, sempre più spesso, concorre assieme alle politiche di sicurezza nella gestione della forza lavoro migrante (Dines e Rigo, 2015).

Resterà dunque deluso chi, approcciando il tema dello sfruttamento del lavoro in agricoltura dal punto di vista del diritto, si aspetti di sentir parlare di retribuzione, orari di lavoro, o addirittura di forme e modi della rappresentanza sindacale. Temi che, seppure non del tutto assenti dal dibattito, vengono in genere richiamati a corredo degli indici di sfruttamento citati dall’art. 603 bis c.p. Anche in questo caso, il paradosso è evidente. A fronte della crescente possibilità di deroga alla contrattazione collettiva, il codice penale chiama in causa «la sistematica retribuzione dei lavoratori in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o comunque sproporzionato» come criterio per determinare le condotte penalmente rilevanti. In altre parole, per conferire certezza al diritto!

Prima ancora di discutere quali elementi distinguano la condotta tipica del reato di «Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro» (art. 603 bis c.p.) da altre a cui si sovrappone parzialmente – in specie, la «Riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù» (art. 600 c.p.) e la «Tratta di persone» (art. 601 c.p.) – sarà allora necessario chiedersi se la trattazione dello sfruttamento lavorativo con gli strumenti della repressione non segnali una scelta politica che assegna al diritto penale una funzione regolativa che non gli è propria (di Martino, in questo volume). Funzione che, del resto, sembra attribuirgli anche la Cassazione quando, in merito alla configurabilità del reato di cui all’art. 603 bis c.p., afferma che «esso è destinato a colmare l’esistenza di una vera e propria lacuna nel sistema repressivo delle distorsioni del mercato del lavoro», per argomentare poi che, dal momento in cui il bene giuridico tutelato è ratione materiae lo «stato di uomo libero», la fattispecie impone di «valorizzare […] qualunque condotta idonea a menomare la libertà di determinazione della vittima, attraverso l’approfittamento dello stato di bisogno o di necessità della stessa»[6]. A leggere tali argomentazioni con gli strumenti del senso comune (o della storia delle idee), si potrebbe concludere addirittura per un intento di criminalizzazione massiccia dell’intermediazione tra domanda e offerta di lavoro, dal momento che la prestazione di lavoro (nonché la sua alienazione) è sempre finalizzata a soddisfare bisogni e necessità imprescindibili per il mantenimento dei lavoratori. Nondimeno, a fronte di un reato che alcune organizzazioni sindacali e della società civile hanno assunto a «manifesto» delle campagne contro il caporalato, non si può che registrare il suo impatto quasi nullo su un fenomeno esteso, multiforme e, in alcune aree, endemico allo stesso modo di produzione del settore agricolo (Perrotta; Botte, in questo volume).

I contributi raccolti nel presente Quaderno rappresentano, dunque, una voce dissonante in un coro in un cui repressione penale e tutela della vittima sono i due corni dell’orizzonte di analisi e di intervento tra cui oscilla il dibattito. Con questo non si intende certo negare che esistano contesti di grave violazione dei diritti e delle libertà personali, soprattutto quando le vittime sono soggetti vulnerabili, come nel caso, portato alla luce da alcune ricerche, degli abusi sulle lavoratrici straniere del comparto serricolo nel ragusano (Sciurba 2015, p 129ss). Situazioni rispetto alle quali, peraltro, si trovano già nel codice penale previsioni finalizzate alla repressione delle condotte criminali e alla tutela delle vittime. Il punto è sottolineare piuttosto che l’attenzione mediatica e il discorso pubblico – i quali insistono su una rappresentazione del lavoro agricolo come un settore paraschiavistico, sovradeterminato da soggetti criminali che quasi sempre vengono identificati con i caporali – e le risposte istituzionali – le quali oscillano tra la mobilitazione di un apparato repressivo e di uno umanitario – convergono nell’elidere le relazioni produttive, nonché il lavoro, dall’analisi e dall’oggetto della tutela. A rimanere esclusi dalla scena non sono solo i datori di lavoro, ma anche tutti gli altri soggetti di una filiera produttiva ormai divenuta globale, dai consorzi di raccolta, alle industrie di trasformazione, fino alle catene di distribuzione (Perrotta, in questo volume). Come sottolineato ancora una volta da Marks, oltre alle vittime e ai carnefici, lo sfruttamento è sempre anche una questione di chi ne trae beneficio; ciò nonostante, farsene carico significherebbe andare ben oltre i soggetti presi oggi in considerazione dal diritto, poiché «la categoria dei beneficiari non fa riferimento tanto a un gruppo particolare, quanto a una particolare sfaccettatura dell’esperienza umana» (Marks 2010, p. 148).

Ad aprire il Quaderno non è una prospettiva di carattere giuridico, bensì il contributo sociologico di Domenico Perrotta, basato su ricerche empiriche condotte nel corso di anni in alcuni territori del Mezzogiorno d’Italia e dell’Emilia-Romagna. Con metodo etnografico, Perrotta fornisce un quadro complesso delle relazioni tra braccianti, caporali e imprenditori agricoli, mettendo al contempo in luce sia la precaria condizione giuridica e la conseguente vulnerabilità dei lavoratori migranti in agricoltura, sia il ruolo giocato dal caporalato nella ristrutturazione delle filiere agroalimentari. La scelta di aprire il Quaderno con una ricostruzione sociologica dei fenomeni risponde alla necessità di fornire un quadro d’insieme delle complesse dinamiche che fanno da sfondo anche ai successivi contributi, sia di ricerca che di analisi, di riflessione e di proposta. Nello specifico, il contributo di Chiara Pittaluga e Cecilia Momi, dopo aver ricostruito il quadro legislativo di recepimento della Direttiva Sanzioni in Italia e in altri paesi membri dell’Unione europea, prende in esame le ragioni dello scarsissimo impatto di tale normativa emerse durante una ricerca condotta tra novembre 2013 e gennaio 2015 in varie aree del Mezzogiorno. L’articolo, inoltre, mette in evidenza come la crescente stratificazione degli statuti giuridici dei lavoratori migranti, e le vaste sacche del lavoro grigio, concorrano a determinare una situazione difficilmente inquadrabile attraverso gli strumenti previsti dall’ordinamento, al punto che spesso sembrano prevalere risposte istituzionali ad hoc. L’articolo di Federico Oliveri si concentra su di un’area geografica e su di un settore che, a differenza di altri, non salgono abitualmente alla ribalta delle cronache; il comparto della vitinicoltura senese nelle valli del Chianti è infatti considerato una delle «eccellenze» italiane. Eppure, la ricerca condotta da Oliveri mette in luce fenomeni che si ritrovano anche in altre zone e comparti del settore agricolo, sia per ciò che riguarda la presenza sempre più frequente di lavoratori che hanno (e mantengono) lo status di titolari di protezione, sia per ciò che riguarda il ruolo svolto da società di servizi «contoterzi» in quella che, in realtà, è una funzione di intermediazione e gestione della manodopera non dissimile da quella che altrove è svolta dai caporali.

Gli articoli di Alberto di Martino e Monica McBritton pongono, invece, alcuni interrogativi che chiamano in causa direttamente i giuristi e il loro ruolo, sia nella prospettiva del diritto penale sia in quella del diritto del lavoro. Rispetto al caporalato, di Martino osserva che «di per sé, l’intermediazione non è portatrice di un disvalore “naturale” (malum in se), che imponga in prima battuta l’intervento repressivo». Il ruolo del diritto penale dovrebbe essere piuttosto quello di «assistere la disciplina regolatoria», fino al punto di arrivare ad «assumere […] esso stesso, paradossalmente, proprio quella funzione regolatoria che l’ipostatizzazione della repressione ha fatto passare in secondo piano, senza nessun reale incremento della tutela in termini di efficacia, né repressiva né preventiva» (di Martino, in questo volume). L’attenta analisi della fattispecie di «Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro» (art. 603 bis c.p.) presentata da di Martino offre, inoltre, uno strumentario utile a orientarsi anche nelle proposte di modifica della disciplina che vengono solitamente annunciate a ridosso dei fatti di cronaca[7]. L’articolo di McBritton si interroga, invece, sull’assenza della giuslavoristica dal dibattito sulle trasformazioni del lavoro in agricoltura negli ultimi due decenni. Le ragioni sono certo molteplici, a partire dalla vulgata storica per cui l’agricoltura in Italia sarebbe un settore arretrato (frutto, semmai, di precise scelte politiche), al ruolo tradizionalmente svolto in agricoltura dalla contrattazione decentrata. Proprio quest’ultimo punto mette in luce come, al contrario, il settore agricolo abbia anticipato spesso, negli ultimi anni, tendenze che si sono poi allargate ad altri comparti.

Il contributo di Anselmo Botte, infine, non si aggiunge alle prospettive scientifiche sul tema, bensì riflette il punto di vista di un protagonista delle rivendicazioni e delle lotte bracciantili. Sindacalista, oltre che scrittore, Botte si fa portavoce di una proposta di depenalizzazione del caporalato e regolamentazione dell’intermediazione di manodopera in agricoltura (entro limiti determinati e a condizioni precise) che nasce da pratiche e da interventi sul campo maturati nel corso di anni nelle campagne della piana del Sele.

Obbiettivo del Quaderno non è certo quello di esaurire il dibattito o di fornirne un quadro definitivo. Al contrario, l’intento è di aprire e stimolare la discussione, in particolare tra i giuristi, nonché di contribuire a chiarificare, anche sul piano terminologico, il discorso sullo sfruttamento del lavoro, liberandolo da alcune sedimentazioni e fallaci rappresentazioni che lo hanno reso quasi del tutto inutile. D’altro canto ci sembra, quest’ultimo, un compito da rivendicare all’accademia, seppur rammentando, con Karl Marx, come non sia questa l’unica finalità:

«Nel lavoro-merce, che è una tremenda realtà, [Proudhon] non vede che un’ellissi grammaticale. Dunque, tutta la società attuale, fondata sul lavoro-merce, è ormai fondata su una licenza poetica, su un’espressione figurata. Vuole la società “eliminare tutti gli inconvenienti” che la travagliano? Ebbene, elimini i termini impropri, muti di linguaggio, e si rivolga per questo all’Accademia chiedendo una nuova edizione del suo dizionario!» (1847, trad. it. 1950, pp. 47-348)

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G. Arrigo e G. Vardaro (a cura di), Laboratorio Weimar: conflitti e diritto del lavoro nella Germania prenazista, Edizioni Lavoro, Roma, 1982.

N. Dines e E. Rigo, Postcolonial Citizenships and the “Refugeeization” of the Workforce: Migrant Agricultural Labor in the Italian Mezzogiorno, in Postcolonial Transitions in Europe: Contexts, Practices and Politics, S. Ponzanesi and G. Colpani (eds.), Rowman and Littlefield, London, 2015.

M. Freedland and C. Costello, Migrants at Work and the Division of Labour Law, in C. Costello e e Freedland (a cura di), Migrants at Work. Immigration and Vulnerability in Labour Law, Oxford, Oxford University Press, 2014.

L. Gallino, Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Roma-Bari, Laterza, 2008

S. Magrini, voce Lavoro (contratto individuale), in Enciclopedia del diritto, Milano, Giuffrè, 1973.

S. Marks, International Law on the left: Re-examinig Marxist Legacies, Cambridge, Cambridge University Press, 2008.

S. Marks, Exploitation as an International Legal concept, in W. Matiaske, S. Costa, H. Brunkhorst (a cura di), Contemporary Perspective on Justices, München-Mering, Hampp, 2010.

M. Martone, La subordinazione, una categoria del Novecento, in M. Persiani e F. Carinci (a cura di), Trattato di Diritto del lavoro. Contratto di lavoro e organizzazione (vol. IV), CEDAM, Padova, 2012.

K. Marx, Il capitale, edizione a cura di A Macchioro e B. Maffi, Torino, UTET, 2013.

K. Marx, La Miseria della Filosofìa, Rinascita, Roma, 1950

K. Nielsen e R. Ware (a cura di), Exploitation, Atlantic Highlands, New Jersay, Humanities Press, 1997.

G. Nigro, Il cafone del villaggio globale, in M. Rizzo (a cura di), L’agricoltura pugliese tra occupazione irregolare e immigrazione, San Cesareo di Lecce, Manni, 2011.

M. Ricciardi, La società come ordine. Storia e teoria politica dei concetti sociali, Edizioni Eum, Macerata, 2010.

D. Sacchetto, Migrazioni e lavoro nella sociologia italiana, in S. Mezzadra e M. Ricciardi (a cura di), Movimenti indisciplinati. Migrazioni, migranti e discipline scientifiche, Verona, Ombre corte, 2013.

F. Santoro Passarelli, Nozioni di diritto del lavoro, Napoli, Jovene, 1995.

R. Salomone, Dalla parte di Hugo Sinzheimer: la critica di Marcello Pedrazzoli all’utopia di Karl Korsch, in L. Nogler, L. Corazza (a cura di) Risistemare il diritto del lavoro. Liber amicorum Marcello Pedrazzoli, Milano, Franco Angeli, 2012.

A. Sciurba, La cura servile, la cura che serve, Firenze, Pacini, 2015.

R. Scognamiglio, voce Lavoro subordinato I, in Enciclopedia giuridica Treccani, Roma, 1990.

[1] Per la discussione di questi temi non è possibile prescindere dall’analisi critica avanzata da Marx nel Libro Primo de Il Capitale. Per ciò che riguarda l’estrazione di valore dalla forza lavoro, si vedano i capitoli Xiii e ss. (in particolare il cap. Xv); per la critica del lavoro come merce, si veda, in particolare il cap. Xvii. Per una discussione sulla nozione di sfruttamento a partire da Marx , si veda Nielsen and Ware (1997).

[2] Per una revisione critica della concezione contrattualistica del rapporto di lavoro, si veda Scognamiglio (1990) al quale si rimanda anche per gli ampi riferimenti bibliografici; per l’opposta concezione contrattualistica, si vedano Santoro Passarelli (1995); Magrini (1973). Aderire a una concezione critica sulla possibilità di ridurre il rapporto di lavoro a uno scambio tra prestazioni corrispettive non significa appoggiare, per converso, una posizione istituzionalista ma porre piuttosto l’accento sul rapporto di subordinazione. Per una ricostruzione dell’influenza in Italia delle diverse concezioni elaborate dai giuristi del lavoro weimariani e dei diversi esiti che esse hanno avuto nel nostro paese, si vedano Arrigo e Vardaro (1982); Salomone (2012).

[3] Sulla centralità del rapporto di subordinazione nel lavoro e nell’ordine sociale, Ricciardi (2010, p. 141ss). Non è un caso che le ricostruzioni più recenti sulla natura del rapporto di lavoro insistano sulla «fuga dalla subordinazione» come categoria del Novecento, sottolineando al contempo la necessità di superare il principio di indisponibilità delle tutele; si veda Martone (2012). Per un inquadramento critico generale, si rimanda a Gallino (2008).

[4] È, tra le altre cose, sulla finzione dell’uguaglianza giuridica tra i soggetti che si sofferma la critica di Marx: «Affinché […] venda [la forza lavoro] come merce, il suo possessore deve poterne disporre, quindi essere libero proprietario della sua capacità lavorativa, della sua persona. Egli e il possessore di denaro s’incontrano sul mercato ed entrano in rapporto reciproco come possessori di merci di pari diritti, unicamente distinti dal fatto che l’uno è compratore e l’altro venditore; quindi anche come persone giuridicamente eguali. (1867, trad. it. 2013, p. 832).

[5] Per la campagna del Consiglio d’Europa, si veda il sito http://www.coe.int/t/DG2/TRAFFICKING/COMICS/ (ultimo accesso 31 ottobre 2015)

[6] Cass. V 4.2.2014, n. 14591; (sul punto, anche di Martino, in questo volume).

[7] Una sintesi delle linee di intervento proposte nell’autunno 2015 è presente al sito https://www.politicheagricole.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/9080 (ultimo accesso 31 ottobre 2015).

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