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Ben più che l’orrore della battaglia di Aleppo, alla fine è stata la pressione di migliaia di migranti a imporre un fragile accordo sulla guerra siriana. Settimane di trattative, ricatti più o meno espliciti, accordi indicibili sulla pelle dei curdi, denaro richiesto e promesso, l’annuncio dell’intervento della NATO, un altro inaccettabile ultimatum alla Grecia, questa volta sui migranti: tutto vuole confermare che il problema dei migranti si gioca sui confini. Non è così. Per capirlo basta guardarsi intorno. Per capirlo bisogna guardare dentro gli Stati e all’Unione europea. Dopo avere annunciato un emergency break – il taglio per due anni dei benefici sociali legati al lavoro per i migranti interni all’Unione Europea – il governo Cameron ha promosso insieme all’ONU e ai governi di Germania, Kuwait e Norvegia una «Conferenza dei donatori» per il sostegno della «crisi dei rifugiati» siriani. Nove miliardi di euro si aggiungeranno ai dodici promessi dalla Banca Centrale Europea a Turchia, Libano, Giordania ed Egitto per gestire i flussi di migranti al di fuori dell’Unione. Questo slancio umanitario e l’ipotesi di sospendere per due anni il trattato di Schengen sulla libera circolazione sono parte di uno stesso processo. Non si tratta di un semplice ritorno alla sovranità nazionale: anche quando sono prese in modo unilaterale, le decisioni sovrane dei singoli Stati hanno cause ed effetti globali perché globale è il processo innescato dal movimento dei migranti. Non si tratta della «fine» di Schengen, ma della sua continuazione con altri mezzi: una complessiva istituzionalizzazione delle gerarchie del lavoro che mira a governare il movimento reale che sta radicalmente modificando la costituzione materiale e l’assetto istituzionale europei. Essere all’altezza di questo movimento reale significa politicizzare il rifiuto della guerra, del regime del salario e del governo della mobilità che milioni di uomini e donne esprimono quotidianamente sfidando i confini. È necessario costruire le condizioni di una centralizzazione politica che non si limiti a coordinare le esperienze di attivismo esistenti, ma che trasformi la presenza di massa dei migranti in una forza capace di catalizzare il rifiuto dell’oppressione e dello sfruttamento vissuti da precarie, migranti e operai nello spazio allargato dell’Europa. Il movimento globale dei migranti non può essere ridotto a oggetto locale, tanto meno a oggetto locale di un gioco elettorale al quale i migranti non possono nemmeno partecipare.
Il sistema di Schengen non ha mai edificato una «fortezza» di frontiere invalicabili attorno a un’area di libera circolazione. Per decenni quelle frontiere hanno funzionato da filtro – selezionando e differenziando lo status della forza lavoro migrante – e hanno stabilito confini interni che soltanto nella cronaca più recente hanno assunto le sembianze di muri. D’altra parte l’emergency break vanta gloriosi precedenti. Nel 2014, per fare solo un esempio, il governo britannico ha imposto ai migranti extraeuropei un aumento del ticket sanitario pari al 150%, il cui effetto più eclatante è stato di costringere le donne migranti a pagare fino a novemila sterline per un parto. Questo non è un caso eccezionale, anche se finora solo la Gran Bretagna è arrivata a minacciare una «Brexit» per arginare il «turismo del welfare». La confisca dei beni dei rifugiati da parte della Danimarca segue infatti la stessa logica dell’emergency break: «prima di avanzare delle pretese, bisogna pagare». Questo slogan trova d’accordo l’Olanda, dove i rifugiati non possono lavorare per più di 24 settimane all’anno, ma devono pagare una gabella pari al 75% del loro reddito agli enti di gestione dei centri di accoglienza in cui per legge sono obbligati a risiedere. I sistemi dell’accoglienza creano un bacino di forza lavoro quasi servile, agganciata a uno status differenziato che deve essere accettato in cambio di assistenza e «protezione». Questo è solo un tassello di un «welfare della mobilità» attraverso il quale viene intensificato il processo di finanziarizzazione e «contrattualizzazione» dei servizi: in una logica mercantile secondo la quale ogni prestazione deve avere un equivalente in lavoro o denaro, i servizi sono sempre più orientati al profitto.
Dietro alle confische danesi – con la loro oscena evocazione di pratiche naziste – e alla sospensione di Schengen da parte della Gran Bretagna c’è una complessiva ridefinizione della costituzione europea in virtù della quale la precarizzazione del lavoro è tanto generale quanto disomogenea. Da una parte, prestazioni sociali sempre più limitate vengono riservate a chi ha un titolo di cittadinanza «pieno», per compensare gli effetti del progressivo abbassamento dei salari. Dall’altra parte, nel momento in cui i migranti interni ed esterni sono costretti a pagare per quelle prestazioni, il salario diventa uno strumento appena sufficiente alla «riproduzione ristretta» della forza lavoro. È sufficiente considerare le limitazioni ai ricongiungimenti familiari applicate in tutti gli Stati d’Europa per comprendere che cosa si intenda per «riproduzione ristretta»: una riproduzione del lavoratore o della lavoratrice nel suo isolamento, senza neppure la prole per definirsi proletario e senza alcuna possibilità di trasformare la migrazione in mobilità sociale. L’attraversamento dei confini viene utilizzato istituzionalmente per sottrarre il potere sociale che le migrazioni accumulano in quanto fenomeno di massa. A questo servono le confische di beni, la negazione di quote di salario indiretto oppure, per restare alla sola cronaca italiana, la riduzione delle carte di soggiorno europee di lungo periodo in permessi di lavoro subordinato per i migranti che intendano trasferirsi in Italia da un altro paese europeo prevista dal nuovo decreto flussi.
Molti dei più raffinati interpreti dei desideri del capitale hanno visto bene il legame indissolubile tra governo della mobilità e regime del salario. Dai quartier generali della Deutsche Bank ai think-tank della politica economica britannica fino al Fondo Monetario Internazionale risuona unanime una chiara indicazione politica: l’abolizione del salario minimo legale, considerato un incoraggiamento all’immigrazione, e la definizione legale di salari più bassi per i migranti che vengono «accolti» in Europa. I «confini salariali» interni allo spazio europeo – presenti da sempre, per quanto mai tracciati sulle mappe – non sono più sufficienti. Non basta che i salari dei paesi dell’Est siano sistematicamente più bassi di quelli dell’Europa settentrionale, perché la migrazione offre comunque la possibilità di rifiutare questo immiserimento del lavoro e cercare di meglio altrove. I differenziali salariali vanno quindi riprodotti e garantiti istituzionalmente anche all’interno dei singoli Stati dell’Unione. Una politica propriamente europea si sta quindi definendo a partire dalle scelte sovrane e protezionistiche dei singoli Stati. Queste scelte non impongono necessariamente una chiusura territoriale dei confini dello Stato nazione, ma aperture differenziali in virtù delle quali una decisione sovrana della Gran Bretagna avrà effetti a catena sui regimi di riproduzione sociale dei paesi dell’Est come la Polonia, da cui arriva la maggior parte dei migranti interni che saranno colpiti dall’emergency break. Questa politica è destinata ad avere conseguenze anche al di fuori dei confini dell’Unione, sulla vita di milioni di uomini, donne e bambini che, per sfuggire alla guerra, dovranno assoggettarsi in modo coatto a questo regime del salario. I miliardi destinati ai paesi di frontiera non sono soltanto un supporto alla costituzione di immensi centri di detenzione a cielo aperto in funzione del contenimento di flussi massicci e inarrestabili. Lo scandalo dei profughi bambini messi al lavoro in Turchia nella produzione per noti marchi dell’abbigliamento parla anche di catene transnazionali dello sfruttamento che si dipanano lungo i confini del salario. Grazie alla cooperazione internazionale e alle misure umanitarie una massa enorme di individui viene messa coattamente al lavoro, producendo profitti che torneranno in Europa con costi sociali ridotti perché una quota rilevante della gestione e riproduzione della forza lavoro è affidata a paesi terzi.
L’ambiziosa pretesa di «democratizzare l’Europa» deve necessariamente misurarsi con le conseguenze globali delle politiche europee e con quegli «effetti di sovranità» che, sebbene generati dai singoli Stati, vanno al di là dei loro confini e di quelli dell’Unione. Una simile pretesa deve necessariamente partire dalla registrazione che è già in atto un movimento pratico di democratizzazione dell’Europa. Il deficit democratico altro non è che la resistenza a riconoscere la pretesa politica di precarie, migranti e operai. Rendere presente e viva la loro pressione è il nostro dilemma democratico. Se il progetto di questa Unione Europea allargata è di ridurre milioni di uomini e di donne a bestie da salario la cui vita vale solo in quanto è messa al lavoro, è necessario opporsi sistematicamente alla coazione imposta dai confini territoriali, del salario e del welfare. Gran parte dei movimenti sociali in Europa riconosce finalmente che oggi ogni iniziativa politica deve fare i conti con la presenza di massa dei migranti. Questa presenza è vista come un’occasione per dare nuova forza all’attivismo e alla solidarietà, per generalizzare la rivendicazione di migliori condizioni di vita e di lavoro per tutti e tutte, per connettere molteplici iniziative locali sul piano europeo. Tutto questo è importante, ma non è sufficiente a colmare lo scarto tra i movimenti sociali esistenti e il movimento reale scatenato dai migranti. La presenza di massa dei migranti, che sta radicalmente modificando la composizione del lavoro vivo, non corrisponde ancora a una forza politica da far valere contro la nuova costituzione europea. E d’altra parte ci si deve interrogare sui limiti di una riabilitazione della rappresentanza che necessariamente esclude proprio i migranti. I migranti sono una critica pratica alla democrazia rappresentativa. Per «democratizzare l’Europa» non è sufficiente un cambiamento del quadro politico e istituzionale dell’Unione, ma è necessario dare voce al movimento reale che sta facendo vacillare quel quadro. Per questo, si tratta di costituire uno spazio organizzativo transnazionale all’interno del quale i migranti possano prendere parola non come oggetti di accoglienza e solidarietà o di un’impossibile rappresentanza, ma come protagonisti di una lotta che mira a sfidare e rovesciare le gerarchie che l’Europa pretende di imporre. Solo così la solidarietà che ha mobilitato parte della società in molti paesi europei può diventare a sua volta un movimento in grado di sfidare i confini e le gerarchie di questa Europa. Con questa prospettiva devono misurarsi quei movimenti, come Blockupy, che in questi anni hanno messo in relazione esperienze anche molto diverse e coordinato l’opposizione europea contro le politiche di austerity. In questa direzione, la mobilitazione del primo marzo – solo il primo passo di un progetto e di un processo più ampio per uno sciopero sociale transnazionale – offre un’indicazione politica chiara, che non può e non deve esaurirsi in una singola giornata di azioni. Mobilità, salario e welfare devono diventare terreni di rivendicazione comune, a partire dai quali innescare nuovi processi di lotta realmente transnazionali. Portare sul piano europeo la battaglia per riconquistare quote di potere sociale, rifiutare le gerarchie imposte attraverso i confini territoriali, il salario e il welfare deve essere la leva per mettere in questione l’intero assetto istituzionale dell’Europa e dei suoi Stati, per rovesciare gli attuali rapporti di forza di cui quell’assetto è espressione, per aprire spazi di libertà tuttora imprevisti.