venerdì , 22 Novembre 2024

Sul crepuscolo di una subalternità

di FERRUCCIO GAMBINO e DEVI SACCHETTO

MerottoIn vista della presentazione a Bologna (qui l’evento Facebook) di La fabbrica rovesciata. Comunità e classi nei circuiti dell’elettrodomestico di Graziano Merotto (Roma, DeriveApprodi, 2015), pubblichiamo il poscritto al volume di Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto.

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Ci sono poscritti che si scrivono per dovere e altri che si scrivono per convenienza. Questo lo scriviamo per interesse: certamente non per lucrare qualche prebenda a beneficio dell’autore; e neppure per chiedere venia delle eventuali manchevolezze dell’opera, consapevoli come siamo delle coscienziose ricerche di Graziano Merotto in un reame industriale chiuso, che soltanto nel corso di un tempo da lui ben speso gli è stato possibile rischiarare. Il nostro è un interesse inteso a incoraggiare il dibattito sui rapporti industriali del presente e del futuro, al di fuori dei pregiudizi interessati alle armonie prestabilite.

Si tratta di un dibattito che si situa all’intersezione di alcune branche delle scienze sociali. Altre discipline appaiono parche di contributi per la ricostruzione di controversi processi sociali contemporanei. Sull’argomento studiato da Graziano Merotto le eccezioni sono rare. Lettrici e lettori potrebbero dubitare degli ostacoli che l’autore ha dovuto superare per portare a termine questo volume. In effetti, gli ostacoli non traspaiono nel testo, che anzi mostra un sereno distacco sine ira ac studio rispetto alle singole figure che impersonano il capitalista e il proprietario fondiario, rappresentanti di rapporti sociali di cui in realtà sono le creature.

Il libro è il frutto di una ricerca priva di sostegni pubblici e privati, svolta nei meandri di ambienti industriali di cui poco si conosceva, e portata a termine con notevole motivazione. In realtà, l’autore ha sviluppato una conricerca esemplare con i protagonisti delle molteplici iniziative operaie che hanno trasformato in soggetto politico la forza-lavoro del comparto dell’elettrodomestico nell’area studiata. Con tale soggetto politico uno dei padronati più inflessibili e retrivi dell’Europa meridionale è stato alfine costretto a fare i conti. All’inizio degli anni 1950, osservava in privato l’allora direttore di un influente quotidiano romano (nonché grand commis della conservazione sociale): «Ho fatto un viaggio di recente nel nord d’Italia, nel Veneto, e ho notato che persone di alta posizione sociale, quelle che hanno in mano la cosa pubblica, gli affari, la finanza, tutto, non comprano nemmeno il giornale e quando lo comprano non lo leggono». (Giuseppe Prezzolini – Mario Missiroli, Carteggio 1906-1974, a cura di Alfonso Botti, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1992, p. 290, lettera di M. Missiroli a G. Prezzolini, 18 ottobre 1951).

La conricerca dell’autore è andata di pari passo con l’intenso impegno nelle ricorrenti campagne politiche dalla parte di sfruttate e sfruttati nel Veneto orientale, creando una consuetudine e una fiducia che si sono costruite nel corso del tempo a favore dell’autore. Questo atteggiamento collettivo si è rivelato indispensabile in un progetto che è stato da sempre comune e che quindi ha richiesto a tutti/e i/le cointeressati/e uno sforzo concorde di memoria e d’intelligenza nel mettere in ordine le tessere di un vasto mosaico oltre che la prossimità e la passione nel dibattito pubblico sui temi più vitali, dai ritmi di lavoro fino alla sempre incombente nocività. La fiducia che tutto un collettivo di lavoratrici e lavoratori e alcuni/e intellettuali (assai meno qualche politico) hanno riposto in Graziano Merotto ha dato i suoi risultati: non soltanto in questo volume ma anche nel patrimonio di esperienza e di orientamento che la riflessione condivisa sul passato e sul presente ha saputo mettere a frutto per affrontare le sfide presenti e future. In breve, il ricercatore di un processo di trasformazione in atto ha coinvolto più generazioni di lavoratrici e lavoratori.

Al progredire sia delle interviste, sia delle consultazioni dei materiali nell’Archivio di Stato di Treviso (qualche altro archivio è risultato inaccessibile) sia dell’esame dei materiali a stampa, le sparse tracce di una lunga vicenda poco meno che secolare sono state ricomposte e hanno preso forma e significato non soltanto per coloro che hanno vissuto almeno un tratto di questa storia ma anche per coloro che, essendo più giovani, vogliono capirne le ragioni, senza cedere al fatalismo dell’immutabilità dello stato presente.

E veniamo ai temi centrali del libro con due avvertenze preliminari. In primo luogo, questo non è un volume di storia locale. Qui le vicende operaie di un recente passato che affiorano in superficie ne anticipano altre che sono in corso in Asia, nell’America meridionale, in Africa e altrove. In realtà, quelle altre vicende non sono avulse da queste, poiché a ben guardare risultano essere almeno in parte gli esiti dei tentativi di buona parte del capitale industriale nordatlantico di emanciparsi dalla «sua» classe operaia di fabbrica. Riassuntivamente, si possono elencare i processi che segnano i punti di svolta di un tortuoso percorso nel contesto qui studiato: la conquista della mobilità territoriale da parte di proletari/e senza terra, la dissoluzione della comunità contadina, il distacco dall’agricoltura e l’ingresso nell’industria, la scoperta che un’altra comunità può sorgere contro un padronato aduso da secoli a comandare con un cenno del capo, l’esproprio capitalistico di un immenso cumulo di saperi e di fatiche e il suo conferimento a prezzi scontati a un destino multinazionale, l’infernale apparato concorrenziale tra sfruttati messo in atto con le delocalizzazioni industriali, ma anche la volontà collettiva di opporsi al deterioramento delle condizioni di lavoro e l’attiva speranza che la combattività operaia possa erodere i vantaggi padronali connessi alla mobilità degli investimenti.

In secondo luogo, questo non è un libro di storia di un comparto merceologico dell’industria italiana e più in generale europea, bensì un ragionato contributo a sbrogliare la matassa di nodi pratici e teorici che incombono sul lavoro vivo e sulla sua mercificazione a livello mondiale. Quindi, l’interpretazione del volume come un saggio sul tempo ritrovato di un collettivo operaio nelle alterne congiunture dello scorso settantennio porterebbe chi legge fuori strada. Si tratta, a nostro giudizio, di una critica radicale introdotta nella sociologia industriale dall’interno del suo laboratorio segreto, ossia della fabbrica, dove a campeggiare non sono più le pressanti esigenze del capitale bensì le insorgenti soggettività di coloro che quotidianamente vanno adattandosi – e disadattandosi – allo sfruttamento. E intanto questi/e operai/e si lasciano alle spalle il retaggio di secoli di deferenza alle varie figure dell’autorità, dai patrizi veneti ai galantuomini postrisorgimentali fino ai piccoli manifatturieri dell’Italia settentrionale che si apprestano a diventare industriali dopo il 1945.

Dunque, il libro non è né una storia del lavoro ipso facto costruttivo, storia che spesso finge di non vederne la carica distruttiva, né un saggio di sociologia del lavoro, disciplina sorta come studio di movimenti operai per conto del padronato e poi trasformata in sapere inteso alla mediazione e alla risoluzione del conflitto industriale. Per contro, qui la risoluzione del conflitto non è considerata come il punto di approdo delle vicende esaminate. Il conflitto si presenta sì nelle sue forme più varie e contradditorie ma non finisce per placarsi nel progresso, cioè nell’alta marea che dovrebbe sollevare tutte le barche, o più miserabilmente, nel reaganiano sgocciolio che, percolando, raggiungerebbe perfino i bassifondi delle abissali disuguaglianze in atto. Come l’autore indica, durante gli ultimi decenni dell’Ottocento la lotta di classe nell’area esaminata appare a prima vista circospetta, ma già negli ultimi anni dell’epoca giolittiana e ancor più per le devastazioni umane e materiali recate nel Veneto dalla guerra 1915-18 il fermento di contadini senza terra e di operai a salari decurtati dall’inflazione subisce una metamorfosi generale, saldandosi nelle rivendicazioni dell’esodo dalla miseria e congiuntamente della libertà politica. Verso la fine dell’Ottocento lo strumento primario del conflitto era apparso nella figura ambivalente dell’emigrante sostenuto dal consenso comunitario e dai risparmi raggranellati dalla famiglia patriarcale. Gli imbarchi senza ritorno portavano verso le Americhe ma non mancavano le peregrinazioni più o meno lunghe verso gli imperi centrali.

Per contro, dopo l’armistizio del novembre 1918 e fino all’avvento dello squadrismo, si manifesta un movimento rivendicativo multicolore che invade l’arena pubblica e che non abbandona facilmente il terreno. La dittatura fascista reprime le istanze salienti, guadagnandosi così benemerenze inconfessabili ma inestinguibili presso il padronato. Le rivendicazioni represse covano sotto la cenere e divampano durante l’agonia del nazifascismo. Dopo l’aprile del 1945, la sfida postbellica alle istituzioni si concreta tra l’altro nelle esplorazioni di una minoranza attiva di proletari veneti che si avventurano nelle periferie del Triangolo industriale rischiando il foglio di via e ancor più nelle città e nei centri minerari di Francia e Belgio rischiando il rimpatrio forzato. In prima linea nelle esplorazioni sono i giovani che nel corso della guerra hanno imparato in vario modo a disubbidire alle autorità e a trasgredirne gli ordini.

Nello scorcio dell’Ottocento l’emigrazione italiana di lunga distanza era apparsa la strada maestra per scampare ai soprusi dei possidenti ed era stata prima tollerata e poi assecondata dalle autorità civili e dalla gerarchia cattolica, ma a condizione che fosse irreversibile. Poi, negli anni 1920 le frontiere si erano chiuse. In séguito della Grande depressione l’unico esodo possibile appariva la breve emigrazione volontaria ma irreggimentata verso la Germania nazista (1936-39). Dopo il 1945 si apre qualche spiraglio a un’emigrazione che lascia la speranza del rientro. Di lì a pochi anni nel Triveneto comincia a prendere slancio la mobilità di breve distanza. Emigrazione e pendolarità sono portatrici di una nuova «libertà di cambiare padrone», come spiega l’autore. Questo crescendo della mobilità dei giovani in territori a loro sconosciuti non conduce direttamente al riconoscimento della forza-lavoro quale controparte dell’impresa. Tuttavia ne è una condizione necessaria. Grava ancora l’obbligo mezzadrile di non modificare «la composizione della famiglia colonica», ossia del numero delle braccia vincolate alla terra. Nel dopoguerra il quadro generale della mezzadria non è riformato con una legge dello Stato. La mezzadria viene abrogata soltanto dal silenzioso decreto di affrancamento promulgato dalla giovane generazione che vota con i piedi andandosene dalla campagna e negando la secolare deferenza dovuta alle classi proprietarie. È così che persino gli agrari sono indotti a più miti consigli.

Il centro-sinistra di governo viene messo davanti al fatto compiuto, diventando poi il notaio della liquidazione della mezzadria (1964). Solo verso la fine del ventennio del tramonto della mezzadria (1944-1964) si può dire che la servitù risulta debellata – biolca dopo biolca – nell’area qui studiata. La nuova generazione può così imboccare la via salariale alla dissoluzione della comunità contadina. Si dilegua la paura della «disdetta» padronale, vale a dire dello sfratto legale contro i mezzadri. Grazie al sostegno della famiglia, i giovani scampati alla guerra tentano la via della fabbrica senza correre il rischio della miseria; la retrovia contadina costituita dalla generazione anziana assicura quantomeno la sopravvivenza nei periodi di avversità, in particolare durante gli scioperi. Il tacito patto generazionale tra sfruttati regge ed è destinato a mettere fine a quel tipo di subalternità. Nelle fabbriche in espansione della provincia trevigiana, tra cui spicca la Zoppas, i giovani si aggregano al gruppo dei navigati trasgressori del periodo bellico e dei migranti più o meno irregolari di ritorno dall’Europa centrale. Verso la fine degli anni 1950 questi giovani non si arroccano in fabbrica ma al contrario vogliono occupare uno spazio pubblico come nuovi soggetti, capaci di segnare i tempi e i modi del conflitto e addirittura di estendere le linee traccianti della loro condotta nel resto d’Italia e oltre. Le antenne dell’attenzione giovanile si alzano per scrutare le tendenze e i movimenti a livello internazionale. Il lascito dei veterani a favore di questi giovani denota una capacità di comprensione politica di prim’ordine. Invece di contrapporsi ai giovani, i «vecchi» delle commissioni interne di fabbrica li assistono, posando così una pietra miliare nel rapporto tra le generazioni sfruttate, che qualche decennio più tardi si tenterà poi di svellere. L’acquisizione della Zoppas da parte del gruppo Zanussi (1970) avviene verso la fine di questa lunga fase di dialogo tra le generazioni.

La capacità di irraggiamento all’esterno delle maestranze del gruppo declina dopo il 1977 e ancor più dopo l’acquisizione del gruppo Zanussi da parte della multinazionale Electrolux (1984), più interessata allo smembramento di un collettivo operaio ancora compatto che alla sua conclamata qualità totale. Il processo di ristrutturazione industriale (1984-91) mette infine capo a una produzione «a isole» (1991) caratterizzata da mansioni più ampie di quelle dettate dalla catena di montaggio. La robotizzazione parziale della fabbrica sembra il preludio alla liquidazione della catena. Ma così non sarà. All’inizio del nuovo millennio l’esperimento di robotizzazione «a isole» è eliminato a motivo degli asseriti costi eccessivi. Come uno zombi dagli inferi, torna la catena di montaggio. In questo frangente, la trasmissione delle esperienze operaie passate ai/alle nuovi/e assunti /e degli anni 1990 è il frutto di una straordinaria disposizione delle singole individualità e del collettivo operaio a una solidarietà che intende non lasciare indietro nessuno.

Una società che è tradizionalmente divisa in classi sociali nettamente differenziate e che al tempo stesso è capace di mobilitare le forze disponibili alla salvezza collettiva e al cosiddetto bene comune è lo sfondo storico della formazione sociale qui considerata, come di tante altre formazioni sociali votate da secoli a regolare il territorio (e in particolare le acque) e a scongiurare i pericoli interni, almeno tanto quanto quelli esterni. Nell’area considerata il legame sociale ha oscillato a lungo tra il mito fattualmente efficace dell’interclassismo e l’ordine mirante a inquadrare a ranghi serrati i ceti subalterni che sarebbero dovuti rimanere relativamente poveri, lindi e laboriosi. Possiamo osservare la nostalgia di qualche patrizio per un tale assetto sociale. Il punto è che la nostalgia è stata presa a pretesto da parte di un’imprenditoria d’inizio millennio in preda all’affannosa ricerca di consenso e di conseguenza vogliosa di proiettare nel presente un passato immaginario. I tentativi di ricostruzione di un’armonia sociale bella e perduta a fronte di inesorabili e dilanianti processi di differenziazione di classe si erano susseguiti già durante e dopo il Risorgimento, e ancor più dall’inizio del Novecento, sia attraverso l’intesa dei potentati cattolici con quelli laici sia con il veicolo del fascismo sia con la spinta collaborativa democristiana. Poi, in un quadro politico in crisi irreversibile a partire dagli anni 1980, sono stati evocati gli antichi appelli interclassisti, questa volta in chiave di nazionalismo venetista: operazione destinata a sgretolarsi ma a condizione di una qualche spallata assestata dall’interno del contesto regionale.

A lungo, dalla seconda metà dell’Ottocento e fino ai nostri giorni i luoghi del lavoro industriale hanno costituito un solvente chimico decisivo dell’unità di popolo. Le vicende di questo volume illustrano anche tale processo. Alla base della ricostituzione del bene comune sta il postulato della positiva laboriosità dei cosiddetti sottoposti, da contrapporre alla pigrizia altrui. Tuttavia dopo il 1945 i sottoposti e ancor più le sottoposte si sottraggono al lavoro industriale già nel periodo dell’adolescenza. Su scala minore ma comunque significativa rispetto ad analoghi processi in corso nel Sud-est asiatico di messa al lavoro industriale di giovani e giovanissime donne costrette a una bassa scolarità, negli anni 1970 e 1980 nel Veneto, come in altre regioni adriatiche, si esaurisce l’ultimo atto della produzione di massa a basso costo, affidata a giovanissime maestranze femminili nel tessile-abbigliamento e nel calzaturiero. Quando, verso la fine degli anni 1970, le giovani superano il tradizionale sbarramento della scuola superiore, si impone la risposta padronale della delocalizzazione massiccia verso Oriente, ossia nell’Europa sud-orientale e nell’Asia orientale. Nel Veneto la disponibilità al lavoro femminile cede il passo a una più lunga scolarità, un’aspirazione assai sentita ma irrealizzabile per molte giovani donne nei tre decenni successivi alla fine della guerra. Negli anni 1980, pur alla vigilia delle delocalizzazioni e degli accordi di libero scambio globale che avrebbero messo a dura prova molti distretti industriali europei, dominavano l’esaltazione della laboriosità veneta e l’animismo territoriale della cosiddetta vocazione dei distretti industriali a determinate filiere produttive. Esaltazione dell’instancabilità e animismo locale sono risultate attardate ideologie (di destra come di sinistra) che non sono meno mistificatorie degli attuali peana alla laboriosità delle maestranze asiatiche e alle reprimende nei confronti delle forze di lavoro occidentali, «costose» e automaticamente «fuori mercato».

Un «fuori mercato» che stride con il già citato ritorno alla catena di montaggio dell’Electrolux. Tra i meriti di questo libro vi è quello di mostrare il mito dell’irreversibilità del «progresso» nella condizione industriale e ancor più il costante dissidio di chi lavora rispetto alle ragioni del profitto a tutti i costi (umane ed ecologiche): in breve, l’eclisse di senso che angustia tale lavoro nelle sue versioni, tutte assai simili nella loro monotonia. Ma il libro mostra anche la solidarietà tra sfruttati/e che a suo modo ripara segmenti di vita consumati in cambio della sopravvivenza. Su questo terreno, l’irriconciliabilità del lavoro alienato con lo sfruttamento è un orizzonte inaggirabile, pur negli alti e bassi congiunturali. In una fase d’internazionalizzazione della produzione industriale che intende inglobare gruppi umani finora lontani dalla condizione di forza-lavoro mercificata, questo volume consegna a quanti/e verranno una vicenda esemplare. Dobbiamo essere grati a Graziano Merotto e al collettivo che l’ha aiutato per avere rammentato che, pur nell’avversità dei tempi, l’alternativa di legami sociali più decenti ha vissuto e vive in questa vicenda, e, quel che più conta, va tramandandosi.

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