di PAOLA RUDAN
La stessa notte in cui ha finalmente successo, Victor Frankenstein sogna la propria madre, che si decompone nel momento stesso in cui lui l’abbraccia. La scena onirica descritta da Mary Shelley racconta la storia millenaria della battaglia combattuta sul corpo delle donne per l’appropriazione della loro capacità generativa, la storia di una potenza che deve essere dominata per affermare un potere. La tecnica che in questa storia prende il posto della natura non è uno strumento orientato a espandere capacità genericamente umane, ma la cristallizzazione di un dominio patriarcale che riduce il corpo della donna a una funzione della propria riproduzione. Renderlo inessenziale significa togliere dalla scena chi, a partire da quel corpo, può fare obiezione all’onanistica pretesa maschile di un dominio pieno e incontrastato sulla vita. La storia più recente di questa obiezione è racchiusa in uno slogan: «l’utero è mio e lo gestisco io». Con queste parole, le femministe hanno affermato un potente principio di autodeterminazione, hanno preteso di slegare il proprio corpo e la propria sessualità dall’imperativo patriarcale alla riproduzione, hanno rifiutato il destino materno che quell’imperativo imponeva loro per fare della maternità una scelta libera, solo un progetto tra i molti possibili per essere donne. L’obiezione racchiusa in quello slogan consiste nell’affermare, contro ogni destino deciso da altri sul proprio corpo, la libertà di non essere madri.
In modo più o meno inavvertito, questa libertà è stata cancellata dal recente dibattito scatenato dall’appello di Se non ora quando-Libere per la proibizione globale della maternità surrogata. Contro l’attitudine «eurocentrica» e «paternalistica» di chi pretende di avere l’ultima parola sulla libera scelta di donne disposte a prestare o affittare il proprio utero, come dono o in cambio di denaro, si afferma un indiscutibile principio di autodeterminazione che fa da supporto a un altrettanto indiscutibile desiderio – magicamente trasformato in diritto – di avere dei figli. In modo più o meno inavvertito, il linguaggio della libera scelta fa salva una coazione alla procreazione che pare ora indiscutibile. Ciò avviene nonostante la libertà di ricorrere alla maternità surrogata sia posta come necessario complemento alla libertà di ricorrere all’interruzione della gravidanza. Tra le due prospettive, infatti, non c’è equivalenza. È certamente vero che le tecniche riproduttive offrono oggi la possibilità di aggirare i limiti alla capacità naturale di procreare imposti dal corpo o dalle pratiche soggettive – l’infertilità, oppure la scelta di esprimere la propria sessualità con qualcuno o qualcuna del proprio sesso. Quelle tecniche, tuttavia, hanno sempre e comunque bisogno di un corpo di donna e per questo non spezzano, ma al contrario riaffermano il nesso tra il sesso biologico femminile, la sua funzione procreativa e la riproduzione di un ordine patriarcale e proprietario.
Sulle condizioni nelle quali avviene la scelta di affittare il proprio utero si sono interrogate in molte. Contestando, comprensibilmente, la scarsa attenzione di Snoq-libere per la quotidiana mercificazione delle donne nel lavoro salariato, si è quindi osservato che – soprattutto nel Sud globale, dove il ‘leasing uterino’ è legalmente praticato – la libertà offerta dal mercato nasconde la necessità imposta dalla povertà e dalla privazione, le stesse che obbligano le donne – soprattutto migranti – a offrirsi sul mercato globale come lavoratrici domestiche e della cura. Altre hanno stabilito la differenza tra l’affitto e il dono, che in assenza della mediazione di denaro renderebbe davvero libera la scelta, iscrivendola in un orizzonte puramente affettivo e fiduciario, dunque ripulito da ogni rapporto di potere. Tuttavia, che si tratti di un dono oppure di uno scambio utile per entrambe le parti – in questo caso senz’altro iscrivibile in una piena razionalità di mercato – resta il fatto che il «valore» accordato a una donna, tanto monetario quanto affettivo, coincide con la funzione riproduttiva che il suo corpo promette e permette. Se si tratta di provincializzare l’Europa, è politicamente corretto riconoscere alle donne del Sud del mondo che in modi diversi mettono a disposizione il proprio utero una capacità di giudizio, che peraltro praticano quotidianamente senza bisogno del riconoscimento delle donne che vivono nell’Europa sprovincializzata. Sarebbe altrettanto corretto ammettere, però, che l’alternativa non è necessariamente l’affermazione di una prospettiva eurocentrica – né tanto meno considerare la relazione materna come un «bene» da tutelare assieme alla «civiltà europea» di cui sarebbe espressione – ma la possibilità di interrogarsi sugli effetti materiali e simbolici globali di questa valorizzazione patriarcale del corpo delle donne.
Se è così, dovrebbe essere lecito anche chiedersi che cosa trasformi un desiderio in diritto, al di là della possibilità materiale che la tecnica (e il denaro che alla tecnica permette di accedere) offre per realizzarlo. Senza trattare dell’adozione e delle difficoltà burocratiche spesso insormontabili che la ostacolano, la domanda ha in ogni caso a che fare con le ragioni stesse del desiderio. Lo slogan «l’utero è mio e lo gestisco io», oggi evocato per affermare l’indiscussa libera scelta delle madri surrogate, ha portato con sé anche una domanda – spesso dolorosa – sul desiderio di maternità. Una donna che non può avere figli è per questo «meno donna»? La lunga storia della maternità surrogata recentemente ripercorsa sulle pagine del «Manifesto» può forse offrire una risposta, che tuttavia non consiste affatto nell’affermazione di un principio di autodeterminazione femminile. Il capitolo 16 della Genesi, in cui Sara ormai non più fertile convince Abramo a ingravidare la schiava Agar affinché lui possa avere la sua progenie, o la pratica del ventrem locare, che nell’antica Roma permetteva a un uomo di cedere temporaneamente la propria moglie a un amico la cui donna non poteva procreare, raccontano di un affare maschile che condanna le donne all’irrilevanza e alla sostituibilità in virtù della loro incapacità di dare all’uomo il figlio che è suo. Che molte donne in ogni punto del mondo siano oggi libere di vivere la propria sessualità come meglio credono non significa necessariamente che altre donne non sentano su di sé il peso costante di una norma patriarcale che, per quanto sia mutata, non è venuta meno. Non si tratta quindi di negare a prescindere la consistenza e la ricchezza di un legittimo desiderio di maternità, ed è necessario riconoscere che la maternità non può in nessun caso esaurirsi nella gestazione e nell’atto di procreare. Bisognerebbe però domandarsi quanto l’impossibilità fisica di avere un figlio può essere vissuta dalle donne come senso di insufficienza e mancata realizzazione come donne. Bisognerebbe chiedersi, in altre parole, quanto l’indiscutibile diritto a servirsi di una madre surrogata per essere madri non riabiliti sotto nuove spoglie quel «destino materno» imposto dal patriarcato che le donne e le femministe hanno contestato praticamente e politicamente. Questa domanda è tanto più legittima quanto più nella maternità surrogata si esprime la pretesa di una continuità biologica tutta interna a un ordine proprietario e patriarcale: per generare mio figlio, per soddisfare il mio desiderio, ho bisogno del corpo di una donna che diventerà, per nove mesi, l’incubatrice del mio ovulo e del seme paterno che lo farà germinare, dunque della creatura che del padre porterà il nome. Questa creatura rischia così di diventare soltanto il complemento di un ordine che prevede specifici ruoli e gerarchie sessuali, che nel desiderio di procreare non trovano un’obiezione ma soprattutto una conferma.
D’altra parte, il desiderio è divenuto il nome di un sistema di perfette equivalenze, in cui la libertà si può realizzare a condizione di rendere le differenze politicamente irrilevanti. Che il dibattito sulla maternità surrogata nasca a ridosso della legislazione europea sulle unioni gay non è casuale: posto che quella legislazione coinvolge anche donne lesbiche, il problema della maternità surrogata si pone soprattutto quando la coppia in questione non preveda affatto la presenza di una donna se non, eventualmente, come strumento per soddisfare l’altrui desiderio di «genitorialità». Affrontare questo scenario attraverso il discorso dei diritti è certamente possibile e, nella logica dei diritti, privare alcuni individui del loro godimento corrisponderebbe a una discriminazione. Non si può negare, poi, che il proibizionismo si presti facilmente tanto all’ennesima strumentalizzazione patriarcale del corpo delle donne – perché, invocando la loro dignità, si gettano le basi per mettere in discussione alcune conquiste del movimento femminista, come la depenalizzazione dell’aborto – quanto alla continuazione della pratica proibita in condizioni di minore trasparenza e, dunque, di maggior ricatto per le donne. Mentre si contesta il proibizionismo bisognerebbe però ricordare che nella logica dei diritti – e non solo delle proibizioni – è necessario affidarsi allo Stato o, in questo caso, alle istituzioni politiche europee per garantirne la fruizione non meno che la regolazione. Tanto il discorso proibizionista di Snoq-Libere, quanto chi invoca la libertà di ricorrere alla maternità surrogata, tratta le istituzioni come garanti neutrali di un ordine di equivalenze e non come luoghi in cui il potere sociale si consolida e riproduce. Pensare il problema del potere è quindi necessario per rompere l’orizzonte mercantile dell’equivalenza e spiazzare la sua logica istituzionale. Ridurre il corpo delle donne alla sua funzione riproduttiva significa riaffermare – per un patriarcato non più tradizionale ma aggiornato all’ordine globale neoliberale – un dominio sul corpo femminile e la sua potenza che invece di limitare la libertà di scelta se ne alimenta. Questa pretesa di dominio continua a esprimersi nel diritto a una genitorialità liberata dalla norma biologica eterosessuale, quando ristabilisce tecnologicamente il nesso tra sesso femminile, funzione procreativa e destino materno. Per questo bisogna riconoscere che una battaglia sul corpo delle donne è ancora in corso e che l’obiezione femminista è ancora urgente. Di fronte all’inviolabile diritto di essere genitori è ancora politicamente necessario affermare la libertà di non essere madri.