Pubblicato su «Il Manifesto» del 3 novembre 2015 con il titolo Il filosofo olandese era anche un po’ palestinese.
È senz’altro una pura coincidenza il fatto che, pochi giorni dopo le frasi razziste e antisemite (perché anche gli arabi appartengono al ceppo linguistico semitico) di Benjamin Netanyahu a proposito della soluzione finale suggerita ad Hitler dal Gran Muftì di Gerusalemme, sia apparso sulle pagine culturali del Corriere della Sera un articolo della filosofa Donatella Di Cesare su «Spinoza Sionista» (domenica 25 ottobre).
I due interventi, peraltro, si collocano su piani assolutamente diversi: il primo è un’orribile falsificazione storica operata da un primo ministro, che non prova vergogna a strumentalizzare per motivi politici una delle grandi tragedie del Novecento; il secondo è uno scritto di un’importante studiosa italiana (anche se forse non tra le più note interpreti del pensiero spinoziano) che rilegge in maniera originale – e per molti versi inaccettabile – un momento significativo della biografia di uno dei maggiori filosofi della prima modernità, il «maledetto» Spinoza (maledetto, sia ben chiaro, tanto dagli ebrei, quanto dai cristiani), per ricondurlo alla religione natia e, in tal modo, mostrare il carattere ideologico dell’interpretazione della modernità come processo di secolarizzazione e di graduale (e problematica) presa di distanza dall’eredità delle grandi religioni monoteiste (in particolare dall’ebraismo). E tuttavia, pur tenendo ben presente la grande differenza tra questi due interventi, è forse possibile trarne un insegnamento comune.
Una pioggia di maledizioni
Che le radici culturali e politiche del moderno abbiano un rapporto complesso e ambivalente con la dimensione teologica è un dato storicamente acclarato; e tuttavia la lotta per l’emancipazione dall’invadenza del clero nella vita della società e dei singoli individui rimane un passaggio fondamentale nel processo di costruzione dell’orizzonte politico della modernità.
Che Spinoza non sia stato scomunicato – come afferma Di Cesare, giocando sul fatto che per la religione ebraica la scomunica non esisteva – bensì «semplicemente» bandito dalla comunità ebraico-portoghese di Amsterdam («Che egli sia maledetto di giorno e maledetto di notte, maledetto quando si sdraia e maledetto quando si alza, maledetto quando esce e maledetto quando rientra»), e che vi fossero dei fondati motivi di opportunità politica perché la comunità agisse in questo modo, tutto ciò è, in ultima analisi, poco rilevante per il percorso filosofico spinoziano; il giorno dello Cherem Spinoza di fatto aveva già abbandonato la sua comunità, andando a vivere fuori dal quartiere ebraico, frequentando perlopiù cristiani «senza Chiesa» (come l’ex-gesuita Van den Enden, oppure gli amici Collegianti Balling e Jelles), e successivamente dialogando con i maggiori scienziati dell’epoca (come Henry Oldenburg, segretario della Royal Society) e, forse, perfino istituendo rapporti con personaggi di spicco della politica olandese, come Johan De Witt.
Soprattutto, egli aveva abbandonato l’orizzonte ideologico della sua antica religione, leggendo Machiavelli e Hobbes, gli storici latini e Terenzio, Descartes e i trattati seicenteschi di medicina; e iniziando, passo dopo passo, a costruire un sistema filosofico che attribuiva a Dio la materialità, privandolo della volontà creatrice, e al mondo una necessità antifinalistica che mirava a liberare gli uomini dal giogo del peccato e della colpa. Per questo la stesura del Trattato teologico-politico, composto tra il 1665 e il 1670, quando Spinoza era ormai lontano da Amsterdam, non era pensata per chiudere dei conti con l’ebraismo e con la sua comunità, né tantomeno – come sembra indicare Di Cesare – per testimoniare un qualche debito filosofico con la fede degli avi, quanto piuttosto, come dice lui stesso in una lettera all’amico Oldenburg, per difendere «la libertà di filosofare e di dire ciò che sentiamo» dai pregiudizi dei teologi di ogni religione, in particolare di quella calvinista, che preoccupava Spinoza ben più dei suoi ex-correligionari.
Così i capitoli dedicati alla respublica Hebraeorum, sui quali Di Cesare costruisce la sua tesi di uno Spinoza proto-sionista, sono in realtà composti in aperta polemica con la filia vetero-testamentaria dell’ortodossia calvinista, allo scopo di trarre dalla storia politica ebraica «alcuni insegnamenti politici» (titolo del cap. XVIII) da adoperare nella lotta per la libertà di pensiero e di parola nelle Province Unite del XVII secolo. Il carattere problematicamente democratico della teocrazia mosaica appare, agli occhi di Spinoza, un modello inimitabile in una società nella quale «non ci sono più profeti», dove l’idea di un patto con Dio risulterebbe niente altro che un grande inganno teologico: è la «società tutta intera» (cap. XVI), e non la divinità, alla quale una collettività «moderna» deve attribuire il diritto di governare, in modo che tutti i cittadini rimangano liberi e uguali.
Spirito non addomesticabile
Concludendo: il tentativo di arruolare Spinoza tra i figli prediletti del popolo ebraico (tentativo uguale e contrario alle numerose interpretazioni di uno Spinoza traditore della sua fede avita, che Di Cesare omette di ricordare; pars pro toto quella di Leo Strauss) appare un’operazione fortemente a rischio di manipolazione politica, nella direzione di una conferma dell’eccezionalismo ebraico, oggi rappresentato eminentemente dallo Stato di Israele, culla della democrazia moderna, minacciata dal progetto di sterminio architettato fin dalla prima metà del secolo scorso da una presunta congiura araba (la ripresa in chiave farsesca della leggenda dei Protocolli dei Savi di Sion).
E però Spinoza non appartiene al popolo ebraico – né tantomeno alla nazione israeliana – più di quanto non appartenga all’intera umanità, e in particolar modo a coloro che, senza distinzioni di nazione, etnia, fede religiosa, lottano per emancipare gli uomini dai pregiudizi della morale e della religione e dall’asservimento al potere dispotico di pochi; in tal senso, forse, Spinoza è anche un po’ palestinese.