Intervista di ERNESTO MILANESI a DEVI SACCHETTO, pubblicata su «Il Manifesto» dell’8 agosto 2015
Tre morti nei campi in meno di un mese. Abdullah Mohammed, 47 anni, sudanese, stroncato a Nardò (Lecce) dalla raccolta di pomodori. Paola, 49 anni di Taranto, esanime mentre «ripulisce» i grappoli d’uva a Andria. Infine Zakaria, 52 anni, tunisino, per infarto dopo aver caricato cassette di uva su un camion a Polignano.
Un caso Puglia? «Qui la combinazione tra spinta alla produzione a ritmi serrati, in condizioni precarie e insalubri e temperature elevate produce il drenaggio di quelle che vengono definite risorse umane. È evidente che gli sbarchi servono anche a sostenere il turn over lavorativo sia di chi rifiuta di lavorare a queste condizioni sia di chi ci crepa» risponde Devi Sacchetto, 50 anni, professore associato di Sociologia dei processi economici e del lavoro all’Università di Padova, che ben conosce la Puglia dove ha condotto più di una «ricerca sul campo».
Braccianti che muoiono di lavoro: una peculiarità di questa regione?
In Puglia direi che la questione sta all’incrocio tra periodo stagionale, tipologia di prodotto che viene lavorato e modello sociale. Al netto delle possibili osservazioni degli specialisti in statistica, la cronaca restituisce due morti immigrati (di cui uno da 30 anni integrato) e una donna italiana. C’è chi lavorava in regola e chi no. Il punto vero è che nei campi le condizioni di lavoro sono assodate: il «modello» dell’agricoltura pugliese incarna la multiregolazione, compreso l’autosfruttamento (che non riguarda soltanto i migranti) e la pressione produttiva sugli imprenditori agricoli.
A Nardò era già esplosa la contraddizione stridente del lavoro in agricoltura…
Certo, perché già nell’estate 2011 avvenne qualcosa di significativo. Lo sciopero dei braccianti migranti, non la rivolta. Proprio in questi giorni sono ripassato alla Masseria Boncuri: chiusa, abbandonata, in degrado assoluto. Sindaco, giunta e istituzioni di Nardò sono — credo — gli stessi di allora. E la riqualificazione della Masseria come struttura di accoglienza (300 mila euro) non mi pare si sia concretizzata. Eppure di fronte a quel luogo-simbolo ci sono ancora un po’ di tende dei migranti. Ecco: quella rivolta, di fatto, fu soffocata dalle istituzioni che cercarono di gestirla dall’alto…
È solo quest’estate «bollente» a seminare la morte nelle campagne pugliesi?
Mi piacerebbe anche capire se l’uva viene trattata con prodotti chimici oppure come si coltivano davvero angurie, pomodori, eccetera. E poi va detto: come funzionano Usl, Spisal e altri organi di controllo, perfino prima ancora dell’Ispettorato del lavoro? Ecco, forse, non si può pensare di risolvere ancora tutto con un bel tavolo fra imprese agricole e sindacato. E mi spiace doverlo aggiungere, ma Nichi Vendola qui ha governato per dieci anni e quel poco che istituzionalmente andava perseguito non mi pare che sia stato fatto. Mi tornano in mente i ghetti del Foggiano: Rignano a Mare, Stornara, l’ex aeroporto di Borgo Mezzanone. E così vien da pensare che altrove la proprietà fondiaria non abbia la stessa esigenza di quella pugliese che invece «coltiva» la mano d’opera così come affiora anche adesso…
Ma esistono delle rotte del lavoro migrante stagionale, che si diramano dalla Puglia?
Studiando i flussi dei migranti, fin dall’esplosione della crisi abbiamo osservato come già da almeno 6–7 anni quelli espulsi dai cicli produttivi industriali scendono dal Nord, magari anche solo per un paio di stagioni di lavoro nei campi. E in Puglia i migranti seguono itinerari non sempre uguali, non sempre con la stessa «tappa» legata al lavoro stagionale. A Nardò, oltre alla raccolta di pomodori, ci sono i campi di angurie. A Polignano, si coltiva altro, non solo uva. Comunque, il migrante-tipo (se così si può definire) che fa il bracciante stagionale comincia già con la semina e la cura delle coltivazioni e poi per la raccolta può anche attraversare tre-quattro regioni. Magari in Puglia lavora già in primavera, poi va in Basilicata e torna per la vendemmia, prima di trasferirsi in Calabria per la raccolta degli agrumi.
Salario da fame? Una forma di schiavitù, come molti ripetono?
Sì, è vero che si tratta di 3–4 euro all’ora e che si lavora a cottimo. Ma va ricordato anche come il caporale o il padrone ci mette poco a cacciare chi sta sotto il limite giornaliero dei cassoni da riempire. Nessuno può evidentemente negare lo sfruttamento dei braccianti, tuttavia c’è anche la pressione nella produzione con prezzi altrettanto sintomatici.
Allora la Puglia è diventata anche un «modello»?
Intanto, dietro il modello sociale in Puglia, come altrove, c’è quello produttivo e riproduttivo. E come sempre si torna alle condizioni di lavoro: colpi di sole, stanchezza, disidratazione dipendono per i migranti, e per chiunque si guadagna da vivere nei campi, anche da dove riposano e da come si nutrono. In ogni caso il problema, tutto sindacale, c’è. Eccome. Per la banale ragione che, in sostanza, non c’è nessuno nei campi pugliesi.
Dunque, se mai, c’è una sorta di… emergenza sindacale?
La crisi del sindacato è nota e per quanto aiuti, non basta certo il reclutamento di qualche migrante nelle sue fila. È
piuttosto le modalità su cui si è strutturato il sindacato nel corso degli ultimi 25 anni che non tiene e che macina perfino i funzionari più volenterosi. Questo è particolarmente evidente nel settore agricolo, perché è un modello produttivo in cui l’isolamento è la regola: appunto, se si vuol contrattare e rappresentare bisogna proprio e stare fisicamente nei campi. E dove la questione dei lavoratori migranti è più evidente. Penso che la segmentazione del mercato del lavoro tra italiani e stranieri abbia prodotto forme di razzismo che tendono a mantenere lontani i lavoratori. Mentre come è drammaticamente evidente, le condizioni tra italiani e migranti iniziano a essere sempre più simili.
Una situazione irreversibile?
Finché non cresce un po’ di… potere nelle campagne è difficile immaginare che possa davvero cambiare. Altrove, con un po’ di coraggio i braccianti stagionali hanno strappato qualcosa.
Un’ultima domanda. La cultura del «made in Italy» applicata proprio al settore primario non è un po’ l’ultima spiaggia dell’ideologia a buon mercato che occulta anche la produzione di morte?
Non si tratta di un aspetto marginale, tanto più quest’anno. A me pare che da un lato si assista a un gran processo di promozione del cibo come elemento centrale della nostra vita quotidiana (il cibo sano, bio, la terra madre assorbita anche dall’Expo) e dall’altro lato un silenzio assordante sulle condizioni di lavoro ma anche di vita di chi produce proprio quel cibo, a partire dalla raccolta della frutta e della verdura. Dalla cronaca di questi giorni in Puglia può, davvero, scaturire una riflessione a più ampio raggio. Tanto più che si tratta di questioni essenziali, che riguardano tutti e meritano attenzione.