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Quanti no si possono dire in una domenica? Quale occasione rappresenta il referendum greco contro l’ultimatum delle istituzioni europee? Il referendum è stato un passaggio obbligato, dopo che, negli ultimi mesi, contro la pretesa greca di sottrarsi alla tirannia del debito, si è consolidata una vera e propria rivolta pro-slavery. Le élite europee – istituzionali, mediatiche ed economiche, conservatrici e socialiste – si sono coalizzate per dimostrare che una simile pretesa è tecnicamente insostenibile, ma soprattutto con l’intenzione di provare che essa è politicamente inammissibile. Gli assoggettati al debito devono stare al loro posto e subire le condizioni di salario e di reddito che le riscoperte «leggi naturali» del capitalismo riservano loro. Le settimane che hanno preceduto l’indizione del referendum sono state dominate dal tentativo sempre più plateale e volgare di delegittimare le pretese che il governo greco ha osato portare la tavolo delle trattative. Il carattere europeo e globale del referendum non è dato dallo scontro della Grecia con il resto d’Europa, ma dal tentativo di dare una lezione complessiva a chi pensa di potersi opporre alla tirannia della finanza. A questo punto in gioco non ci sono miliardi di euro, e non c’è nemmeno il nome della moneta con cui contabilizzare debiti e sacrifici. C’è il potere di decidere a favore di chi paga il prezzo più pesante della crisi.
Su questo terreno tutto politico, la Grecia non è però l’eccezione che si vuole descrivere. La Grecia è un caso tra gli altri. La differenza non sta nell’ammontare del suo debito, o nella sua sostenibilità, ma nel fatto che negli ultimi mesi ha colto l’occasione di dire no alle politiche dell’austerity. Il referendum è l’occasione per ribadire quel no. Più che la forma in cui ciò avviene è importante l’indisponibilità ribadita a sottostare a quelle regole. La legittimità della pretesa di non essere assoggettati all’austerità non dipende dalla maggioranza numerica di una figura immaginaria definita popolo. La vittoria del no non è temuta perché potrebbe riattivare la fede nella democrazia, ma perché imporrebbe un terreno di trattativa considerato abnorme. Non a caso, l’ineffabile Signor Schäuble, al quale non fa difetto la più brutale schiettezza, ha già chiarito che in ogni caso l’accordo sarebbe difficile se non impossibile. La vittoria del no deciderebbe però la scala sulla quale l’intera questione può essere articolata. Una questione finora confinata al piano greco ed europeo diventerebbe improvvisamente globale perché, diversamente da quanto accaduto in Argentina nel 2001, oggi non siamo solo di fronte al possibile fallimento di un singolo Stato. Oggi il rischio default riguarda molti Stati. Per non cadere in quel baratro o per non esservi gettati è obbligatorio subire quotidianamente le imposizioni di un potere che nessuno può davvero determinare. Milioni di persone vedono perciò in quello dei greci il loro possibile destino. Milioni di persone rischiano perciò di considerare una vittoria del no come una loro possibile futura vittoria. Ha colpito l’insistenza quasi ossessiva con la quale i mediatori greci hanno continuato ad affermare che l’accordo era prossimo. Continuano a farlo anche ora, annunciandolo come esito immediato del referendum. Questa strategia mira a interrompere una comunicazione che altrimenti sarebbe a senso unico, perché le autorità europee finora non hanno realmente trattato, ma solo enunciato le condizioni per la capitolazione della Grecia. Quella strategia, allo stesso tempo, legittima la presenza al tavolo delle trattative di una parte non prevista, minacciando di attivare un soggetto latente non solo in Grecia, ma anche nel resto d’Europa. Questa possibile e imprevista presenza giustifica persino la perdita certa dei miliardi prestati alla Grecia. Evitare quella presenza è ora il vero problema della Troika. Non si tratta più del debito o del modo in cui viene calcolato, la questione è ora farlo apertamente valere come irresistibile vincolo politico. Il debito non è una grandezza economica, ma la forma del comando politico esercitato su milioni di uomini e di donne senza distinzione di Stato e di confini.
D’altra parte dovrebbe essere chiaro a tutti che il cosiddetto popolo greco non esiste. Ci sono quelli che si riconoscono nei progetti della Troika, perché possono approfittarne oppure perché più semplicemente li considerano la garanzia di un ordine necessario e immutabile. Non è una grande novità che nella maggior parte dei casi il dominio si riproduce grazie ai dominati. Ci sono poi quelli che, subendo questo dominio, si sono schierati con SYRIZA, non perché non hanno nulla da perdere, ma perché sanno che, nel caso maledetto di una vittoria dei sì, la sconfinata arroganza del capitale gli farebbe pagare prezzo altissimo. Eppure neppure loro sono il popolo greco. Non sono il 99% che all’atto pratico si dimostra una promessa tanto rassicurante quanto improbabile. Sono una parte – la nostra parte – che si presenta come una moltitudine articolata di posizioni materiali, speranze, paure e passioni. Questa parte non può essere rappresentata, ma solo affermata. L’atto politico del governo Tsipras è stato quello di difendere questa parte, di sottrarla a un dominio che pretendeva di essere incontrastato. Questo abbiamo definito e continuiamo a definire come uso di classe dell’instabilità finanziaria. Questo non viene perdonato alla coppia Tsipras-Varoufakis. Non lo scarso rispetto per i conti e le compatibilità finanziarie, non l’indisciplina mediatica e nemmeno l’essere venuti meno a consolidate consuetudini diplomatiche: ciò che non può essere perdonato è l’aver fatto valere la posizione di chi a quei tavoli non è né previsto, né desiderato e quindi nemmeno tollerato. In questi giorni, spesso con le intenzioni più discutibili, si sprecano molte parole sul fatto che la Grecia sarebbe la patria della democrazia e persino l’origine della civiltà occidentale. Entrambe le cose sono contestabili e in fondo nemmeno desiderabili. Non fosse per la simpatica e taciuta ironia tramandata dal mito secondo il quale Europa fu rapita da Zeus in Oriente dove abitava, non fosse per la rivelazione dell’origine extra-europea dell’Europa, non sapremmo cosa farcene di questa genealogia della democrazia e della civiltà. La Grecia non è il nostro passato da conservare, ma l’evidenza di un presente che investe tutti. Proprio per questo ci coinvolge la sfida che dalla Grecia viene portata oggi alla democrazia come sistema globale di dominio. Se la democrazia diviene la forma politica della tirannia finanziaria, il referendum di domenica non è la riattivazione dei suoi caratteri originari e perduti. Esso è una sfida nuova all’altezza di un presente in cui il debito è una forma politica capillare, in grado di stabilire il regime del salario, di spezzare i legami sociali, in grado di impedire qualsiasi comunicazione che non sia quella mediata dal denaro. Il referendum espone pubblicamente l’intreccio tra tirannia finanziaria e rappresentazione democratica rischiando di far saltare il legame intimo che oggi le unisce. Esso non è l’espressione diretta della volontà di un fantomatico popolo greco, ma l’occasione per rifiutare praticamente la democrazia come forma politica della tirannia del debito. Uno degli effetti della crisi è stato quello di consolidare e legittimare un ordine normativo che le agenzie della governance transnazionale sembrano solo amministrare. È stata un’operazione politica raffinata e per certi versi impensabile. Le regole e le istituzioni che hanno prodotto la crisi sono oggi le uniche legittimate a decidere cosa si possa o non possa fare per vivere nella crisi o per uscire da essa. Siamo di fronte a una tirannia finanziaria transnazionale giustificata dalla finanza stessa, capace di esprimere un dominio globale mai visto in precedenza. Esso appare onnipresente, inamovibile e soprattutto indiscutibile.
Domenica in Grecia c’è l’occasione di dire un no a questo dominio. Tocca poi a noi cogliere politicamente l’occasione di questo no, sapendo che esso può intaccare l’instabile costituzione europea fondata sull’evanescente sovranità dei singoli Stati e su quella altrettanto incerta dell’Unione. Il no di domenica può aprire un varco da attraversare nelle incrollabili certezze neoliberali della governance europea. Sarebbe un duro colpo per una rappresentanza alla quale viene ormai riservato solamente il compito di legittimare democraticamente la tirannia del debito. Per tutti questi motivi quella che sta avvenendo contraddittoriamente e tra grandi difficoltà non è la riaffermazione di una sovranità in dissolvenza e nemmeno l’estrema resistenza di un popolo. Siamo di fronte a una rivolta contro la tirannia della finanza, con la consapevolezza che non c’è uno spazio libero dal suo dominio, la cui globalità riconfigura radicalmente le possibilità e le condizioni di chi voglia opporsi radicalmente a esso. Si tratta di una situazione completamente nuova, di fronte alla quale è inutile frequentare le osterie del passato o andare in giro per i secoli a cercare analogie. Quella greca è la prima rivolta contro il debito che investe e piega l’istituzione statale a questo scopo e perciò costringe a pensare i movimenti sociali come critica pratica delle istituzioni democratiche, perché obbliga l’Europa a specchiarsi nell’insufficienza di uno Stato riconoscendo la propria insufficienza. In questa configurazione complessiva dei poteri la situazione rischia sempre di sfuggire di mano al sistema di dominio democratico proprio quando esso invoca la decisione democratica. Cogliere l’occasione del no significa introdurre un elemento di letale incertezza in un sistema che apprezza il rischio solo quando lo può scaricare verso il basso. È l’occasione in cui una moltitudine con tutte le sue differenze può alzare la testa e imporre il suo no.