di PAOLA RUDAN
Pubblichiamo la versione integrale della recensione apparsa su «Il Manifesto» del 23 maggio 2015 con il titolo Il paradosso della buona vita.
Per dare alla luce il suo ultimo lavoro, Undoing the Demos. Neoliberalism’s Stealth Revolution (Disfare il Demos. La rivoluzione invisibile del neoliberalismo, New York, Zone Books, 2015, pp. 292), Wendy Brown confessa di aver lasciato incompiuto un libro su Marx. Questa variazione può offrire una chiave di lettura per comprendere il senso del volume: nel momento in cui il neoliberalismo si afferma su scala globale facendo il mondo e i suoi abitanti a propria immagine e somiglianza, non vi sono più contraddizioni immanenti al rapporto sociale capitalistico che sia possibile far valere politicamente contro il suo dominio. Non c’è più alcun rapporto sociale: l’affermazione incontrastata dell’homo oeconomicus trasforma tutti i soggetti in «capitale umano», così che il lavoro scompare dall’orizzonte del discorso e della realtà. Marx diviene inutile.
Brown ha sempre guardato con sospetto al determinismo e alle facili teleologie di certo marxismo. Per lei l’imperativo di pensare «fuori dalla storia» è sorto dalla necessità di liberarsi dalle grandi narrazioni e dalle storie progressive che hanno prodotto e legittimato un mondo saturo di potere, dall’urgenza di scrollarsi di dosso l’attaccamento appassionato alle promesse mancate del liberalismo e affrancarsi da una politica dei valori e delle convinzioni degradata a moralismo. Politicamente impegnata senza essere immediatamente orientata all’azione, la teoria politica è stata per Brown lo strumento di una critica e di una decostruzione spregiudicate, capaci di cogliere i punti ciechi in cui l’aspirazione alla libertà si fa imbrigliare dal potere che pretende di contestare. Insieme a un uso di Marx niente affatto ortodosso, ciò le ha permesso di sviluppare alcune delle critiche più pregnanti al discorso dei diritti, all’idea del soggetto sovrano sulla quale il liberalismo ha edificato il proprio impero discorsivo e, parallelamente, alla sovranità moderna, la cui crisi ha colto nella sintomatica proliferazione di muri e confini che, lungi dall’essere prove di forza, mettono in scena l’evanescente autonomia politica dello Stato globale. Rispetto a tutto questo, il suo ultimo lavoro appare una clamorosa ritirata: nell’«oscurità» che il neoliberalismo spande sul mondo, come una forza del male di tolkieniana memoria, la nostalgia teorica prende il posto della spregiudicatezza. Se la critica è «il tentativo di comprendere gli elementi costitutivi e le dinamiche della nostra condizione» allo scopo di individuare un’alternativa percorribile, questo tentativo è condizionato dall’apparente impossibilità di trovare all’interno dell’ordine neoliberale i punti d’appiglio per contestarlo. L’alternativa non è un andare oltre, ma il ritorno a un passato sorprendentemente idealizzato: la democrazia liberale diventa l’unica speranza rimasta «per un futuro giusto e sostenibile».
Il futuro della democrazia è il problema di fondo dell’intero volume. Il neoliberalismo non vi appare semplicemente come un insieme di politiche economiche, ma come un ordine normativo della ragione che nel corso degli ultimi trent’anni ha saturato con la propria razionalità di governo ogni ambito della vita umana. Sebbene questa riflessione si muova esplicitamente nel solco della Nascita della biopolitica, Brown non lesina critiche a Foucault. Egli ha indicato con chiarezza la necessità di liberarsi dall’ossessione dello Stato per pensare il potere come qualcosa che circola tra gli individui, ma non è stato in grado di cogliere l’esistenza di una dimensione politica irriducibile alla sovranità statale, di un popolo distinto dalla popolazione alla quale si applica la razionalità di governo. Non per correggere, ma per estendere la riflessione di Foucault, Brown si concentra perciò sugli effetti del neoliberalismo sulla democrazia, intesa non come una forma politica, ma alla luce del valore intrinseco dell’«autogoverno del popolo» in opposizione alle logiche spoliticizzanti di governance e management, che riducono il governo a tecniche di problem solving, «buone pratiche» e «standard d’eccellenza». La parte più rilevante dell’analisi di Brown sta nell’individuare i modi attraverso i quali il neoliberalismo destruttura o «economizza» la democrazia, che sono esposti analiticamente nella prima parte del volume per essere poi esemplificati nella seconda attraverso il riferimento ad alcuni casi di studio: le sentenze statunitensi relative al finanziamento ai partiti da parte delle grandi corporazioni; le politiche economiche imposte all’Iraq dopo la guerra; le trasformazioni dell’università pubblica americana e gli effetti delle politiche orientate ad attrarre investimenti sull’insegnamento delle scienze umane. La critica di Brown al neoliberalismo vuole evidenziare il modo in cui la sua razionalità di governo riconfigura le istituzioni e gli individui, che si trovano stretti in un nesso indissolubile secondo la concezione foucaultiana di un potere che produce i suoi soggetti. Così, l’«economizzazione» dello Stato – per il quale l’economia diventa modalità d’azione, fine e principio di legittimazione – comporta un radicale rovesciamento del moderno «contratto sociale»: particolarmente nel contesto della crisi e delle politiche di austerity, agli individui è imposto un sacrificio in nome del tutto che però non si accompagna ad alcuna speranza o possibilità di risarcimento. Nessuna sicurezza è garantita – se non nei termini securitari che si sono imposti dopo l’11 settembre – mentre ciascuno è responsabilizzato per il proprio successo o insuccesso, finanche per la propria sopravvivenza. Chiunque può essere «buttato giù dalla barca», scrive Brown con parole che evocano fin troppo duramente le quotidiane stragi del Mediterraneo. Ciò che più importa, tuttavia, è l’effetto antropologico di queste trasformazioni: «siamo ovunque e soltanto homo oeconomicus». L’impegno per incrementare il nostro capitale umano, per accrescere la nostra competitività, si sostituisce a quello nei confronti della vita pubblica. Così, il neoliberalismo disfa il demos e le condizioni di possibilità della democrazia.
Qui si trova il nucleo della critica di Brown a Foucault: la sua indecisione tra una lettura del neoliberalismo in continuità con il liberalismo e una orientata a coglierne la specificità gli avrebbe impedito di riconoscere che l’homo oeconomicus è per lungo tempo coesistito con l’homo politicus, del quale solo il neoliberalismo sta decretando la definitiva scomparsa imponendo all’Occidente una svolta «rivoluzionaria». L’homo oeconomicus neoliberale non si afferma nel XVII secolo, come ritiene Foucault. Per dimostrarlo, però, Brown non avanza fino agli economisti neoclassici, i primi a ‘inventare’ questo modello di comportamento nella seconda metà dell’Ottocento, ma al contrario torna indietro fino ad Aristotele. Fuori dalla storia della schiavitù, sarebbe stato proprio Aristotele – seguito da Arendt e da un Marx tristemente ridotto a un liberale radicale, fuori dalla storia della lotta di classe – a inaugurare una concezione della politica come «buona vita» che eccede la semplice sopravvivenza, «respingendo» l’ascesa dell’homo oeconomicus. A partire da Aristotele si afferma così una superiorità del politico sull’economico che, secondo Brown, sopravvive in forme mutate anche nel XVII secolo per diventare il segno distintivo del liberalismo tout court. Questo segno lo si può ritrovare in Adam Smith non meno che in Jeremy Bentham e in John Stuart Mill, tutti partecipi di una concezione dell’individuo come unità sovrana irriducibile a una funzione o a un riflesso del capitale.
Alcuni aspetti di questa critica vanno certamente colti, in particolare l’osservazione che l’homo oeconomicus di Foucault si risolve in un modello «comportamentista» di cui non si trova traccia nel XVII secolo e neppure tra i grandi nomi del liberalismo. Ciò tuttavia non è forse dovuto, come ritiene Brown, alla tenace resistenza dell’homo politicus: Smith, Bentham e Mill sono infatti tra i primi e principali teorici di una concezione non tanto politica in senso aristotelico quanto sociale dell’individuo, il cui interesse non produce una completa individualizzazione, ma una connessione con tutti gli altri individui attraverso lo scambio. Siamo di fronte alla scoperta di una ‘cosa’ chiamata società – irriducibile alla società civile liberale – che mette in questione la sovranità dell’individuo non meno che la possibilità di definire il politico come una sfera separata e autonoma. Tuttavia, la revisione della genealogia foucaultiana operata da Brown non mira a verificare la definizione storica e la valenza analitica della categoria di homo oeconomicus, ma a restituire al liberalismo una perduta innocenza emblematicamente rappresentata dallo stato di natura di John Locke, nel quale ciascun individuo è incaricato del compito eminentemente politico di discernere e rendere esecutive le norme di giustizia per il comune.
La riabilitazione del padre del famigerato individuo maschio, bianco e proprietario avviene in nome della restaurazione di un homo politicus che sarebbe più promettente dell’homo oeconomicus persino per la foemina domestica, la cui posizione di subordinazione nel regime della divisione sessuale del lavoro è intensificata dal neoliberalismo. Brown coglie molto bene il modo in cui – quando il capitale umano è interamente responsabilizzato per il proprio successo o insuccesso – le donne sono penalizzate perché maggiormente responsabili nei confronti di quelli che non possono esserlo, i loro figli e gli anziani, soprattutto nel contesto dello smantellamento dello Stato sociale. Le donne che non riescono a stare al passo della competizione sarebbero quindi soggetti «falliti», oppure – il che è lo stesso – potrebbero affermarsi come soggetto soltanto neutralizzando la propria determinazione sessuale, diventando a loro volta homo oeconomicus o ripiegando verso un più benevolo homo politicus, come Brown suggerisce. Si può quindi dire che, per lei, siamo oltre la semplice esclusione o inclusione differenziata che il discorso liberale ha storicamente imposto alle donne, perché ora il neoliberalismo le include in una distinzione tra sommersi e salvati tutta interna alla sua grande narrazione. Il neoliberalismo si rivela come il più freddo dei mostri, capace di fagocitare anche ciò che sembra contraddirlo.
Eppure, Brown coglie la resistenza di alcune contraddizioni al regime di verità neoliberale quando imputa a Foucault l’incapacità di comprendere che «capitale e capitalismo non sono riducibili a un ordine della ragione». Se questo è vero – se è necessario capire come si intersecano «razionalità politica e costrizioni economiche», pur sapendo che il capitalismo non opera indipendentemente dal discorso –, non è chiaro come si possa contestare l’affermazione generalizzata dell’homo oeconomicus senza far valere le contraddizioni che squarciano la sua pretesa normativa. Si può ammettere, perciò, che la semantica del capitale umano cancelli il lavoro dall’ordine del discorso, ma ciò non significa che sia scomparso chi lavora sotto il dominio del capitale, per quanto lo faccia in condizioni di radicale isolamento e che non aprono immediatamente alla possibilità di una contestazione di classe del neoliberalismo. Eppure, solo in una nota Brown ricorda che il capitale umano è «subordinato a chi lo impiega», benché chi lo impiega sembri coincidere con chi ne è titolare, secondo un principio di auto-valorizzazione. Se quindi la critica femminista dell’ordine liberale aveva permesso a Brown di portare alla luce ciò che esso pretendeva di nascondere – il lavoro riproduttivo delle donne che sosteneva la figura dell’individuo sovrano – ora la sua critica foucaultiana dell’ordine neoliberale rischia sempre di supportare la sua pretesa di verità, senza indicare i punti in cui quel discorso vacilla ma ripiegando sulla speranza di poterlo contestare, o almeno di poter competere con esso, grazie a una diversa razionalità politica. Siamo fuori dalla storia perché la storia del neoliberalismo di cui la democrazia liberale è parte integrante è cancellata, pur lasciando dietro di sé un malinconico ricordo che permette di farne una speranza per il futuro oltre la disperazione del presente.
Questa disperazione è per Brown l’effetto del «postpostmodernismo» che caratterizza la ragione neoliberale, un antiumanesimo che sancisce la fine della modernità perché abbatte ogni fiducia nella possibilità di un’alternativa e nelle capacità umane di realizzarla. La duplicazione del prefisso post – che nel suo Stati Murati, sovranità in declino (Laterza, 2010) Brown aveva lucidamente trattato come l’indicatore di «un presente che, pur introducendo una discontinuità, continua a essere strutturato dal passato» – opera qui come una cancellazione del passato. Ora, proprio perché la continuità è negata e il neoliberalismo è pensato come radicale, persino rivoluzionaria novità, diventa più difficile afferrare in che cosa consista la sua discontinuità. Il neoliberalismo, sostiene Brown, ha trasformato lo Stato secondo il modello dell’impresa. Lo Stato articola la propria azione secondo criteri manageriali e la orienta verso la massimizzazione del proprio valore in termini di capitale per attrarre investimenti. Il diritto è a sua volta «economizzato e tatticizzato», strumentalizzato per supportare la competizione piuttosto che i diritti. Alla luce della sua attenzione verso la storia del pensiero politico, stupisce che Brown non consideri che, nel pieno della modernità, Max Weber ha definito lo Stato come «un’impresa istituzionale di carattere politico», trattandolo come una connessione organizzata di poteri differenti e riconducendolo a uno specifico assetto societario. Senza rivolgersi al Marx della Questione ebraica – che pure Brown ha ampiamente usato nella sua critica al discorso dei diritti – la definizione weberiana sarebbe sufficiente a demistificare l’immagine della «comunità illusoria» orientata al supporto dei diritti che il neoliberalismo avrebbe definitivamente abbattuto e imporrebbe di considerare i diritti come un problema di potere. Sembra però che il «postpostmodernismo» abbia l’effetto di riattivare l’attaccamento appassionato verso lo Stato come un possibile spazio esterno alla razionalità economica, troppo simile al «padre benevolo e imparziale» che Brown aveva duramente contestato negli anni ’90 (States of Injury, Princeton University Press, 1995). Non è forse un caso che l’estensione dell’istruzione universitaria nelle scienze umane – considerata come uno dei terreni di coltura dell’homo politicus, ora sotto l’attacco del neoliberalismo – sia vista da Brown al di fuori dalla storia delle esclusioni di classe, razza e genere che l’hanno caratterizzata e della sua funzione disciplinare, come «la più estensiva affermazione della verità della storia Occidentale» e delle sue promesse di libertà, uguaglianza e inclusione.
Non si tratta, evidentemente, di contestare l’idea del presente come novità radicale attraverso l’affermazione di una sua assoluta continuità con il passato, ma di raccogliere fino in fondo il problema posto da Brown in merito alle condizioni di pensabilità e praticabilità di un’alternativa allo stato di cose presenti. Brown è in grado di mettere tra parentesi il rapporto storico tra democrazia liberale e capitalismo nella convinzione che gli ideali della prima – uguaglianza, libertà, sovranità popolare – siano stati storicamente in grado di produrre le ispirazioni e aspirazioni radicali che hanno ecceduto la democrazia liberale e che dovremmo riconquistare. Se riconsegniamo il presente alla sua storia, dobbiamo però domandarci che cosa ne è del rapporto storico tra democrazia e capitalismo, quale discontinuità il neoliberalismo impone a quel rapporto e se sia possibile sperare che una nuova razionalità democratica possa affermarsi indipendentemente dalla contestazione radicale dei rapporti sociali. Questo non è un problema di Brown, che si limita a constatare che lo scarto «eccessivo» tra ricchezza e povertà rende impensabile una dimensione comune, mentre accetta – qui sì in continuità con il passato – che la democrazia non abbia bisogno di una materiale uguaglianza delle condizioni. Per lei, le politiche economiche neoliberali potrebbero essere fermate e rovesciate senza che ciò interrompa i loro effetti deleteri sulla democrazia. Non stupisce, allora, che consideri il movimento Occupy in modo molto diverso da Chandra Talpade Mohanty, che nel 99% che occupava Wall Street aveva riconosciuto l’azione di una parte – il «Mondo dei due terzi» – che aspirava a contestare il dominio globale del capitalismo. Per Brown si tratta invece di una sorta di affermazione di ritorno della sovranità di tutto il popolo contro il governo di una parte (i finanzieri, veri responsabili del debito), senza che sia peraltro chiaro come soggetti interamente investiti dalla ragione normativa neoliberale abbiano potuto conquistare il desiderio di contestarla. Marx può ancora offrire strumenti alla critica, ma soltanto accessori: il neoliberalismo non è una totalità che si muove secondo un’interna necessità dialettica, ma agisce in modo asistematico, incostante, differenziato, impuro. Per comprenderlo «la genealogia è meglio della dialettica», ma la genealogia non sembra dirci nulla della sua storia e neppure delle tensioni e delle resistenze sulle quali ha dovuto affermarsi. Paradossalmente, quindi, l’ordine neoliberale si rivela ben più totalizzante di quello del capitale inteso come sistema globale, al punto che l’unica alternativa percorribile sembra essere offerta da qualcosa che sta fuori dalla sua storia, non un oltre, ma un prima del neoliberalismo. Al neoliberalismo spetta la rivoluzione; chi vuole contestarlo ha solo la scelta tra «riforma e resistenza», oppure la speranza in un «altro mondo possibile», non un ‘andare oltre’, ma un ‘tornare indietro’ alla democrazia liberale, che dovrebbe diventare la «grande narrazione» alternativa a quella neoliberale. Il compito di far rivivere la democrazia liberale con il suo homo politicus è affidato da Brown a una non meglio definita «Sinistra» e a una sparuta classe di professori universitari di scienze umane. Come questa narrazione alternativa possa affermarsi, invece, è qualcosa a cui la teoria politica non può dare risposta. Non perché mantenga una virtuosa e spregiudicata distanza dalla prassi, ma perché gli strumenti con cui pretende di criticare il neoliberalismo sono una parte essenziale del suo ordine normativo. E questo disperato paradosso è la storia della sua critica.