Pubblichiamo una lunga intervista con Mario Espinoza Pino e Julio Martínez-Cava Aguilar, entrambi militanti di Podemos, ma anche ricercatori sociali. Il nostro intento era quello di guardare alla Grecia a partire dalla Spagna, cercando di mettere a tema similitudini e differenze tra i due modi di affrontare il nodo del rapporto tra movimenti e istituzioni. Questo rapporto d’altra parte non è riducibile alla scelta di partecipare o non partecipare alle elezioni. Solo lo sconcertante dibattito italiano può ridurre il problema all’accettazione o – specularmente ‒ al rifiuto di stabilire una qualche alleanza con un ceto politico residuale o con qualche piccolo partito più o meno esistente. La tensione tra movimenti e istituzioni è in realtà un campo politico in cui si tratterebbe di mettere alla prova realisticamente la propria capacità di ottenere risultati, dimostrando l’efficacia del moto dei movimenti invece di fissarli in traiettorie definite e determinate una volta per tutte, lungo le quali ci si muove con la sicurezza di chi affronta percorsi conosciuti e cerca di evitare ogni novità.
L’intervista è stata fatta prima dell’ultimo round delle trattative tra il governo greco e le istituzioni europee, quindi non tiene ancora conto del tentativo di governare l’aporia che esse hanno evidenziato. C’è però spazio per considerazioni di grande interesse non solo sulla Grecia, ma anche sulla struttura organizzativa di Podemos, sul suo rapporto con i movimenti di massa degli ultimi anni, sul suo scontro con i partiti che hanno prodotto e finora governato la crisi in Spagna. Più di quanto accada in Grecia, emerge qui la tendenza a considerare i paesi del sud dell’Europa come i bersagli delle politiche di austerità e quindi anche l’idea che essi dovrebbero in qualche modo fare fronte comune. Ci sono inoltre alcune indicazioni che non coinvolgono solo l’Europa sulle trasformazioni dello Stato nell’epoca del neoliberismo e sul suo sorprendente ritorno quale particolare terreno di lotta dopo le illusioni dell’universalismo.
***
∫connessioni precarie: Dopo il 25 gennaio molte cose sono cambiate in Grecia e in Europa. In questione non c’è solamente la vittoria di SYRIZA. Con tutte le differenze che le separano, le due esperienze di SYRIZA in Grecia e di Podemos in Spagna sembrano portare a compimento due diversi traiettorie: la prima riguarda l’opposizione alle politiche della Troika in Europa e alla specifica configurazione politica assunta dall’Unione europea nell’ultimo decennio; la seconda riguarda la riproposizione di un rapporto tra movimenti sociali e istituzioni. Partiamo da questo secondo punto.
Mario: Come dici bene, dal 25 di gennaio sono cambiate molte cose nello scenario politico europeo. Grazie a SYRIZA abbiamo potuto vedere come il discorso ferreo dell’austerità – che sembrava irremovibile – sia stato sfidato da un governo democratico europeo, che rende manifesto che esistono margini di negoziazione con l’Unione europea che vanno al di là della Troika. Questo però non significa che le negoziazioni attuali di Varoufakis e Tsipras siano semplici, al contrario; piuttosto, la loro posizione apre un orizzonte di speranza per i popoli del sud d’Europa. Rispetto a Podemos, ci sarebbero molte cose da segnalare. Certamente, l’emergenza del nuovo partito presuppone una rivalutazione del campo politico-istituzionale per i movimenti sociali, che dal 2011 al 2014 hanno agito – salvo poche eccezioni – al di fuori delle istituzioni (se non della politica). La grande ondata di mobilitazioni aperta dal 15M ha costruito potenti reti di antagonismo; il radicamento di queste reti e i problemi derivati dalla crisi economica e dalle politiche di austerità (tagli alla sanità pubblica, all’istruzione, ai servizi sociali, sfratti) ha fatto sì che il clima di lotta sociale si mantenesse attivo praticamente per tre anni. Tuttavia, nonostante gli enormi scandali del 2013 suscitati dalla corruzione politica, lo scacchiere politico spagnolo è rimasto statico: la crisi del regime era lì, davanti ai nostri occhi, ma non arrivava a esplodere. I movimenti e le manifestazioni cominciavano ad accusare la stanchezza. La nascita di Podemos nel 2014 ha rotto il blocco istituzionale in cui si trovava la politica spagnola. I cinque eurodeputati eletti alle elezioni europee e la crescita spaziale del partito hanno riattivato le speranze dei cittadini nel momento in cui hanno provocato una «crisi di regime» che ha coinvolto i partiti spagnoli tradizionali (PP, PSOE). Il problema del Partito Popolare non sono solo le mobilitazioni, ma anche il rischio di perdere la governamentalità del paese, soprattutto in un momento in cui la sua legittimità è in gioco e l’egemonia del bipartitismo in declino. Podemos ha saputo mettere a valore il voto indignato – in dissenso nei confronti dell’austerità, della corruzione politica e della gestione della crisi – e si è nutrito organizzativamente di molti attivisti, intellettuali e cittadini che hanno partecipato al ciclo di mobilitazioni iniziato nel 2011. Ma non solo: molta gente si è politicizzata recentemente grazie alla sua strategia mediatica e alla sua popolarità. La sua scommessa ha ridato valore all’orizzonte istituzionale come cornice irrinunciabile per trasformare la società. D’altra parte, le reazioni dei movimenti sociali di fronte all’«assalto istituzionale» sono state diverse, dall’accettazione critica alla partecipazione al progetto fino al rifiuto radicale nei confronti della politica rappresentativa. Il nuovo partito raccoglie gran parte delle rivendicazioni che i movimenti e la cittadinanza hanno avanzato negli ultimi anni (il suo programma è stato elaborato a partire da qui), ma le trasferisce su un piano organizzativo che ha poco a che fare con le dinamiche assembleari del 15M. Certamente Podemos non è propriamente un partito tradizionale: di fatto, molte delle sue modalità di lavoro in reti sociali, comunicazione e organizzazione sono vicine a quelle dei movimenti. Ciò è vero anche per le sue basi, i cosiddetti «circoli», che permettono una dinamica assembleare aperta anche se abbastanza limitata in termini costituenti. La scommessa politica di Podemos, quindi, non smette di essere quella di affermarsi nel ciclo elettorale (le elezioni municipali, delle comunità autonome e in quelle statali) e per questo si è dotato di una struttura molto gerarchizzata e di un dispositivo di comunicazione politica disciplinato e omogeneo (eccessivo, secondo me). In ogni caso, si sta producendo un nuovo ciclo politico centrato sull’arena elettorale e istituzionale, e molti attori legati ai movimenti vi stanno prendendo parte. Si tratta di democratizzare le istituzioni e liberarle dalla corruzione, trasformandole in organismi veramente partecipati da parte della cittadinanza.
Per quanto riguarda le traiettorie di SYRIZA e Podemos: nel partito greco l’essenziale è stato di creare un blocco popolare di sinistra contro il debito, che è stato il motore economico-politico delle misure di austerità. La capacità di SYRIZA di indicare il debito come il cuore dei ricatti della Troika, come causa della distruzione dei diritti, delle istituzioni e dei servizi, ha permesso al popolo greco di comprendere in maniera molto realistica quanto di illegittimo e di odioso c’è in essa. Per questo Nuova democrazia e PASOK sono apparsi come partiti sottomessi al capitale finanziario europeo, come organizzazioni che non governano per la Grecia: stanchi di tutto questo, i greci si sono ripresi il potere di comando. Nel caso spagnolo, il centro politico si è organizzato a partire da un fronte populista, non necessariamente di sinistra, contro la «casta», una figura corrotta delle élites politiche e finanziarie («casta» è un termine utilizzato anche da Beppe Grillo che, in Spagna, ha connotazioni di sinistra grazie a Podemos). Questo ha permesso che la strategia mediatica del nuovo partito – la sua forte presenza televisiva – abbia potuto indicare «nome e cognome» dei protagonisti politici della crisi e della politica dei tagli. L’uso che i politici hanno fatto delle istituzioni come «patrimonio privato» ha incoraggiato la conquista e la democratizzazione di quelle stesse istituzioni da parte della gente. Anche il debito e la Troika sono stati criticati da Podemos, sebbene non con lo stesso slancio della «casta». E questo, a mio giudizio, resta problematico.
∫cP: La Grecia negli scorsi anni di crisi e austerità è stata teatro di imponenti scioperi, di manifestazioni di massa, di violenti scontri di piazza, di processi di difesa sociale che si è organizzata nei quartieri, dispensando medicine, cure mediche, pasti a chi non poteva più permetterseli. C’è chi dice che SYRIZA sia una pratica e un modello che si è dimostrato in grado di raccogliere questa protesta e questa opposizione, per renderlo disponibile sul piano politico, cioè attraverso una rappresentanza parlamentare che può aspirare al successo. C’è invece chi dice che in definitiva SYRIZA ha contribuito ad anestetizzare questi processi di contropotere, che è quindi del tutto insufficiente a fronteggiare il potere della Troika e anzi sarebbe una risposta inadeguata alla situazione. Come descriveresti il rapporto tra i movimenti di questi anni e SYRIZA? Che cosa resta dell’autorganizzazione sociale e quanto essa è, eventualmente, una base della politica di SYRIZA?
Mario: È una domanda piuttosto complicata, perché non ho potuto analizzare la situazione «sul campo». Nonostante tutto vorrei provare ad arrischiare alcune opinioni che potrebbero avere un certo interesse, dal momento che abbiamo visto scenari simili in altri momenti e latitudini, compresa l’attuale situazione spagnola. Quando una società come quella greca si trova in una situazione di emergenza sociale, con una popolazione colpita dalla miseria e dall’esclusione, l’«assalto istituzionale» e la via parlamentare sembrano essere urgenti. È necessario porre un freno all’austerità e alla violenza del neoliberalismo a partire dallo Stato. Negli ultimi anni, tuttavia, il freno a questa violenza non è stato posto dalla politica istituzionale, ma dall’auto-organizzazione della gente in movimenti autonomi rispetto allo Stato e alla politica rappresentativa. I loro successi non sono stati minori: partendo dalla resistenza alla crisi, hanno dato forma a nuove connessioni e relazioni sociali di solidarietà, prefigurando con la loro pratica nuove istituzioni. Tuttavia, il ciclo di mobilitazioni – non potendo porre fine all’agenda dell’austerità – ha infine accusato i colpi della crisi e si è progressivamente logorato. Qualcosa di simile è accaduto in Spagna ma – e questo va sottolineato – il grado di proiezione dei movimenti in Grecia è riuscito a conferire alla gente dei diritti «oltre lo Stato»: le cliniche autogestite hanno permesso di mantenere il diritto alla salute di molte persone escluse dalle riforme anti-sociali del ND e dei suoi sodali, allo stesso modo in cui la solidarietà è riuscita a costruire un nuovo movimento di cooperative nei settori più diversi (dall’agricoltura al commercio al consumo). Un fenomeno, quest’ultimo, che per quello che ne so era del tutto nuovo in Grecia. Il problema tra i movimenti sociali autonomi e SYRIZA è e sarà, credo, di articolazione. Poiché il trionfo di SYRIZA coincide con una fase discendente del movimento, è molto probabile che gran parte degli attivisti comincino ad avere un rapporto sempre più stretto con la coalizione di sinistra. Se questa relazione si articola in maniera «virtuosa» e SYRIZA retroalimenta le mobilitazioni al di là di se stessa, assisteremo a un ciclo rinnovato che potrà combinare il meglio delle reti costruite dai movimenti e un governo popolare che le appoggia, sia direttamente sia indirettamente. Altrimenti – o anche accanto a questo moto «virtuoso» ‒ potranno darsi anche dinamiche di cooptazione: l’ascesa di SYRIZA al governo aprirà un campo di collaborazione (e retribuzione economica) per molti attivisti che finora non hanno visto le proprie aspettative di trasformazione sociale (o di affermazione personale) soddisfatte. Se questo assumerà una dimensione di massa, non ci sono dubbi che «anestetizzerà» la lotta sociale e trasformerà i movimenti in qualcosa di molto più «docile» (e di partito). È già successo in Grecia all’epoca della Μεταπολίτευση (1974) e in Spagna negli anni della transizione (1978). In ogni caso, credo che, come sottolineate nella domanda, tanto la dimensione istituzionale quanto quella «autonoma» saranno necessarie per contestare efficacemente la Troika. Abbiamo imparato (in piazza Syntagma, nelle cosiddette primavere arabe, il 15M, in piazza Taksim ecc…) che la lotta non può «fidarsi» della lealtà a un partito, ma che la cittadinanza deve partecipare e mobilitarsi per fare pressioni nella direzione di una trasformazione politico-sociale. È una delle lezioni che ci hanno dato queste ultime ondate di lotta. Il peggio che potrebbe accadere è una disattivazione sociale degli antagonismi e il loro assorbimento totale all’interno dell’orizzonte istituzionale, perché ci lascerebbe senza contropoteri né elementi critici rispetto al nuovo governo della Grecia. Speriamo che questo non accada, ma parlo a partire dall’incertezza. Per concludere, credo che il problema tra i movimenti e i partiti nel sud d’Europa sia quello di una simbiosi difficile: i movimenti non possono ambire a realizzare trasformazioni lasciando da parte le istituzioni, ma il loro compito di trasformazione va al di là delle istituzioni e dello Stato; il problema dei partiti e del loro impianto statale è, tuttavia, quello del loro pragmatismo: SYRIZA propone un piano per «riscattare» la cittadinanza e torna a rendere popolare l’immagine dello «Stato del benessere» e un certo keynesismo. Pretende che l’Europa compia una svolta verso la socialdemocrazia (il che è tanto!) ma non sembra che voglia (o possa?) muoversi al di là di questo, forse non solo per pragmatismo ma anche per prudenza politica. Il problema principale, allora, è che assistiamo a una specie di simbiosi che potrebbe diventare antagonismo, una simbiosi antagonista.
∫cP: SYRIZA propone non solo la rinegoziazione del debito, ma anche alcune misure immediate che dovrebbero rispondere ai bisogni fondamentali di ampie fasce della popolazione greca impoverita dalla crisi. Puoi descrivere queste misure e dirci se, secondo te, sono politicamente adeguate a stabilire nel tempo una base di legittimità per SYRIZA? Insomma che giudizio dai del ruolo e dell’efficacia del riformismo di SYRIZA?
Mario: Credo che le 11 misure annunciate dal governo di SYRIZA siano, senza dubbio, misure che qualunque popolo del Sud Europa vorrebbe per se stesso. E non sono misure «rivoluzionarie», ma abbastanza ragionevoli da invertire gli effetti della miseria e dell’austerità. Forse commentare le 11 misure sarebbe eccessivo, dunque mi concentrerò su alcune di esse che considero centrali. L’aumento del salario da 586 € lordi a 751 €, che aumenterà di colpo il tenore di vita dei greci, mi sembra una forma molto diretta e chiara di segnalare che l’agenda politica di SYRIZA fa sul serio. Se a questo aggiungiamo il ritorno alla contrattazione sindacale collettiva, la riassunzione di più di 3.500 funzionari licenziati illegalmente e la riammissione delle lavoratrici delle pulizie del Ministero delle finanze, un’icona della lotta del popolo greco contro i tagli, vediamo l’intelligenza politica della coalizione delle sinistre in azione. SYRIZA rafforza il tessuto sindacale, torna ad assumere personale nella pubblica amministrazione e dà ascolto a una delle proteste – quella delle lavoratrici delle pulizie – che hanno avuto maggiore forza simbolica nel paese. Tutto questo può solamente tradursi in un aumento di legittimità. Di fatto, così è stato: la popolarità di SYRIZA è passata dal 36,3% dei voti che le hanno conferito la maggioranza al 45,4%. A questa crescita hanno contribuito l’arresto dei processi di privatizzazione (PPC ‒ Public Power Corporation, Porto del Pireo), la revisione dei contratti di privatizzazione che vanno contro l’«interesse generale» e l’impegno di SYRIZA a fare della sanità un diritto comune (restituendo il diritto alla sanità a coloro che ne erano stati privati, abolendo le tasse per ogni visita medica e l’«euro di ricetta» — un euro per ogni ricetta medica).
Julio: Dopo anni di devastazione e impoverimento di massa del paese, è diventato chiaro che le politiche di austerità non solo hanno peggiorato la condizione di vita dei greci fino a scatenare il dramma umanitario, ma hanno anche affondato e stancato l’economia del Paese (caduta del PIL del 25% dopo il salvataggio, reddito pro capite ai livelli del 1999); finendo giustamente per causare quello che avrebbero dovuto impedire: il mancato pagamento del debito. La forza del governo di SYRIZA verrà dalla sua capacità di negoziare la ristrutturazione del debito, opponendosi all’estensione del salvataggio richiesta dall’oligarchia tedesca; dalla sua capacità di trasmettere fiducia al popolo greco affinché non prelevi denaro dai depositi bancari (fiducia già esaurita dall’attacco brutale delle oligarchie finanziarie) e dalla sua capacità di dare risposta immediata alle necessità urgenti della popolazione. Il governo di SYRIZA è già al potere e si è impegnato su una serie di misure urgenti che potrebbero garantirle un forte sostegno sociale necessario in un momento così instabile politicamente (distinguendosi così da ND-PASOK), misure come la riammissione degli impiegati pubblici licenziati, la fornitura di luce/acqua alle 300.000 persone che erano rimaste fuori dalla copertura energetica, lo stop alla confisca dalla prima casa (in presenza di un debito fino a 300.000 euro), il ritorno all’universalismo nella sanità, la riduzione delle spese superflue dello Stato (i privilegi delle cariche politiche) e l’aumento del salario minimo a 751 euro. L’etichetta «riformista» deve sempre essere intesa in relazione alla congiuntura politica, senza indicare per forza qualcosa di peggiorativo. Esistono riforme non-riformiste. Però le classiche definizioni attribuite a queste, come «rivoluzionaria/trasformatrice» o «riformista/conservatrice», sembrano volatilizzarsi in una situazione di emergenza sociale come quella greca. In poche parole: cos’altro potrà fare il governo greco? Credo che, per tutti i motivi detti, la legittimità di SYRIZA in questi giorni stia crescendo in maniera imponente. Il pericolo dipenderà da quanto si avvereranno le minacce della BCE e dai margini di contrattazione o per trovare accordi soddisfacenti.
∫cP: La battaglia di SYRIZA dovrà inevitabilmente svolgersi in buona parte in Europa. Tsipras aveva anticipato questo problema accettando la candidatura a presidente della Commissione europea. Siamo così di fronte a un paradosso. Migliaia di greci si aspettano un miglioramento della loro situazione grazie a riaffermazione della sovranità del loro Stato; allo stesso tempo, tuttavia, quel miglioramento sarà possibile solo rendendo «europea» la situazione greca. Cosa pensi di questo paradosso?
Mario: Oggi il concetto di «sovranità statale» può essere pensato solo in forma sistemica e relazionale. Ovvero, la Grecia – come la Spagna, il Portogallo e l’Italia – è parte del sistema interstatale ed economico dell’Unione Europea. Credere che la sovranità nazionale possa garantire una politica «eccezionale» in un solo Paese mi sembra assurdo. Una cosa è focalizzare la politica nazionale sul recupero dei diritti sociali, per la qual cosa sembra inevitabile far valere la vecchia «sovranità» o il potere dello Stato. Che un popolo conquisti le sue istituzioni è il primo passo che precede un altro passo non meno essenziale: il passo che va oltre l’austerità europea. È qui il paradosso. Sul piano nazionale si tratta di rompere con le logiche neoliberali, sul piano europeo di rinegoziare i debito e ottenere un margine di azione favorevole per la Grecia e i cosiddetti PIIGS. Senza questi negoziati, la sovranità non ci salverà dalla bancarotta. La questione è che ormai non si può pensare la sovranità senza lo spazio europeo che le dà senso. E, come segnalate, solo se la situazione greca diventa europea potremo aprire un ciclo politico diverso che punti più in là dell’austerità. Per fare ciò non solo ci sarà bisogno di un blocco del sud in termini politico-istituzionali, ma anche di movimenti sociali che spingano i negoziati oltre i limiti che incontreranno gli Stati e le democrazie.
Julio: Il paradosso si produce solo all’interno di una concezione determinata di quello che deve essere l’Unione Europea, che è stata la concezione prevalente in questi anni. L’Europa come macchina di spossessamento e saccheggio massiccio dei Paesi del Sud. L’alternativa non è tra «Europa o Grecia», bensì tra «austerità o democrazia»; le rivendicazioni di sovranità nazionale sono un appello a recuperare il controllo delle istituzioni da parte di coloro che le eleggono, così come a esigere l’uscita dalle sedi del potere delle istituzioni non elette. Esiste anche un modello di Europa in cui far sì che la sovranità nazionale non sia incompatibile con il progetto di Unione Europea, tuttavia ciò esige la radicale democratizzazione delle istituzioni europee.
∫cP: Negli ultimi decenni in America latina sono saliti al potere partiti che hanno portato avanti politiche riformiste che non hanno solo risposto a bisogni evidenti e presenti, ma hanno prodotto una sorta di «rinascita» dello Stato, cioè una rivalutazione delle sue possibilità di agente politico, e anche una riattivazione su basi diverse della lotta di classe. Pensiamo al Brasile del lulismo o all’Argentina. Queste esperienze mostrano che la lotta di classe non segue comunque un andamento progressivo, ovvero non raggiunge stadi sempre più avanzati di conflitto, rispetto ai quali ogni mediazione sarebbe un arretramento. Pensi che SYRIZA si inserisca in qualche modo in questa tendenza e in che modo?
Mario: Credo che, per ora, sia difficile paragonare SYRIZA ai governi dell’Ecuador, del Venezuela, della Bolivia, del Brasile o dell’Argentina. È risaputo che nell’ultimo decennio c’è stata una rivalutazione dello Stato come agente politico in America Latina, dove questo ha svolto un ruolo fondamentale nel recupero della sovranità di fronte alle pressioni degli Stati Uniti e dell’FMI. Però ciò non è stato esente da controversie sulle politiche estrattiviste e neosviluppiste attuali di alcuni di questi governi. Ultimamente si parla di spostamento a destra, e autori come Raúl Zibechi non hanno smesso di segnalare i conflitti esistenti tra questi Stati e i movimenti indigeni sulle questioni dell’industria estrattiva, dell’agricoltura o dell’acqua (che hanno provocato violenza e repressione da parte dello Stato). Tornando alla Grecia, per come stanno le cose dubito che potrebbe intraprendere politiche di questo tipo, però non c’è dubbio che farà valere, come questi governi, la sua sovranità il più possibile. È necessario per tirare fuori un paese intero dal fallimento e dalla miseria. Sul tema della lotta di classe, in realtà essa non è mai stata progressiva in senso lineare: le congiunture e le correlazioni di forze indicano le strategie da seguire, e queste possono passare dallo Stato come spazio di lotta oppure andare più in là di esso quando si apre un processo rivoluzionario. Il «ritorno allo Stato» come mediazione per lo spiegamento della lotta di classe non deve supporre un passo indietro … non deve supporlo ma – non inganniamoci – può anche significare un ripiego negativo, un ristagno. Da come si configura la trama istituzionale di questo Stato dipendono il grado di apertura alla partecipazione cittadina, la sua radicalità democratica, il ruolo giocato dai movimenti sociali in esso… può servire come blocco per le forze costituenti della democrazia, ma può anche servire come spazio che retroalimenta le lotte sociali. Temo che ci muoviamo su un terreno di incertezza difficile da risolvere. Ad ogni modo, è presto per dire se la Grecia si inserisce o no in una tendenza come quella dei governi latinoamericani. Bisognerà stare attenti.
Julio: Il paragone con i casi latinoamericani è problematico perché in essi il livello di assenza delle istituzioni era bestiale. Si trattava di costruire lo Stato invece di utilizzarlo per attenuare la povertà, la disuguaglianza, ecc. Tuttavia, tra i fattori in comune ce n’è uno che risalta di più: l’idea che il cambiamento deve avere come protagoniste maggioranze sociali ampie costruite intorno a significanti nazionali che le tengano insieme.