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The Working class has no fatherland
Sì, se puede!
Il risultato delle elezioni greche comincia in questi giorni a produrre i suoi effetti. Non le feste di piazza, i sorrisi e le dichiarazioni di rispetto, ma lo scontro con le istituzioni finanziarie europee e mondiali, di fronte al quale anche i governi che «fanno gli auguri» a Tsipras, come quello italiano, si affrettano a dichiarare che le posizioni della BCE sono «legittime». L’eroe Renzi, pronto a cambiare il mondo quando si tratta di rafforzare la presa della precarietà sulle condizioni di lavoro e di vita o di aumentare i poteri dell’esecutivo, si barrica dietro il formalismo quando si va al dunque. Non sorprende. Ben più del bullismo politico di Renzi, quanto sta accadendo ci interroga sull’azione dei movimenti in questa fase nella quale, come è stato scritto, la vittoria di Syriza rappresenta un varco che dobbiamo tenere aperto e allargare. Non si tratta di immaginare l’eterno ritorno dell’uguale, né di prefigurare improbabili repliche di quanto accaduto in un paese vicino. In questa situazione interrogarsi prioritariamente su cosa può fare o non fare la cosiddetta sinistra italiana rischia di essere una condanna all’irrilevanza politica. La folla che ha gremito piazza del Sol a Madrid a sostegno di Podemos, così come quella che è tornata a riempire piazza Syntagma, è il segno di una situazione in fibrillazione i cui esiti non sono per nulla scontati.
Si tratta di cogliere la sfida e l’occasione politica che abbiamo di fronte. Che cosa vuol dire questo? Vuol dire innanzi tutto due cose: primo, mostrare che l’Europa è davvero il nostro campo di battaglia minimo. Questo non si limita al riconoscimento della centralità del movimento Blockupy, la rete che, in questi anni di ritorno al nazionale che ha coinvolto anche gran parte delle reti sociali e di movimento (impegnate troppo spesso in anacronistiche disquisizioni su quanto l’Europa sia auspicabile, dimenticando che da diverso tempo dovremmo aver capito di vivere in un mondo globale), più di tutte ha saputo tenere al centro la dimensione transnazionale e la necessità dell’elaborazione di un’agenda realmente europea. È necessario infatti mostrare l’assunzione del piano europeo anche nella dimensione quotidiana delle lotte e delle coalizioni che si organizzano sul piano locale o nazionale. Secondo, saper leggere nello scontro di potere che si sta dispiegando l’occasione per avanzare dei punti di programma in grado di favorire la comunicazione tra le lotte sul piano transnazionale, inserendo in questa disputa, che si vuole istituzionale, il peso e la voce dei movimenti e di chi quotidianamente lotta per migliorare la propria condizione.
Occorre allora chiarire sin da subito poche cose: la minaccia della BCE di tagliare i finanziamenti alla Grecia produce il rischio concreto di un default e dunque dell’impossibilità da parte dello Stato greco di pagare gli stipendi e i servizi rimasti dopo la scure delle privatizzazioni della Troika. Draghi sa che il potere del portafogli è quello decisivo e, per questo, lo usa adducendo motivazioni tecniche. La Troika lotta per sopravvivere e spera cinicamente che una presenza di massa davanti ai bancomat possa essere più efficace della presenza di massa nelle piazze. Di fronte a questa politica della paura, occorre dire senza esitazioni che il pagamento degli stipendi e dei servizi di base è prioritario rispetto a qualsiasi vincolo di bilancio. Sappiamo che l’economia del debito non si basa sulla reale capacità di pagamento, ma sul giudizio politico che viene dato di questa capacità. È dunque una scelta politica quella cui oggi sono poste di fronte le istituzioni e i governi europei: precipitare nel baratro milioni di persone già duramente impoverite dalla crisi oppure no. Il problema non è se o quanto ci si considera vicini o distanti da Syriza o dai suoi autoproclamati emuli. Si tratta di prendere una posizione netta di fronte alla politica dell’impoverimento sistematico: la nostra voce deve sentirsi forte e chiara. Si tratta di praticare a livello europeo una politica dei governati in grado di contrapporsi a quel governo dell’economia che pretende di decidere sulla vita di milioni di donne e di uomini grazie alla propria supposta legittimazione tecnica. Solo in questo modo può essere resa produttiva la tensione tra movimenti e governi, come sta avvenendo in questo momento in Grecia.
Alcuni provvedimenti annunciati dal governo greco si pongono peraltro nel solco di rivendicazioni portate avanti dai movimenti reali di questi anni. L’innalzamento del salario minimo tagliato dai precedenti governi, il ristabilimento di servizi di welfare e di salario indiretto, come nei trasporti, la fine dei programmi speciali per le espulsioni dei migranti e il riconoscimento della cittadinanza alle nuove generazioni in movimento, la ridefinizione in senso redistributivo della tassazione, la revisione delle leggi sul lavoro che danno mano libera a chi investe, il riconoscimento delle forme di autorganizzazione e mutualismo messe in piedi dopo il radicalizzarsi della crisi, il blocco delle privatizzazioni e l’azzeramento dei vertici di TAIPED, l’agenzia istituita per svendere il patrimonio dello Stato greco, sono punti di una piattaforma programmatica che travalica i confini del governo greco. Lo scontro in atto non è solo uno scontro monetario e sul debito, è uno scontro politico su questi provvedimenti.
Di fronte a questa situazione, occorre dire con decisione che le differenze esistenti nello spazio europeo non limitano la nostra azione, ma la spingono a un livello più alto. Continuare a considerarle solo come dei limiti significa non saper cogliere la fase che stiamo vivendo nella quale, per dirla con una battuta, l’alternativa è: o l’Europa, o la barbarie! Di fronte a questo scenario, si tratta di scegliere se continuare a coltivare piccoli orticelli dai quali disquisire sulla rivoluzione che verrà, o se invece rompere gli indugi, facendo la scelta politica non di difendere il governo greco, ma di allargare le maglie dell’incertezza e della tensione che il solo annuncio delle sue politiche ha portato in Europa. In gioco non è il governo greco, ma la politica dei governati, ovvero lo scontro di classe, in Grecia e in Europa. Non si tratta di mettere in scena questo scontro in qualche piazza, ma di praticarlo sulla scala reale in cui esso avviene.
Praticare lo scontro vuol dire approfittare della situazione creata dalla Grecia, infilandosi nello spazio politico d’azione che essa ha aperto. Significa rilanciare priorità politiche che sappiano incontrare le ambizioni dei lavoratori e delle lavoratrici nei diversi angoli d’Europa. Vogliamo un salario e un reddito minimo europei, capaci di risollevare i lavoratori greci e al tempo stesso allentare per gli altri la presa della precarietà e la povertà di fabbrica. Vogliamo un welfare che garantisca specifici servizi in tutta Europa, a prescindere dalla cittadinanza. Vogliamo il riconoscimento che l’autorganizzazione mutualistica e la riappropriazione sono politicamente legittime quando le prestazioni essenziali non sono garantite. Vogliamo un permesso di soggiorno europeo di almeno due anni per tutti i migranti e le migranti, indipendentemente dal lavoro e dal reddito, e la fine dell’accordo di Dublino sui rifugiati.
È di queste ore la notizia che la cerimonia di apertura della BCE, prevista a Francoforte il 18 marzo, è stata ridimensionata da una parata di capi di Stato a un brindisi tra tecnocrati. Si tratta di un evidente successo per il movimento Blockupy, giunto non casualmente in questi giorni. Si tratta anche di un’opportunità per i movimenti, le reti e le coalizioni che hanno assunto l’orizzonte europeo aperto da Blockupy e per tutti coloro che sino a oggi non ne avevano colto la portata. Si apre la possibilità di rivoltare contro le istituzioni monetarie europee le scelte politiche che sostengono la loro condotta, e contro i governi e le classi dirigenti europee il ruolo attivo e il collaborazionismo diffuso con queste scelte. Al tempo stesso, si apre la possibilità di trasformare questo scontro in una leva di mobilitazione e riconoscimento tra chi, precarie, operai, migranti, in questi anni ha lottato per migliorare la propria condizione di fronte ai colpi della crisi e al pensiero unico dell’austerity. A questo punto per noi è il caso di trasformare la scadenza del prossimo 18 marzo a Francoforte. Non si tratta di andarci per contestare genericamente la BCE, si tratta di andarci per chiedere conto del suo operato. Andremo a Francoforte per domandare: cosa avete fatto alla Grecia? Cosa state facendo dell’Europa? E non accetteremo una risposta tecnica qualsiasi. Nelle forme e nei modi che saranno decisi collettivamente, abbiamo qualcosa da dire. Noi possiamo portare Atene in Europa, e fare finalmente dell’Europa l’orizzonte minimo della nostra azione.