Il 14 novembre è stato una novità. In primo luogo, quella giornata ha avuto la capacità di riportare il lavoro al centro del discorso politico dei movimenti. Non si è trattato soltanto dell’ennesima denuncia delle condizioni oggettive di precarietà e impoverimento, ma anche e soprattutto del punto di partenza di un processo di organizzazione che guarda allo sciopero come pratica e progetto per accumulare forza. In secondo luogo, il 14 novembre stabilisce l’apertura di uno spazio politico le cui potenzialità non stanno tanto nella capacità di mediare tra diverse realtà in vista di un singolo momento di protesta, ma nella pretesa di definire un percorso politico autonomo, credibile ed espansivo, affrontando in comune un problema, un discorso e le corrispondenti pratiche. Tra questi due piani c’è un legame necessario. Quest’apertura è stata possibile proprio perché è stata riconosciuta la necessità di produrre una rottura politica sul terreno del lavoro.
Il radicamento sociale del percorso che ha portato al 14 novembre non si misura perciò sulla sua capacità di dare risposte immediate o rappresentazione a un insieme di «bisogni» altrimenti inespressi, o di unire lotte e vertenze frammentate e sconnesse, ma su quella di stabilire un piano di iniziativa comune per tutti coloro che ogni giorno, in modi diversi, fanno esperienza della precarietà e vogliono liberarsene. Per questo, il successo del 14 novembre non sta esclusivamente nei numeri che abbiamo visto nelle piazze, che pure sono stati rilevanti e hanno permesso di ottenere una visibilità finalmente liberata dalla retorica dell’assedio e dal protagonismo dei militanti. Il successo del 14 novembre si deve misurare sulla capacità di mantenere aperto lo spazio politico che lo ha prodotto e sulla coerenza nell’organizzare lo sciopero come pratica politica in grado di interrompere in maniera significativa il dominio del capitale. Al centro non c’è dunque la pretesa di liberare spazi in cui poter organizzare la propria socialità e la propria vita al di fuori dei vincoli sociali del capitale. Si tratta piuttosto di produrre livelli organizzativi in grado di interrompere con continuità un dominio altrimenti incontrastato. Lo sciopero, cioè, stabilisce una pratica di potere e non si limita a indicare il polo di una negazione. Per questo rivendica una priorità esclusiva, che si impone nel momento in cui supera gli steccati della mediazione e mostra possibilità impensate. In questi termini, lo sciopero è decisivo perfino prima di portare a termine la sua parabola sociale e generale.
Nonostante la novità del 14 novembre, infatti, lo sciopero sociale generale non c’è ancora stato. Siamo riusciti a costruire un’anteprima di quello che vorremmo che fosse, individuando con una certa approssimazione le condizioni grazie alle quali esso potrebbe davvero esserci. L’anteprima è stata così convincente da spingere il più grande sindacato confederale a dichiarare lo sciopero generale. Ora che persino la Cgil ha registrato la fine della concertazione, si tratta di stabilire le pratiche comuni che possono adottare operai, migranti e precarie, contrapponendole al Jobs Act e alle politiche europee sul lavoro. Opporsi al regime del salario e al governo della mobilità significa porsi il problema di una rottura politica sul lavoro, ovvero di farla finita con quelle politiche che attraverso il lavoro stabiliscono la subalternità di milioni di persone. È giunto il tempo di abbandonare le rappresentazioni rassicuranti e minoritarie delle piazze separate che pretendono di parlare ad altre piazze più o meno lontane, che non sono in realtà mai state raggiunte. Allo stesso tempo dobbiamo sapere che non sarà la dichiarazione dello sciopero generale a riportare indietro l’orologio del sindacato confederale. La questione da porsi è come rivolgersi direttamente ai lavoratori in sciopero, sapendo che il 14 novembre parlava anche a loro. La scommessa è quella di fare dello sciopero della Cgil un momento del processo che rende lo sciopero sociale un reale sciopero generale.
Lo sciopero generale, com’è evidente, non è per noi l’anticamera della rivoluzione, ma nemmeno il presupposto per aprire chissà quali mediazioni con il sistema politico. Fuori da ogni mitologia, rendere generale lo sciopero sociale significa rivelarne il carattere pienamente politico, ovvero farne un momento di rottura del comando capitalistico sul lavoro. Lo sciopero generale non può essere l’unione di mille debolezze e non può nemmeno confederare condizioni lavorative che hanno spesso pochissimo in comune. Queste differenze – che vanno dalle condizioni contrattuali a quelle imposte dalle specifiche modalità di erogazione del lavoro (a casa, alla catena di montaggio, dietro una cattedra, davanti a un pc, accanto al letto di un anziano), dalla differenza sessuale a quella imposta dal permesso di soggiorno – devono piuttosto essere messe in comunicazione e organizzate a partire dalla loro specificità. La posta in gioco è quindi quella di «organizzare l’inorganizzabile» e di creare le condizioni affinché la pratica dello sciopero non sia più, e non possa essere, una prerogativa dei lavoratori dipendenti o dei sindacati, ma diventi una pratica politica possibile per quanti sono stati sistematicamente isolati e subordinati anche attraverso la moltiplicazione dei limiti, formali e informali, alla loro possibilità di alzare la testa e incrociare le braccia. Significa riconquistare un terreno di scontro quotidiano così come quotidiano è lo sfruttamento globale del lavoro precarizzato. Quindi uno sciopero generale oggi non può non porsi il problema della dimensione transnazionale che deve progressivamente assumere. Non c’è sciopero sociale generale che possa limitarsi al cortile di casa sua, che non debba porsi il problema dei collegamenti transnazionali che ogni subordinazione rivela. Ogni sciopero che si voglia sociale e generale deve rivolgersi allo stesso tempo contro il regime del salario e contro il governo della mobilità. Il problema non è tanto di esportare sul piano europeo un percorso che in Italia sta avendo una certa rilevanza. Si tratta piuttosto di stabilire un piano di comunicazione e continuità con i movimenti europei, sapendo che il mutamento di dimensione serve anche calibrare in maniera più precisa ciò che stiamo facendo in Italia. Il governo della mobilità funziona secondo regole che divengono pienamente visibili solo allargando lo sguardo fuori dai confini nazionali.
Realizzare appieno ciò che abbiamo intravisto il 14 novembre, a partire dalla sua capacità di scoperchiare tanto la condizione quanto le pretese di organizzazione e di lotta di un corpo del lavoro frammentato e composito, significa pensare un discorso e delle pratiche all’altezza di una dimensione industriale diffusa e mobile, cioè di un comando sul lavoro che travalica tutti i confini un tempo stabili – quelli nazionali e quelli del luogo di lavoro, quelli tra la fabbrica e la metropoli, quelli tra lavoro manuale e intellettuale, quelli tra lavoro e non lavoro, quelli tra le diverse ‘categorie’ – per diventare la vera cifra della società globale. Parlare di «sciopero sociale», soprattutto dopo il 14 novembre, non significa inventarsi forme ‘nuove’ di sciopero che rischiano, malgrado ogni intenzione in senso contrario, tanto di eludere il problema dello sciopero quanto di oscurare le diverse figure della «fabbrica della precarietà». Parlare di «sciopero sociale generale» significa interrogarsi, da qui in avanti, su come creare le condizioni per mettere in comunicazione e organizzare quanti sono ogni giorno soggetti – in modi anche radicalmente diversi – al regime del salario. Per diventare davvero generale lo sciopero sociale può solo riconoscere le differenze che segnano l’esistenza di milioni di operai, migranti, precarie. Nel momento in cui la precarietà diviene la condizione globale del lavoro, solo la costruzione dello sciopero come pratica comune ma differenziata può rendere generale lo sciopero sociale.
Di fronte a queste sfide, definire il ruolo dei laboratori per lo sciopero sociale è tanto difficile quanto cruciale. Lo rende difficile, in primo luogo, la loro composizione, non tanto perché si pone e si porrà il problema di conciliare realtà con discorsi e percorsi differenti, ma perché lì il rapporto tra sindacato e movimenti non può che determinare una tensione che deve essere resa produttiva. La lezione fondamentale della logistica è che i movimenti non possono sostituirsi al sindacato. Come dimostra il fallimento di ogni tentativo che negli ultimi anni sia andato in questa direzione, e come dimostrano le diverse esperienze di «organizzazione dell’inorganizzabile» portate avanti non solo in Italia (dai cleaners londinesi ai fast food workers di New York alle lavoratrici a domicilio in Pakistan, ma prima ancora a Oakland), almeno in un primo momento il sindacato è una struttura insostituibile per queste lotte impossibili. Non si tratta di negare i limiti della forma sindacale, ma di riconoscere che il sindacato è per i lavoratori una tattica fondamentale di conflitto. Si tratta però di una tattica che non esaurisce la sfida dell’organizzazione: essa è possibile all’interno di segmenti omogenei, proprio perché il lavoro è settorializzato, proprio perché è governato da un sistema di leggi – civili e di mercato – ben specifico, e può quindi essere parte di una battaglia di posizione per scompaginare i rapporti di forza all’interno dei luoghi di lavoro. D’altra parte, l’organizzazione non può esaurirsi nel supporto esterno dei «solidali» ai lavoratori in lotta né può significare diventare i nuovi sindacati per realizzare le forme «altre» di (non)sciopero. Si tratta piuttosto di allargare lo spazio dello sciopero, inteso come espressione collettiva di indisponibilità alla subordinazione. I laboratori dello sciopero sociale non dovrebbero essere i luoghi dove si costruisce la mediazione tra i diversi modelli di vertenze, ma dove si sperimenta l’organizzazione di specifiche lotte sul lavoro pensando al contempo un piano organizzativo che non sia confinato solo al lavoro. Già ora essi non sono i «parlamentini» dove si raggiunge la mediazione tra gruppi diversi o tra movimenti e sindacati. I laboratori per lo sciopero sociale sono lo spazio dove la rottura politica sul lavoro viene resa praticabile. Si tratta di costruire al loro interno la fine di una subordinazione quotidiana e opprimente che tutti coloro che sono costretti a lavorare riconoscono senza alcuna difficoltà. Ciò non significa che il lavoro possa tornare ad avere la centralità politica che aveva un tempo. Non stiamo sostenendo alcun neolavorismo. Pensiamo solamente che la precarietà globale ha reso evidente che il rifiuto del lavoro non libera dallo sfruttamento.
Liberarsi dallo sfruttamento impone di non chiudere gli occhi sui luoghi dove esso matura. Per affinare lo sguardo su questi luoghi sono necessari laboratori dove assieme all’iniziativa venga prodotto anche il discorso che la deve sostenere. Se riconosciamo che il 14 novembre è stato una novità, dobbiamo anche ammettere che non sarà più tale se si ripeterà uguale a se stesso. La necessità di individuare ulteriori momenti di piazza – più o meno legati alle agende parlamentari e agli iter di approvazione delle riforme sul lavoro – è per molti versi necessaria, nella prospettiva di mantenere viva l’attenzione sul progetto e non disperdere le forze che il 14 abbiamo portato in piazza, ma rischia anche di essere una trappola che ci condanna all’inseguimento di scadenze che non siamo ancora nella condizione di determinare. Affermare che è tempo di sciopero sociale significa anche registrare che lo sciopero sociale ha bisogno del suo tempo. Bisogna avere il coraggio di fare due passi indietro rispetto alle pratiche usuali di movimento per poterne poi fare uno in avanti verso lo sciopero sociale generale.