di GABE CARROLL, da New York (@GabeKCarroll)
La lettura della decisione del Grand Jury di non procedere in alcun modo contro Darren Wilson, il poliziotto che ha ucciso Michael Brown Jr, è stata preceduta da settimane di tensione, ma ha avuto nessun effetto distensivo. L’intera procedura del Grand Jury è stata da subito controversa e il PM Bob McCullough (storicamente favorevole alla polizia) in più occasioni ha trasformato il tutto in un processo alla vittima e ai testimoni, forse sabotando la possibilità di procedimenti futuri. La notizia che per l’ennesima volta la polizia sia stata assolta per l’omicidio di una persona di colore ha scatenato una risposta istantanea, forte, a tratti violentissima e in tutte le situazioni estremamente determinata. Il presidente Obama ha ricordato le parole del padre di Mike Brown, invitando i manifestanti alla calma e chiedendo di evitare l’uso della violenza contro polizia o proprietà, ma a Ferguson si sono verificate entrambe in più occasioni e il tono delle contestazioni è tutt’altro che pacifico.
La lettura del verdetto è arrivata attorno alle 20:30 ora di Ferguson (4:30 ore italiane). In diverse altre città americane (New York, Philadelphia, Washington, Seattle, Los Angeles, Oakland) si erano già creati presidi in attesa del verdetto. La notizia che Darren Wilson non sarebbe stato processato (neanche per un reato «minore» come omicidio preterintenzionale o comportamento irresponsabile) è stata la conferma delle peggiori aspettative: lo Stato assolve la polizia, assolve se stesso, continua ad accettare e a normalizzare l’omicidio di persone di colore. A Ferguson, dopo che la madre di Mike Brown in stato di shock è stata portata via da famiglia e sostenitori, molti manifestanti hanno diretto la loro attenzione su una grossa barricata eretta dalla polizia, sgomberandola, allontanando la polizia e dando il fuoco a una volante lasciata indietro. Questo ha dato il via a una lunga notte di blocchi, scontri, e danneggiamenti che hanno portato all’arresto di più di ottanta persone. La polizia ha fatto ampio uso di lacrimogeni e altre armi (come le granate a percussione) e, come successo quest’estate, ci sono diverse voci non confermate sull’uso (o quantomeno sulla presenza) di armi da fuoco tra alcuni dei manifestanti. La città di Ferguson era già militarizzata da settimane (in un certo senso non ha mai smesso di esserlo da quest’estate) e le autorità locali avevano da giorni dichiarato uno stato di emergenza nella zona. Diverse fonti di polizia hanno affermato che le violenze di ieri sera erano più intense di qualsiasi notte di scontri avvenuta quest’estate.
A New York una manifestazione di circa 2 mila persone è partita da Union Square, bloccando il traffico e resistendo ai tentativi della polizia, a piedi e in motocicletta, di limitare il corteo a una corsia. Il corteo è entrato a Times Square per fermarsi al suo centro, bloccando per diverso tempo uno delle intersezioni principali della città. A questo punto ci sono stati momenti di parapiglia, quando il commissario di polizia Bratton è stato fatto oggetto di lancio di sangue finto, portando all’arresto di un paio di manifestanti. Altri hanno continuato il corteo e in altre parti della città concentramenti preorganizzati hanno dato il via al blocco temporaneo di tre dei ponti principali di New York.
Va ricordato che giovedì a Brooklyn la polizia ha ucciso un altro uomo afroamericano, Akai Gurley, nelle scale interne di un complesso di case popolari nel quartiere di East New York. Stanco di aspettare un ascensore, il ventottenne (che era stato a casa di un amico con la sua fidanzata) era entrato nelle scale, al buio perché la luce non andava. In quel momento due poliziotti stavano conducendo una vertical patrol, un pattugliamento interno ai palazzi popolari mirato a stanare lo spaccio che si concentra sulle scale interne e sul tetto. Inspiegabilmente uno dei due poliziotti, Peter Liang, stava conducendo il pattugliamento con l’arma in pugno e quando Gurley ha aperto la porta gli ha sparato, a suo detta per sbaglio. La polizia di New York (primo fra tutti Bratton) ha dichiarato che l’uccisione di Gurley è stata un tragico errore e che Gurley era completamente innocente (non prima di aver reso pubblica la sua fedina penale, però), cercando di trasformare in disgrazia quello che per le comunità afroamericane e di colore è un incubo istituzionalizzato: uomini armati che pattugliano all’interno dei loro palazzi, autorizzati a distinguere tra chi è completamente innocente e chi lo è un po’ meno, senza che lo stesso diritto sia permesso alle comunità di colore nei confronti della polizia. La rabbia per la morte di Akai Gurley si somma a quella per gli omicidi commessi dal NYPD dell’ultimo decennio: Eric Garner, il sedicenne Kimani Gray, Sean Bell e Timothy Stansbury, morto dieci anni fa in una situazione molto simile.
Lo slogan «Black lives matter» è stato scandito a più riprese nelle manifestazioni degli ultimi mesi, insieme a «Hands up dont shoot». Questo slogan molto semplice sottolinea l’assurdità della situazione di chiunque si sia mai trovato a scontrarsi con l’impunità delle forze dell’ordine e la tragica ripetizione di morti di Stato. Bisogna ricordare a tutto il paese, e a tutto quel paese che si sente protetta dalla polizia in particolare, che non ci devono più essere giustificazioni per una vita rubata. Purtroppo, per lo Stato e per il sistema giudiziario, la giustificazione c’è: è stata eseguita la prassi. L’operato della polizia nell’uso della forza mortale può essere messo in discussione solo in alcune situazioni e, quando succede, quasi sempre è solo per convalidare il gesto. Prendendo nota della tragedia, della vita che non c’è più, ma andando avanti, sottolineando quanto la polizia ha agito e agisce all’interno della legge e seguendo l’addestramento che ha ricevuto per svolgere il proprio ruolo di tutela dell’ordine e protezione della società e della proprietà. Ed è proprio questo che questo nuovo movimento vuole denunciare e sconfiggere. Una polizia addestrata a guardare alle comunità afroamericane come inerente minaccia alla stabilità del paese, di procedere armati per le case popolari alla ricerca di un colpevole, di sparare prima e aspettare l’assoluzione dello Stato dopo. Se la rabbia e il lutto per la morte di Mike Brown hanno alimentato le prime settimane di contestazione quest’estate, è evidente che a Ferguson e attorno a Ferguson sia nato qualcos’altro. Le piazze di ieri hanno reso palese una volontà politica che va oltre la rabbia, che vede nella criminalizzazione delle persone di colore e nell’impunità della polizia uno strumento politico che mantiene e rafforza le gerarchie di classe iscritte nelle linee del colore che attraversano la composizione sociale del paese. Piazze che vogliono riprendere in mano il movimento e il discorso dei diritti civili come qualcosa che mira a una trasformazione radicale del presente. La maturità politica di questa nuova generazione di attiviste, attivisti e organizers si è vista in ottobre, quando a Ferguson hanno preso il controllo di un’assemblea al grido di «se non venite alle manifestazioni tornatevene a casa», accusa rivolta alla leadership istituzionalizzata del movimento per i diritti civili.
Questa nuova piazza dei diritti ha dato prova di sé ieri e oggi tornerà in strada, con due obiettivi politici che vogliono essere di massa: #IndictAmerica e #ShutItDown. Il primo vuol dire che, anche se Stato e polizia si sono assolti, la forza del movimento post-Ferguson li ha messi sotto processo nelle strade e continuerà a farlo, davanti a tutto il paese e a tutto il pianeta. La seconda segna la volontà di bloccare flussi urbani e commerciali, l’innovazione tattica che l’esperienza Occupy ha lasciato come patrimonio, perché la discriminazione del razzismo istituzionale esprime una gerarchia di classe su cui si è edificato il capitalismo statunitense e non la si può attaccare separando la dimensione sociale da quella economica.
Una giuria composta di due terzi di persone bianche ha dichiarato che Darren Wilson non è colpevole di alcun reato. L’indagine federale sulle pratiche della polizia di Ferguson farà il suo corso, ma nessuno ormai pensa che questo possa dare giustizia alla memoria di Mike Brown e alla sua famiglia. Quello che è certo è che il vero processo si sta svolgendo nelle strade di Ferguson e di tutto il paese. Sotto accusa non sono solo le pratiche della polizia ma l’intera la gerarchia sociale che quelle pratiche difendono e dalla quale vengono puntualmente giustificate e assolte.