di GABE CARROLL
Kobane sta cadendo. Ormai è impossibile negarlo. Dopo giorni che hanno visto i combattimenti più feroci dell’assedio, i combattenti dello Stato islamico sono entrati da est e ovest, sfondando le linee con carri esplosivi. Hanno così ripreso le alture che le YPG avevano brevemente riconquistato nella notte tra il 5 e il 6 ottobre, e guadagnato posizioni dalle quali poter bersagliare ininterrotamente la città con mortai e carri armati. Le YPG, che sembrano consapevoli della sconfitta imminente, si sforzano per evacuare gli ultimi civili rimasti e cercano di recare il massimo danno possibile ai jihadisti prima di soccombere. Ieri una comandante YPG, Arin Mirkan, si è fatta esplodere in un attacco contro una posizione dell’ISIS. Questa tattica non è sconosciuta al PKK turco (che però se n’è servito raramente), ma non sembra essere mai stata praticata dalle YPG e indicherebbe che la battaglia sta raggiungendo la sua ultima fase. Gli attacchi aerei americani sono occasionali e notturni e sembrano aver solo rallentato l’avanzata islamista. Giornalisti della BBC parlano di un viavai di ambulanze sul lato turco del confine, indicando l’arrivo, quantomeno prospettato, di civili ed eventualmente anche combattenti feriti. Si prospetta una lotta strada per strada, casa per casa, fino all’ultima donna e uomo. La città di Kobane non è piccola, si stima che ancora almeno 2mila combattenti curdi siano dentro la città e che sicuramente resisteranno, ma è evidente che, se le cose procedono di questo passo, la città cadrà a breve.
Il comportamento delle autorità turche, criticato non solo dai curdi, ma ormai anche a livello internazionale, non è cambiato nel corso del fine settimana, nonostante l’impegno preso di impedire la caduta di Kobane nelle mani del califfato. Durante i combattimenti del 5 giugno un razzo jihadista ha raggiunto la Turchia, ferendo una famiglia. La risposta della polizia schierata sul confine non si è fatta attendere: lo sgombero violento di profughi e attivisti curdi dalla zona immediatamente attorno al confine, con tanto di lacrimogeni sparati su una troupe della BBC. Il PKK ha usato parole molto pesanti contro lo Stato turco, promettendo che il tradimento di Kobane sarà la fine del processo di pace tra PKK e Ankara, e l’inizio di una nuova campagna armata nel Kurdistan turco e oltre. Erdogan sembra disposto a questo rischio, e prende sempre più credibilità l’ipotesi che aspetti l’annientamento delle YPG per intervenire.
Si moltiplicano le azioni di protesta delle comunità curde nel mondo. Tra di esse vi sono l’occupazione temporanea di una stazione della metropolitana di Londra, scontri e manifestazioni in diverse parti della Turchia, attacchi alle sedi dell’AKP, manifestazioni in Germania. Si moltiplicano gli appelli alla mobilitazione in solidarietà a Kobane, come quello di Salih Muslim, presidente del PYD, espressione politica delle YPG, alla solidarietà e a una mobilitazione generale dei curdi nel mondo. «Le YPG e le YPJ e la popolazione di Kobane stanno sostenendo una grande resistenza. Tutti devono vederlo e dimostrare solidarietà. Il mondo è rimasto in silenzio, come se fosse complice di questi massacri. Tutto sta avendo luogo di fronte a loro, ma non fanno niente. Vogliamo armi, ma non vogliono nemmeno vendercele». Dalla Turchia l’HDP (partito di massa della sinistra radicale) fa appello «alla solidarietà, invitando i popoli d’Europa, tutte le forze democratiche europee ad agire immediatamente, a mostrare la loro solidarietà con il popolo di Kobane allo scopo di evitare un massacro simile a quello degli Yezidi in Sinjar, degli armeni in Kesab, degli aleviti in Lazkiye e degli Assiri a Ninive. Questa solidarietà, da un lato, può darsi sotto forma di sostegno politico nelle istituzioni e nei parlamenti; dall’altro lato può avere anche la forma di aiuti umanitari e materiali che permetteranno la sopravvivenza di decine di migliaia di donne e bambini che sono fuggiti dalla guerra e dal conflitto e che sono costretti a vivere nei campi, soprattutto considerando che l’inverno si avvicina». Ormai le speranze per Kobane sembrano svanire, e con esse (per il momento) quelle per la rivoluzione di Rojava. Ma anche se Kobane cadrà, sarà impossibile dire che tutto finisce qui. Da un punto di vista umano i quasi 200 mila profughi non scompariranno dalla zona turca; porteranno con sé la volontà che ha animato la rivoluzione di Rojava e la difesa di Kobane e rappresenteranno una contraddizione per lo Stato turco, insieme a quella già rappresentata dalle regioni kurde storicamente sotto il suo dominio. Le altre forze, politiche e armate, che animano il KCK (il PKK in primis), non smetteranno di lottare e certamente non si dimenticheranno di Kobane.
Buona parte dei movimenti è arrivata tardi a occuparsi di Rojava, cominciando a documentare la rivoluzione quando purtroppo ormai entrava nel suo scontro decisivo, ma la necessità di una mobilitazione politica verso quella situazione rimarrà anche qualora le YPG venissero annientate. Come l’appello dell’HDP ricorda, c’è un’emergenza umanitaria, un esodo umano prodotto dall’assedio che durerà per anni, non per mesi. Una contraddizione umanitaria tutta politica, fatta di persone che hanno subito una vera e propria punizione armata per non aver voluto accettare la scelta tra una dittatura e un’altra e hanno provato a costruire un’alternativa laica, socialista, libertaria, femminista. Tra le migliaia di profughi queste rivendicazioni continueranno a vivere e trovare espressione organizzata e questa volta il sostegno, politico e umanitario, da parte dei movimenti non può assolutamente mancare. La tentazione di adoperare una retorica eroica, quasi mitologica, per onorare le combattenti e i combattenti delle YPG è forte, sicuramente meritata, ma da evitare. L’idea di costruire uno spazio di autodeterminazione egualitario, socialista, pluralistico, indipendente, capace di accogliere profughi (come nel caso dei cristiani arabi e assiri fuggiti da altre parti della Siria) e persino di prestare soccorso in altri paesi (buona parte del merito del salvataggio degli Yezidi sullo Sinjar è stata delle YPG), sembra un’idea impossibile, irrealizzabile, oltre ogni realismo politico, ovunque uno si trovi a fare politica. E loro lo hanno fatto, in Medioriente, in mezzo a una guerra civile, contro tutti. Non è la dimensione sovrumana o mitologica di questi rivoluzionari del ventunesimo secolo che andrà comunicata e, purtroppo, ricordata. È l’estrema materialità di quello che queste donne e uomini hanno portato alla luce per due anni che rende la loro lotta così attuale, così importante, per i movimenti e non solo.